LA LUCE, LA TERRA, E LA LINEA DELLA BELLEZZA. AL DI LA’ DEL NARCISISMO E DELLA FASCINAZIONE MORTALE DELLO SPECCHIO ...*
L’occhio è visionario
di Maria Luisa Ghianda *
“Il nostro occhio è portato a vedere le cose e non ciò che le rende visibili, vede oggetti illuminati dalla luce ma non la luce che li illumina, né il tono delle ombre che avvolgono la loro superficie, né quello dei riflessi che rimbalzano su di esse; vede che l’erba è verde, le ciliegie sono rosse e il cielo è azzurro, ma non isola il fenomeno cromatico dalla cosa in cui si manifesta, vede cioè cose colorate e non il colore delle cose.”
Con queste parole Giuseppe Di Napoli ci introduce al suo studio: “Nell’occhio del pittore. La visione svelata dall’arte” stabilendo fin da subito che l’uomo comune non guarda il mondo alla stessa maniera del pittore.
Nonostante l’evoluzione della specie umana, il nostro occhio, infatti, guarda ancora come faceva ai primordi, selezionando rapidamente gli elementi che sono utili per la sopravvivenza (distinguere in fretta le cose nocive o pericolose da quelle innocue; quelle velenose da quelle commestibili; i predatori dalle prede etc.) lasciando in secondo piano tutto il resto. I pittori, invece, con il loro “sguardo straniero”, tendono ad isolare i dettagli, a cogliere i colpi di luce su un oggetto, su un volto, o su paesaggio, si occupano delle ombre (sarà Delacroix il primo a scoprire che le ombre sono colorate e quelle da lui colte nei suoi “Diari” sono strepitose) ma soprattutto indagano la forma e sono maestri nel metterla in relazione con il suo intorno. Già, perché il pittore, anche se dipinge scene verosimili, non “riproduce” mai in modo pedissequo il vero visibile, anzi, per dirla tutta, non lo riproduce affatto, almeno non secondo l’assioma di Paul Klee, che recita: “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”. Ecco dunque in cosa consiste il lavoro del pittore, guardare il mondo per rendere visibile ciò che esiste ma che non cade necessariamente sotto il senso della vista; e se invece l’oggetto da lui selezionato e indagato risultasse già visibile, egli ce lo mostra in un modo in cui non avremmo mai saputo vederlo. Lo studio di Giuseppe Di Napoli si occupa proprio di questo: “portare il lettore a guardare le cose con gli occhi dei pittori”. E così l’avventura dello sguardo ha inizio.
Che la rappresentazione della realtà offerta dalla pittura occidentale, soprattutto dopo la messa a punto del sistema prospettico, sia illusoria, concettualistica e dunque per nulla simile al vero visibile è un dato acclarato. Non si deve infatti dimenticare che la prospettiva centrale piana come sistema di ‘messa in scena’ del reale, si fonda su dei paradossi che ne stigmatizzano l’intellettualismo: a) innanzi tutto la realtà è supposta immobile (cosa non veridica, perché attorno a noi e sotto i nostri piedi tutto si muove, la terra gira su se stessa e ruota attorno al sole); b) in secundis il pittore fa conto che la scena da lui osservata e che vuole riprodurre sia immersa nel vuoto, in una sorta di camera pneumatica ben lontana dalla realtà atmosferica che ci circonda; c) egli poi guarda il mondo stando perfettamente immobile, quasi senza respirare perché persino il più impercettibile dei movimenti disequilibrerebbe il meccanismo-quadro; d) non soltanto egli guarda il mondo stando immobile, ma lo osserva addirittura con un occhio solo (visione monoculare).
Nulla dunque di più dissimile dall’osservazione della realtà che ci circonda e che caratterizza la nostra esperienza visiva quotidiana. La prospettiva, questa tecnica messa a punto nel Rinascimento, consente al pittore di osservare la realtà nel modo in cui egli desidera e vuole, un modo che non è per nulla ‘realistico’, ma è anzi frutto di una raffinata costruzione intellettuale.
Il saggio di Di Napoli prosegue ragionando sui confini dell’immagine pittorica, che sono costituiti dai limiti oggettivi della tavola, della tela o della parete su cui essa è dipinta e affronta il problema dell’inquadratura (l’origine etimologica di questo termine, tra l’altro, risale al XIX secolo e significa proprio ‘collocare nel quadro’) e disquisisce sul ruolo della parola nella pittura, ovvero sul titolo delle opere, la cui esigenza ha una nascita piuttosto recente, in quanto comincia ad essere ritenuto indispensabile solo a partire dalla seconda metà del secolo scorso, non escluso il paradosso dell’incongruenza fra titolo e immagine dipinta operato da René Magritte ne “L’uso della pipa”, o quello provocatorio dei ready made di Marcel Duchamp.
Proseguendo nella lettura del libro si incontrano poi sapienti disamine di particolari opere d’arte in cui lo sguardo erra (nel duplice senso di vagare e di sbagliare), come ad esempio quella dedicata alla tela di Velázquez del 1657 “Las hilanderaso Il mito di Aracne”. Qui l’autore lungamente si sofferma a proporre le molteplici possibilità di lettura dell’opera, in quella che lui stesso definisce “visione stratificata” offerta dal Maestro spagnolo che in questo, come in molti altri suoi quadri, “mette in scena un vertiginoso slittamento di piani interpretativi”.
Chi poi fosse convinto che le prime rappresentazioni pittoriche di oggetti in movimento siano ascrivibili al Futurismo, non ha fatto i conti con Keplero, con Descartes e con Velázquez, naturalmente. I primi studi del matematico e astronomo tedesco sui processi della visione oculare datano infatti al 1604 fornendo a Descartes preziosi elementi per perfezionare la propria ricerca in merito. Che Velázquez conoscesse o meno le teorie dei due scienziati poco importa, visto che ne ha comunque messo in pratica gli esiti. Lo scopriamonel guardare il dettaglio ingrandito delle “hilanderas”, in cui si vede chiaramente che la ruota dell’arcolaio sta girando.
“Eppur si muove”, verrebbe da esclamare; nonostante non si tratti del nostro pianeta, il curioso effetto visivo desta in noi una grande sorpresa, perché siamo perfettamente coscienti che si tratta di un’immagine bidimensionale e dunque giocoforza statica essendo solo una superficie dipinta.
Nel suo studio, Di Napoli sfata in seguito un altro mito: non spetta infatti ai Realisti francesi dell’Ottocento, Gustave Courbet in testa, poi emulati dai più famosi Impressionisti, il primato della pittura en plein air, esso tocca invece a Velázquez, che lo segnò ben due secoli prima (e con le oggettive difficoltà del non avere a disosizione il colore a tubetti- inventato solo nell’Ottocento - ma le scomode vesciche di bue in cui era prima contenuto e che ne rendevano arduo e rischioso, se non addirittura impossibile, il trasporto fuori dall’atelier).Questo primato di dipingere all’aria aperta “il pittore dei pittori”, come ebbe a definirlo Edouard Manet, lo segnò a Roma nelle due splendide tele il cui soggetto principale non è quello enunciato dal titolo, “L’entrata della grotta a Villa Medici” e “Il padiglione di Arianna nel giardino di Villa Medici”, bensì il vibrare della luce su pareti bianche incorniciate da una tremolante vegetazione che lascia dardeggiare tra le sue fronde i raggi del sole.
Non si tratta di semplici paesaggi, questi dipinti, che sono di una modernità sconcertante, costituiscono invece una vera e propria “lezione di pittura pura”. Si deve intendere per pittura pura la pittura in quanto tale, che esiste indipendentemente dalla scena che raffigura, una pittura che non è riproduzione-duplicazione del reale, ma viene a costituire una nuova realtà, narrata solo nella pittura medesima, che per il suo tramite si fa verità. Si pensi ad esempio al trompe l’oeil bramantesco in Santa Maria presso San Satiro, a Milano, un alto saggio di “pittura pura”, che, non imitando alcuna realtà ma creandone una nuova la reifica solo in virtù della materia e della forma con cui è dipinta. Essa è artificio ma è anche artefatto, arte factus, nel suo significato primario di fatto ad arte. O ancora si pensi ai quadri di Malevic’ e a tutta la Pittura Concreta cui essi hanno dato il là, che porta ad affermare che il vero contenuto figurativo della pittura risiede nell’atto stesso del dipingere.
È soprattutto lo sguardo del pittore,e dopo di essoquello dell’osservatore, a fare di un quadro (di una superficie coperta in fin dei conti soltanto di macchie colorate) un’opera d’arte. “I quadri li fanno coloro che li guardano” ha affermato Marcel Duchamp, e quindi dapprima il pittore e poi il suo pubblico.
È ancora un’opera di Velázquez, la sua più nota, “Las Meniñas”, a confermare questa verità. In essa il Maestro moltiplica gli spunti visivi, invitando così lo sguardo dell’osservatore a viaggiare al suo interno, declinando “punti di vista collocati in differenti ambiti spazio temporali: sguardi contigui ma cronologicamente distanti”. Anche qui il pittore spagnolo ci propone, come spesso accade nelle sue opere, immagini dentro l’immagine, “aporie percettive della stessa visione”, inducendocosì lo sguardo dell’osservatore a peregrinare all’interno del quadro, come farebbe se guardasse il mondo reale, sollecitato dalla sua multiformità e non come se stesse osservando una superficie, immobile per definizione, ricopertadi strati di colore. Come già ne“Las hilanderas”, non è soltanto la ruota dell’arcolaio a muoversi ma è soprattutto l’occhio dell’osservatore che si muove all’interno della scena, sollecitato dall’artista a “distinguere la veridicità della realtà che l’immagine riproduce dalla verità della pittura”.
Nel dipingere, tutti i pittori, Velázquez compreso, mettono poi in campo un “duplice sguardo”, che, per il solo effetto della visione, fa sì che quando si guarda il dipinto damolto vicino esso appaia tal quale è, ovvero una superficie ricoperta di materia colorata, fatta di rapidi tocchi di pennello, di macchie, di puntini, di tratti o di grumi, ma se visto da lontano svela dettagli precisi e minuziosamente definiti, come, ad esempio, il riverbero della luce su una superficie metallica, magari quella di un’armatura; la lucentezza della seta; la morbidezza di un velluto; la leggerezza di un tulle; lo scintillio dell’oro, o la foschia di un’ombra, etc. Questa peculiarità dell’opera dipinta induce anche l’osservatore ad esercitare la stessa duplicità di sguardo, avvicinandolo e allontanandolo dalla superficie dipinta, come se andasse alla ricerca della differenza che esiste tra la verità offerta da ciò che vede dipinto e la verità di ciò che vedein natura. “Perché il mistero della pittura non è là dove lo cerchiamo, ma nei nostri occhi che lo indagano”, ci conferma Di Napoli.
Sono molte le pagine che l’autore dedica poi alla pittura di paesaggio e al tipo di sguardo di cui essa necessita per essere percepita non esclusivamente come realtà fenomenica dipinta ma anche, e forse soprattutto, come visione interiorizzata, come espressione di uno stato d’animo proiettato sul luogo riprodotto, sia da colui che lo dipinge, che da colui che lo guarda dipinto. Si tratta di pagine liriche e non soltanto perché alla poesia fanno diretto riferimento, soprattutto a Petrarca, la cui lettera, datata 1336, dove racconta la sua ascesa al Monte Ventoso, segna la data di nascita della visione/descrizione del paesaggio, ma per gli orizzonti, non solo metaforici, che ci dischiude portandoci per mano a scoprire la pittura di paesaggio cinese e la sua tradizione millenaria. Ci narra di quei paesaggi osservati da molto lontano e da un punto di vista molto elevato e riprodotti con l’assonometria cavaliera e non già con la prospettiva centrale piana diffusa in Occidente, costruiti quindi con linee parallele sovrapposte, che consentono all’osservatore di “percepire la lontananza come una dimensione psichica e spirituale piuttosto che come una condizione ottica”.
C’è un artista occidentale che costruisce i propri quadri facendo preferenzialmente ricorso a fasce cromatiche parallele tendenti all’infinito, quasi alla stregua della pittura orientale (pur senza conoscerla ma per una sorta di “consonanza percettiva e spirituale”), si tratta del pittore romantico tedesco Caspar David Friedrich. Rinunciando alla costruzione prospettica, che obbligherebbe l’osservatore ad assumere l’unicità del punto di vista del pittore, egli lascia invece che l’occhio di questi sia libero di fluttuare all’interno del quadro inducendolo a ricercavi non soltanto ciò che vede davanti a sé bensì a mettere in moto anche il proprio sguardo interiore.
“Chiudi il tuo occhio fisico - con queste parole Friedrich esorta il pittore - così da vedere l’immagine principalmente con l’occhio dello spirito. Poi porta alla luce quanto hai visto nell’oscurità, affinché si rifletta sugli altri, dall’interno verso l’esterno.”
Tale invito alla bifocalità costituisce la cifra poetica di questo straordinario artista,che nelle sue opere inserisce assai di frequente figure di schiena (sul tema delle Figure di schiena nell’arte europea dal XIV al XVII secolo si legga anche il saggio di Luigi Grazioli). I personaggi guardanti di Friedrich (le Rückenfiguren, le figure viste da dietro), che guardano al di là (oltre) la scena dipinta, in cui essi stessi sono inseriti, suggerendo un altro punto di vista del tutto differente da quello dell’osservatore esterno, costituiscono l’espediente visivo messo in campo dal pittore per creare un collegamento tra ciò che ha dipinto e il riguardante, offrendogli la possibilità di ‘entrare’ metaforicamente nel quadro, assumendone non soltanto la profondità spaziale ma facendo propria anche quella spirituale da esso evocata.
Scrive Di Napoli: “La superficie della tela dipinta viene quindi vissuta come un’interfaccia tra interno ed esterno, tra l’infinito dello spazio esterno in continuità con l’infinito dello spazio interiore” a sottolineare la solitudine umana, comeaccade nel famosissimo quadro: “Monaco in riva al mare”. Lo sguardo delle figure di schiena di Friedrich, che guardano verso l’al di là del quadro costituisce una traslazione semantica dall’interno all’interiore, “dove lo sguardo interiore del soggetto vedente ha il suo corrispettivo figurato nello sguardo interno del quadro”.
Keplero ritorna nel saggio di Di Napoli, associato ad Apollonio di Perga e al suo famoso trattato sulle Coniche, a proposito della costruzione di molti paesaggi del pittore tedesco che si reggono su “una struttura compositiva basata sui due rami contrapposti della stessa iperbole, uno che delimita la forma del cielo, l’altro quella della terra”. Queste due realtà, contigue ma separate, alludono simbolicamente ai due ambiti della conoscenza umana: la terra, ovvero la prossimità, è riferibile alla conoscenza sensoriale; mentre il cielo, ovvero la lontananza, rimanda invece alle esperienze estetiche e mistiche e quindi a una conoscenza di tipo spirituale. Quest’impiego costruttivo dell’iperbole nei quadri di Friedrich risulta il modo più efficace per tradurre visivamente la sua poetica della “bifocalità”, ovvero della convivenza tra uno sguardo fisico ed uno sovrannaturale, facendo convivere nel luogo della sua pittura l’esperienza terrena con quella che la trascende.
Un frammento di infinito è poi il titolo evocativo che l’autore assegna al paragrafo dedicato alle opere di Tullio Pericoli, unico artista vivente da lui citato nel libro. Lo definisce “pittore terrestre”, perché nei suoi paesaggi è la terra l’assoluta protagonista (il cielo vi è eliso); la terra che oggi l’artista marchigiano guarda dall’alto ma che fino a qualche tempo fa osservava dal sottosuolo, in quelle Geologie di cui descriveva le stratificazioni: “sezioni di rocce effusive, frammenti di faglia e movimento del magma vulcanico ”.
Lo sguardo dall’alto di Tullio Pericoli non fa che confermare che “il vero medium della visione è la distanza: si vede solo ciò che non è contiguo all’occhio”. Questo moderno maestro del paesaggio, nel suo disegnare crittogrammi che svelano le fenditure del suolo o ancora i dorsali collinari, oppure le trame cromatiche generate dal susseguirsi degli appezzamenti dei coltivi, coglie e ci mostra frammenti di infinito nel finito,e nel mentre induce emozioni in chi li guarda, rende omaggio alla bellezza, perché “L’arte del pittore è l’arte di vedere il bello” (Gaston Bachelard).
Dopo aver messo a confronto i differenti procedimenti costruttivi di quadri che hanno come identico soggetto il Canal Grande di Venezia, opera rispettivamente del Canaletto (la cui visione ci sembra realistica ma che, in realtà, è scientemente e scientificamente composta in atelier) e da Turner (che ci appare vago nelle sue dissolvenze e sfocature ma che invece è prossimo al processo di visione umana), Di Napoli dedica pagine appassionate alla disamina dell’opera del pittore romantico inglese,così stimato da John Ruskin da aver elaborato su di lui una monumentale trattazione critica, cui ha atteso per diciassette anni.
[continuazione nel post successivo]