SE L’UNIVERSO VA INCONTRO ALL’IMBUTO COSMICO
Buchi bianchi, là dove il tempo cambia di segno
di Patrizia Caraveo (MEDIA-INAF, 01/06/2023)
I buchi neri sono con noi da sempre, praticamente dall’inizio dell’evoluzione dell’universo, eppure abbiamo avuto prove certe della loro presenza solo mezzo secolo fa. In effetti, la loro possibile esistenza era stata sospettata da Karl Schwarzschild quando, nel dicembre 1915, in trincea, lesse il lavoro di Einstein e risolse le equazioni della relatività generale. Dal suo lavoro discende il concetto del raggio di Schwarzschild, altrimenti noto come orizzonte degli eventi. Si tratta della superficie immaginaria che divide lo spazio intorno al buco nero tra il “fuori” ed il “dentro” dal quale nulla, nemmeno la luce, sfugge alla gravità. Einstein ne fu ammirato, ma il concetto di singolarità dovette aspettare mezzo secolo per acquisire credibilità, almeno dal punto di vista matematico, grazie al lavoro di Roger Penrose, negli anni ’60. All’epoca, le singolarità si chiamavano stelle oscure oppure stelle congelate, il termine buchi neri è nato nel 1967 ad opera di John Archibald Wheeler.
Allora erano solo entità matematiche, ma la neonata astronomia X si apprestava a dare loro consistenza osservativa. Avvenne per caso, nel 1964, con il primo volo suborbitale di un contatore X che avrebbe dovuto misurare l’emissione X della Luna. Inaspettatamente, si scoprì un’intensissima sorgente la cui posizione corrispondeva a quella di una stella brillante, ma troppo normale per poter essere responsabile dell’emissione. Osservazioni accurate, però, rivelarono che la stella si muoveva ritmicamente, danzando intorno ad una compagna invisibile. Usando le leggi di Keplero, le stesse che governano il moto dei pianeti nel Sistema solare, si misurò la massa della compagna invisibile che risultò essere 15 volte quella del Sole. Avrebbe dovuto essere una stella molto brillante, invece non emetteva niente. Senza cercarlo, si era scoperto il primo buco nero stellare in un sistema binario. Da allora se ne sono scoperti decine che brillano nei raggi X ma più di recente ne abbiamo visti centinaia attraverso le onde gravitazionali prodotte nel corso di catastrofiche collisioni. Sempre nel genere interazioni catastrofiche, abbiamo più volte assistito alla disintegrazione di stelle che si erano avvicinate troppo alla pericolosa singolarità. La fine della stella produce incredibili fuochi d’artificio.
Ma il buco nero più mediatico è certamente un mostro di 6 miliardi di masse solari che domina la galassia M87. Qualche anno fa, l’immagine dell’ombra del buco nero nel mezzo di una ciambella brillante è andata sulle prime pagine di tutti i giornali. Ora, nuovi dati hanno evidenziato come dalla ciambella abbia origine il getto di particelle di alta energia che è una delle caratteristiche più spettacolari della galassia.
Mentre gli astrofisici, che raccolgono dati sui buchi neri, si devono fermare al muro invalicabile dell’orizzonte degli eventi, i fisici teorici si possono permettere di andare al di là per scoprire cosa c’è (o ci potrebbe essere) dentro un buco nero. È questo il compito che si è prefissato Carlo Rovelli , che nel suo Buchi bianchi. Dentro l’orizzonte propone esperimenti mentali (non potrebbe essere diversamente) per farci entrare nell’orizzonte degli eventi. Schwarzschild ci insegna che si tratta di una linea invalicabile attraverso la quale non c’è scambio di informazioni, ma Rovelli propone un viaggio concettuale ispirandosi ad altri viaggiatori che hanno sfidato l’impossibile, a cominciare da Dante, che viene citato spesso. È un viaggio attraverso un territorio inesplorato, che inizia da una conversazione con un giovane collega. Così nasce un’idea, una scintilla che accende l’entusiasmo del fisico teorico impegnato da anni a cercare di unire relatività generale e fisica quantistica. Visto che si ispira a Dante, anche per Rovelli è essenziale avere una guida: il suo Virgilio saranno le equazioni di Einstein, sulle quali lavora da sempre. Per aiutare a visualizzare concetti non banali, che espone in tono colloquiale con un linguaggio semplice, Rovelli utilizza un imbuto lunghissimo e sempre più stretto. È questa per lui la migliore descrizione dell’interno del buco nero e compare decine di volte nel libro perché è percorrendo l’imbuto che il viaggiatore si avvicina, o pensa di avvicinarsi, alla singolarità, per scoprire che quello che cerca accade dopo e, per andare oltre, il tempo deve essere ribaltato. Non è un processo banale, richiede una capriola gravitazional-quantistica, ma è l’essenza alla base del buco bianco. Le equazioni di Einstein sono sempre le stesse, ma la variabile tempo cambia di segno. Questo significa che, mentre dal buco nero nulla può uscire, nel buco bianco nulla può entrare perché c’è solo l’uscita ed è a senso unico. Il problema è che tutte le scivolate nell’imbuto e le capriole nella gravità quantistica avvengono all’interno dell’orizzonte degli eventi e noi, che per nostra fortuna siamo fuori, non ce ne possiamo rendere conto. In verità, questo semplifica la gestione dello scorrere del tempo che sarebbe molto diverso tra dentro e fuori.
Con grande lucidità, Rovelli fa notare che tutto questo potrebbe essere sbagliato, anche perché non ha neanche lontanamente idea di come potrebbe essere possibile andare a cercare la prova dell’esistenza dei buchi bianchi. Tuttavia, non dobbiamo perdere le speranze. I buchi neri ci hanno messo mezzo secolo per passare dall’essere una realtà matematica a diventare oggetti celesti studiati e osservati. L’universo non ha fretta, ha tutto il tempo che vuole.