LA MENTE ACCOGLIENTE. TRACCE PER UNA SVOLTA ANTROPOLOGICA...
PERFETTE SCONOSCIUTE
Mileva Mariç, genio della matematica
E il patto osceno con l’ex marito Albert Einstein
di Maria Tilde Bettetini *
Non ci sono certezze, è inutile accanirsi. Però è davvero improbabile che sarebbe andato avanti negli studi, riuscendo con tanto successo senza di lei, Mileva Mariç. Stiamo parlando di Albert Einstein, un nome che nel parlare comune ha preso il significato di “genio”, “sono l’Einstein delle parole crociate”. Il premio Nobel per la fisica del 1921, si sa, aveva problemi con la matematica, non è una novità che le due materie presuppongano lo sviluppo di modalità differenti dell’intelligenza, ora più immediate e intuitive, ora più immaginifiche. E si sa che questi problemi non si sono risolti semplicemente col passare del tempo, come è sottinteso quando si incoraggia un bambino a scuola, anche Einstein da piccolo non era bravo in matematica!
Che ruolo abbia avuto dunque la sua amica, poi amante, poi prima moglie, genio precoce della matematica, non è difficile immaginare, anche se nessuno ne fa parola. Lo fa il romanzo in questi giorni in libreria di Marie Benedict, La donna di Einstein (Piemme), che racconta le due vite prima legate e poi parallele di Albert e Mitza, o Mileva, o Milena.
Si erano conosciuti a Zurigo, entrambi studenti al Politecnico, se pur con bagaglio assai diverso: Albert è tedesco, la famiglia in Italia, ha ripetuto due volte l’esame di ammissione; Mileva è serba, ha girato col padre militare il suo paese e l’Austria-Ungheria, parla tre lingue, ha fatto la maturità a Berna. Li accomunano caratteri ombrosi, solitari; la passione per le scienze; una notevole bruttezza fisica, in lei accentuata da zoppia congenita. Mileva è la quinta donna in assoluto a riuscire a entrare al Politecnico di Zurigo, l’unica del suo anno a matematica e fisica. Agli esami finali Albert passa per un pelo (e infatti non riceve alcuna proposta di lavoro, a differenza dei colleghi), Mileva è bocciata due volte.
La seconda, forse non l’agevola essere evidentemente incinta. La famiglia Einstein non approva: “Quella zoppa ti rovinerà la vita, non vedi che è già vecchia?”, scrive la mamma tedesca, riferendosi ai quattro anni di differenza. Mileva partorisce Lieserl a fine gennaio 1902, a casa. Né il padre né altri vedranno la bambina, forse morta di scarlattina, forse data in adozione, ma nel frattempo Albert proprio a Berna trova lavoro, lì il 6 gennaio 1903 si sposano. Tra le mille incertezze, questo è certo, perché Mileva ha sempre conservato con cura i documenti del matrimonio.
Dalle loro lettere, pubblicate in italiano nel 1993 (Bollati Boringhieri), apprendiamo che lui si sente capito da lei come da nessun altro, che sarà felice e orgoglioso di portare a una conclusione certa “il nostro lavoro sul movimento relativo”. Ancora non ha affermato, come farà poi, che “non avrebbe mai consentito a una sua figlia di studiare fisica”.
Mileva a tale lavoro dedica la sera e spesso la notte, dopo aver sbrigato le faccende domestiche e aver messo a dormire i due bambini nati nel frattempo. Siamo una sola pietra, afferma Mileva, giocando sul cognome ora anche suo: Wir sind ein-Stein!, per questo non mi importa che ci sia solo il suo nome nelle pubblicazioni (che cominciano a attirare l’attenzione del mondo scientifico), siamo noi, siamo “gli Einstein”.
Ma nel volgere di pochi anni, il tempo le avrebbe dato torto. Fino al 1910 Einstein è un impiegato dello Stato, che dedica alla scienza tutto il tempo libero. Dal 1910 ha una cattedra di Fisica a Praga, tutta la famiglia lascia Berna per Praga, poi Berlino e poi - Albert solo - per tutta l’Europa, dove contesti scientifici e mondani richiedono a gran voce la presenza del piccolo geniale scienziato.
La relazione con la cugina di primo grado, poi seconda moglie, Elsa Einstein in Löwenthal, incrinò definitivamente i rapporti tra marito e moglie. In questo periodo Albert iniziò a provare fastidio per lei, a “trattarla come un’impiegata che non posso licenziare”, evidentemente preso dal fascino di Elsa (comunque più grande di lui, due anni invece di quattro).
Arrivò a scrivere alla moglie le sue condizioni, un documento raccapricciante (riportato per noi, tra altre cose, in Donne pazze, sognatrici, rivoluzionarie, di Milton Fernandez, Rayuela Edizioni). In cambio del suo impegno a trattarla con cortesia (“come faccio di solito con tutti gli estranei”), lei avrebbe dovuto: preoccuparsi dei suoi vestiti, di tre pasti regolari, dell’ordine nelle sue cose senza però toccare la scrivania.
Tranne quando richiesto dalle apparenze sociali, avrebbe evitato di sedersi accanto a lui anche a casa, non avrebbe atteso alcuna manifestazione d’affetto né avrebbe rinfacciato questo comportamento, sarebbe dovuta correre a ogni richiamo e andarsene appena così comandata, non avrebbe mai denigrato il padre davanti ai bambini.
Un patto osceno? Non più di tanti che si consumano in case normali, oggi come allora (meno, forse). Mileva, con la stessa forza che la aveva portata a studiare come gli uomini, prende i bimbi e se ne va, torna a Zurigo. I documenti del divorzio, firmati nel 1919, riportano che Albert Einstein si impegnava a darle l’ammontare di eventuali premi futuri. Pensava al Nobel, che infatti arrivò nel 1921.
A Mileva e ai figli andarono i denari, ma lei poteva spostarne solo una percentuale, sufficiente comunque a vivere e a curare il figlio Eduard, malato di schizofrenia; il grande invece, Hans Albert, divenne ingegnare e poi raggiunse il padre negli Stati Uniti, dove si era stabilito nel 1933 in fuga dalle persecuzioni naziste. -Vicissitudini economiche e malattie accompagnano gli ultimi anni di Mileva Mariç, non del tutto abbandonata economicamente da quello scienziato famoso ormai nel mondo, simbolo di ogni genialità, non tanto bravo, però, in matematica. Era lui che aveva detto che “è più facile disintegrare un atomo che un pregiudizio”.