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FILOSOFIA E TEOLOGIA. Dopo Platone, dopo la crisi della metafisica classica e il grande soffio di rinnovamento della teologia novecentesca...

L’uomo, il divino e la verità in Platone e noi. Un saggio di Franco Toscani - a c. di Federico La Sala

(...) noi oggi siamo chiamati non solo a proteggere e a salvaguardare la casa comune, la natura, ma pure a proteggere e a salvaguardare gli uomini da sé stessi, dalle loro più diaboliche tentazioni, dalle loro forze e pulsioni peggiori (...)
mercoledì 16 settembre 2015
INDICE:
1. Il divino e il problema della verità in Platone.
2. La "teologia" di Platone e l’ "assimilazione a Dio".
3. Il libro X delle Leggi e la critica ai pensatori della φύσις.
4. Il primato dell’anima e il divino.
5. "Tutto è pieno di dèi".
6. Le parti e la totalità. Il gioco umano nel gioco più ampio.
7. Libertà e verità.
8. La giustizia divina.
9. Il nesso platonico fra il discorso teologico e quello etico-politico, "psicologico" e giuridico.
10. Il divino (...)

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> L’uomo, il divino e la verità in Platone e noi. --- Il divino in Aristotele e Platone (di Franco Toscani)

mercoledì 25 maggio 2016

Il divino in Aristotele e Platone

di Franco Toscani

Tenteremo qui di mostrare - sia pure in termini estremamente sintetici - come nella concezione del divino di Platone e di Aristotele si presentino, oltre che le ben note differenze fra i due filosofi messe in luce da gran tempo dalla storiografia filosofica, anche non pochi e non irrilevanti punti di contatto e affinità.

Mentre in passato la tendenza prevalente era rivolta a sottolineare le divergenze e le fratture fra i due, oggi appare con sempre maggiore chiarezza che molti sono i fili di continuità, più o meno sotterranei, più o meno evidenti, fra questi due sommi pensatori. Ciò vale a nostro avviso anche per la questione del divino.

Non a caso anche Aristotele - che di Platone fu allievo in gioventù - sulle orme del maestro intende le realtà celesti (cieli e astri) come divine, in quanto sono ingenerate e imperiture; i corpi celesti sono infatti da lui definiti esseri divini che ci appaiono, manifesti (φανεροῖς).

Nel dialogo giovanile Della filosofia Aristotele rileva che l’idea degli dei nasce negli uomini a partire dalla consapevolezza dei poteri straordinari dell’anima umana e che gli uomini supposero l’esistenza di qualcosa di divino in quanto "simile all’anima" e dotato massimamente di scienza. Tale dialogo presenta due tipi di dei, quelli incorporei, "simili all’anima" e quelli corporei, coincidenti con gli stessi astri.

Come si sa, è a partire dal movimento (κίνησις) che nella Fisica lo Stagirita - sviluppando un argomento già presente nei dialoghi della maturità e della vecchiaia di Platone - deriva la tesi dell’esistenza di qualcosa di eterno (ἀΐδιον), inteso come "primo motore immobile" (τὸ πρῶτον κινοῦν ἀκίνητον), capace cioè di muovere senza essere a sua volta mosso da altro.

L’eternità del movimento postula l’esistenza di qualcosa che sia un motore in atto per essenza. Per Aristotele, come si sa, il motore immobile è essenzialmente in atto e semplice, ossia privo di parti, in quanto di natura immateriale; esso è il massimamente intelligibile che muove senza essere a sua volta mosso e coincide col massimamente appetibile sul piano razionale; il motore immobile è il supremo oggetto dell’intellezione (νόησις), ossia del pensiero esercitato dall’intelletto (νοῦς) e come tale è ottimo, perfetto, esercita un’attrazione sul mobile. Esso affascina, attrae e chiama a sé non tanto come causa finale, ma come παράδειγμα, modello di inarrivabile perfezione, punto di riferimento essenziale per chi nel mondo reale e diveniente tende alla forma, al miglioramento, al perfezionamento.

Ora, anche le idee di Platone hanno indubbiamente questa stessa funzione paradigmatica ed è probabilmente da esse che lo Stagirita trae l’ispirazione decisiva per il suo costrutto teorico. Con ciò, ovviamente, non vogliamo negare in nessun modo la grande originalità e creatività della proposta teorica aristotelica, ma vogliamo soltanto dire che anche le costruzioni di pensiero più ingegnose e innovative non nascono dal nulla o soltanto dal puro genio, ma sono pure il frutto di stimoli e condizionamenti, sorgono da un terreno fecondo di coltura che le ha preparate.

Nella Metafisica leggiamo che "vi è qualcosa che muove senza essere mosso: una cosa eterna, che sia tanto sostanza quanto atto (ἔστι τι ὃ ἀεὶ οὐ κινούμενον κινεῖ, ἀΐδιον καὶ οὐσία καὶ ἐνέργεια οὖσα)" (Met., XII, 7, 1072 a, 24-26). Vi è un principio immateriale, "una certa sostanza immobile, eterna e separata da quelle sensibili (οὐσία τις ἀΐδιος καὶ ἀκινητος καὶ κεχωρισμένη τῶν αἰσθητῶν)" (Met., XII, 7, 1073 a 4-5). E’ una sostanza immateriale, indivisibile, semplice (ossia mancante di parti), impassibile, inalterabile.

Il motore immobile dello Stagirita "muove come oggetto d’amore (κινεῖ δὲ ὡς ἐρώμενον)" (Met., XII, 7, 1072 b 3), in quanto è ciò in vista di cui avviene il mutamento.

Essendo Dio pura forma e perfezione, vi è un profondo anelito del mondo verso il compimento, la forma, la perfezione, la ἐντελέχεια. Ogni cosa ha la sua natura e il suo destino, mira ad essere sé stessa, ad assecondare la propria natura, a realizzare il fine interno alla propria natura. Inoltre, ciò che vive in basso, nella miseria e nella povertà, nel limite e nella finitezza, nell’incompiuto e nel non-ancora-divenuto, non cessa di aspirare verso l’alto e subisce l’attrazione della pura forma. Esistendo di necessità (ἐξ ἀνάγκης), il primo motore esiste in modo perfetto (καλῶς) e semplice (ἁπλῶς), ossia non composto di parti ed è in tal modo ἀρχή, principio (cfr. Met., XII, 7, 1072 b 10-13).

Da questo principio semplice vengono a dipendere il cielo, la natura, tutti gli enti di natura (τὰ φύσει ὄντα); il suo modo d’essere gli appartiene sempre, mentre a noi mortali è concesso per breve tempo.

La sua attività (ἐνέργεια), che è la pura νόησις (intellezione), è anche piacere (ἑδονή) (cfr. Met., XII,7, 1072 b 13-16). Il motore immobile è intelletto (νοῦς) e la sua attività è l’intellezione, anzi è intellezione d’intellezione, pensiero di pensiero (νόησις νοήσεως: Met. XII, 9, 1074 b 34). La νόησις è l’attività dell’intelletto che è eternamente in atto per essenza e che non ammette la potenza (δύναμις), né divenire e mutamento; il suo è infatti un piacere eterno, permanente, stabile, sicuro, non comportante fatica alcuna, in cui pensiero e pensato, intelletto e intelligibile, intellezione e oggetto dell’intellezione coincidono perfettamente.

Nella sua purezza e pienezza l’intellezione, come attività dell’intelletto, ha per oggetto ciò che è ottimo al massimo grado; "l’intelletto è ciò che è adatto ad accogliere l’intelligibile e l’essenza, ed è in atto possedendoli, per cui questo possesso più di quella attitudine è ciò che di divino (θεῖον) l’intelletto sembra avere, e la contemplazione (θεωρία) è la cosa più piacevole e migliore" (Met., XII, 9, 1072 b 22-24).

La contemplazione (θεωρία) è caratteristica essenzialmente umana ed è propria soprattutto di quei mortali che si chiamano filosofi. Anche nell’Etica nicomachea Aristotele sostiene che la perfetta felicità per l’uomo consiste nell’attività contemplativa. Sulle orme di Platone, egli ribadisce che il νοῦς o è esso stesso divino oppure è la parte più divina che è in noi; l’attività (ἐνέργεια) dell’intelletto costituisce l’umana τελεία εὐδαιμονία (cfr. Eth. nic., X, 7, 1177 a 15-18). L’equazione fra εὐδαιμονία e θεωρία è più volte ribadita dal filosofo (ad esempio in Eth. nic., X, 8, 1178 b 25-32). Il sapiente (σοφός) è l’uomo più caro agli dei (θεοφιλέστατος) e "sommamente felice" (μάλιστ`εὐδαίμων. Cfr. Eth. nic., X, 9, 1179 a 30-32).

Il carattere divino del motore immobile è dovuto alla durata sempiterna della sua attività di pensiero, massimamente piacevole; il piacere della contemplazione, per lo Stagirita, è proprio dei più eccellenti fra gli uomini, i filosofi, a cui, però, tale piacere è concesso soltanto per il breve tempo della loro vita mortale. Vi è un limite costitutivo della beatitudine dei pensatori.

La conoscenza della divinità è qualcosa di sovrumano che è prerogativa soprattutto della divinità stessa ed è questa la scienza più divina che vale, nella sua purezza disinteressata, più di tutte le altre scienze, pure "più necessarie" (ἀναγκαιότεραι) di essa; quella più divina è una scienza che nessun uomo - per quanto grande e ispirato sia - può possedere saldamente e che possiede (come si ritiene) o potrebbe possedere solo la divinità, dal momento che "infatti, è opinione diffusa in tutti che Dio faccia parte delle cause e sia un certo principio (ὅ τε γὰρ θεὸς δοκεῖ τῶν αἰτίων πᾶσιν εἶναι καὶ ἀρχή τις)" (cfr. Met., I, 2, 983 a 5-11).

Nel Simposio Platone afferma che nessun dio brama di diventare sapiente (σοφός), perché lo è già massimamente; spetta dunque all’uomo, posto invece fra l’ignoranza e la sapienza, il compito di amare il sapere (Simposio, 204 a). Sia per Platone sia per Aristotele, la divinità, essendo priva di invidia (φθόνος), vuole che l’uomo - costitutivamente segnato dal senso del limite e della misura - ricerchi sempre la scienza a lui proporzionata e accessibile (cfr. Met., I, 2, 983 a; Timeo, 29 e; Fedro, 247 a).

Rispetto all’uomo, per lo Stagirita il Dio gode eternamente della sua attività di pensiero, si trova sempre nella sua condizione felice, perciò è un "essere meraviglioso (θαυμαστόν)" ed è ancor "più meraviglioso (θαυμασιώτερον)" trovandosi costantemente in uno stato di benessere e di autosufficienza maggiore del nostro (cfr. Met., XII, 7, 1072 b 25-26).

Analogamente, nell’Etica nicomachea (X, 8, 1178 b 21-22) leggiamo che la beatitudine dell’attività del Dio consiste nell’attività contemplativa (ἐνέργεια θεορετική). Solo del Dio è il piacere permanente di un pensiero in atto, ininterrotto. In tal modo "gli appartiene anche la vita (ζωή), giacché l’attività è vita, ed egli è attività. E la sua attività in sé stessa è vita ottima ed eterna (ἐνέργεια δὲ ἡ καθ᾽αὑτὴν ἐκείνου ζωὴ ἀρίστη καὶ ἀΐδιος). Ora, noi diciamo che Dio è un vivente eterno ottimo, per cui al Dio compete una vita sia perennemente continua che eterna. Infatti, il Dio è questo (τοῦτο γὰρ ὁ θεός)" (Met., XII, 7, 1072 b 26-30).

Considerando che il termine atto (ἐνέργεια), conforme a opera (ἔργον), indica il pieno compimento, la ἐντελέχεια (cfr. Met., IX, 8, 1050 a 21-23), Dio inteso come puro atto è la perfezione attuata, la realizzazione suprema che non ha bisogno di alcuna potenza (δύναμις): infatti, "nessuna cosa in potenza è eterna" (Met., IX, 8, 1050 b 7-8). Come motore immobile, il Dio diventa polo di attrazione, meta di ogni dinamismo e divenire mondano, di ogni tensione dell’uomo e del mondo al perfezionamento.

Aristotele non si nasconde le difficoltà (ἀπορίαι) concernenti la possibilità di cogliere l’attività di pensiero del motore immobile (cfr. Met., XII, 9, 1074 b 15). Per lui è forse (ἴσως viene usato ripetutamente) necessario ammettere che esistono sostanze separate, non sensibili ed eterne, al di là di quelle che conosciamo, anche se non sappiamo come concepirle (cfr. Met., VII, 16, 1040 b 34-1041 a 3; Met., VII, 17, 1041 a 7-9).

      • CONTINUAZIONE E NOTE NEL POST SUCCESSIVO.


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