Hitchcock fra i miti indiani
di Roberto Calasso *
Mi è capitato più volte di osservare che i film di Hitchcock tendono a diventare più belli, quando si rivedono. Ultimamente, rivedendo Psycho, Gli uccelli, Marnie. Di quali altri registi si potrebbe dire lo stesso? Di Lubitsch, di Max Ophuls, certamente. Altri nomi si potrebbero aggiungere, ma non molti. Perché? Forse per una certa compattezza inscalfibile che protegge quei film dal mondo esterno.
Chi entra in un Hitchcock, in un Lubitsch, in un Ophuls mette piede in luoghi autosufficienti, che tendono a risucchiare tutto in sé. Ci possono poi essere anche altre ragioni di costante, rinnovato stupore. Può essere uno stupore non solo estetico, ma speculativo. O meglio uno stupore estetico perché speculativo.
Questo vale per alcuni film di Hitchcock che svettano (e abbagliano) perché, all’ usuale intreccio di delizie e terrori, sovrappongono una dimensione metafisica. Primo esempio, palese: Vertigo. Ma lo stesso si può dire, con implicazioni più subdole e indominabili, per La finestra sul cortile.
Truffaut, con la sua solita chiaroveggenza, scrisse una volta a Hitchcock: "Vertigo è più sentimentale, più poetico, ma La finestra sul cortile è la perfezione". Se ne accorsero anche Chabrol e Rohmer, che annotavano: "Se c’ è un film di Hitchcock per il quale il termine metafisica può essere citato senza timore, ebbene questo è proprio La finestra sul cortile". Peccato che poi si insabbiarono nel tentativo di individuare quale metafisica. Dopo un primo rimando al mito platonico della caverna si imbrogliarono fra sant’ Agostino e i giansenisti alla ricerca del significato morale della vicenda. Non si capisce perché (anzi, si capisce benissimo), ma appena interviene la parola "morale" la lucidità del pensiero si appanna. E allora quale sarà la metafisica implicita nella Finestra sul cortile?
Come Lubitsch, come Ophuls, Hitchcock si guardava bene dal teorizzare sui propri film. Ma ogni tanto buttava lì una frase decisiva, dissimulata accanto a rilievi tecnici innocui. In quella frase si diceva l’ essenziale.
Così osservò una volta: "La finestra sul cortile è totalmente un processo mentale, condotto attraverso mezzi visivi". Isoliamo la frase e ci domandiamo: chi sta parlando qui? Shankara a proposito della maya? O è Ramanuja o qualche altro maestro vedantico? Che senso ha descrivere un film puntiglioso e minuzioso fino al trompe-l’ oeil (il set del cortile, il più grande costruito sino allora dalla Paramount, corrispondeva fedelmente a un immobile di Christopher Street) come se fosse "totalmente un processo mentale"? "Totalmente"...
Che cosa avrà inteso Hitchcock con quella affermazione così drastica? Non rimane che guardare il film. La prima inquadratura ci offre una stuoia semitrasparente di bambù che si solleva davanti a una finestra, poi un’ altra, poi un’ altra ancora. E’ come se la cortina di opacità che normalmente avvolge la mente e la rende inconsapevole di se stessa lentamente si dissolvesse.
Che cosa appare, allora? Non il mondo, ma il cortile: predisposto come un edificio mnemotecnico, dove la parete di mattoni sbiaditi fa da supporto ai loci, che sono le varie finestre. Qui si manifesta la fondamentale invenzione visiva del film: le immagini che vediamo all’ interno della cornice delle singole finestre (la ballerina che si esercita, i freschi sposi che entrano nel loro appartamento, il musicista infelice al pianoforte, Cuore Solitario che si prepara a ricevere un maschio invisibile, il commesso viaggiatore Lars Thorwald che torna dalla moglie malata e astiosa) sono a un altro livello rispetto a quello che vediamo nel cortile o nella stanza del protagonista.
Quelle immagini rettangolari non sono reali, sono iperreali. Hanno la qualità allucinatoria e smaltata delle decalcomanie. Tale è l’ evidenza di quei rettangoli (ancora più imperiosa di notte, quando i rettangoli si stagliano su un fondale di tenebre) che cominciamo a domandarci: dove siamo veramente? E si insinua il sospetto: forse la finestra dove sta appostato il fotografo James Stewart con la sua gamba ingessata non dà, come tutte le finestre ingenue, su un qualche esterno.
Forse, come già indica il titolo inglese (Rear Window), è una finestra che si apre su ciò che perennemente sta dietro il mondo: il teatro di posa della mente. Di fatto, quando mai la "realtà" (Nabokov dice da qualche parte che si tratta di parola ormai usabile soltanto fra virgolette) ha avuto la nettezza allarmante, la patina madreperlacea di quello che vede il fotografo sui rettangoli luminosi davanti a lui? Quello che avviene là dentro non è forse il cinema sorpreso nella sua scaturigine? Ammettiamo dunque che le storie di bambù si siano sollevate su un teatro occupato da una mente e dai suoi fantasmi.
Ma come si compone quella mente (ogni mente)? C’ è un occhio sovrano, immobile: l’ atman, il Sé. Traduciamo nell’ ironia occidentale di Hitchcock: l’ occhio di un fotografo (l’ occhio per eccellenza) con una gamba ingessata. Nel sovrapporsi di un binocolo o di un imponente teleobiettivo all’ occhio del protagonista è implicita non soltanto la capacità di autointensificazione dell’ atman, ma la capacità dell’ occhio sovrano di sdoppiarsi indefinitamente: esiste sempre un metasguardo sovrapponibile allo sguardo, ma il passo decisivo è il primo: quello con cui il Sé si distacca dall’ Io, il fotografo che guarda dall’ assassino che viene guardato.
Ma dov’ è andato a finire il mondo, allora? La mente può facilmente tagliarlo fuori, ma non del tutto. Rimane sempre almeno uno spicchio, che ferisce e permette la fuga. Per questo, su un lato del cortile, si apre un vicolo, che dà sulla strada. La strada è il mondo come è. Ma nel film non si farà mai notare se non per istanti, come quando Grace Kelly o Cuore Solitario o l’ assassino vi si avventurano. Tutto il resto si svolge all’ interno di una mente, fra l’ occhio del fotografo e i suoi fantasmi.
Quell’ occhio è sovrano. Davanti a esso, tutto è disponibile: ogni piano, ogni scena della vita, quali si mostrano sulla facciata interna del cortile, come un film proiettato su ciascuno dei rettangoli luminosi delle varie finestre.
Il filo che lega il fotografo e l’ assassino si stringe in un nodo metafisico, da cui dipende, come teorema da assioma, tutto il film. Secondo la dottrina vedantico- hitchcockiana, l’ atman, il Sé, non è un’ entità isolata, ma sempre connessa a una controparte, l’ aham. L’ Io o più esattamente l’ ahamkara, quel processo di "fabbricazione dell’ io" che dà a ciascuno l’ impressione di avere un’identità.
Ma perché l’ Io deve essere l’ assassino? Il rapporto fra atman e aham corrisponde a quello fra il brahmano che vigila, silenzioso e immobile, sul sacrificio e l’ officiante che lo compie. Ma perché il sacrificio? Perché è l’ azione per eccellenza, su cui ogni altra si modella, da cui ogni altra discende. Così dicevano i veggenti vedici. E il sacrificio, anche se consiste soltanto nello spremere il succo lattescente di una pianta, il soma, è sempre una distruzione. E una distruzione che viene percepita come assassinio.
Il rapporto fra atman e aham è tortuoso, in ogni istante può rovesciarsi. L’ atman è un occhio sovrano, invisibile, però costretto all’ immobilità della contemplazione. L’ angoscia di Arjuna nella Bhagavadgita sopravvive quando l’ atman è chiamato ad agire: ma questo in una prospettiva sacrificale, dove atman e aham possono alla fine trovare un delicato, rischioso accordo. Nella prospettiva profana, dove il sacrificio è diventato assassinio, atman e aham non possono che essere sempre potenze antagoniste, sino alla morte. Così il commesso viaggiatore potrà tentare di colpire lo Spettatore nascosto sopraggiungendo alle sue spalle (come entrando nella sala cinematografica quando lo spettacolo è già cominciato). E potrà tentare di ucciderlo, perché comunque atman e aham convivono nello stesso corpo. Il tentativo di assassinio del fotografo, compiuto dal commesso viaggiatore, è innanzitutto un tentativo di suicidio. E il fotografo riesce a difendersi solo abbagliando con il flash il commesso viaggiatore: come il Sé tenta di paralizzare con la sua luce interna la rivolta dell’ Io, che colpisce da dietro, e dall’ oscurità.
La versione profana offre nei termini ironici della commedia psicologica ciò che la versione sacrificale offre nei termini della ritualità metafisica: il commesso viaggiatore si libera con l’ assassinio di un matrimonio passato (e l’ unica prova del delitto che rimane è l’ anello matrimoniale di sua moglie), mentre il fotografo vorrebbe liberarsi da un matrimonio futuro, ma proprio l’ assassinio compiuto dal commesso viaggiatore lo obbliga al matrimonio. Così accade che l’ aspirante fidanzata del fotografo (Grace Kelly) si appropria dell’ anello di matrimonio dell’ assassinata. Così ritroviamo il fotografo infermo e ancora più immobile (ora ha tutte e due le gambe ingessate), mentre dorme sotto lo sguardo della futura moglie, come era inferma e immobile nel suo letto la moglie del commesso viaggiatore prima di essere assassinata.
Certo, il fotografo è alla mercè dell’ incantevole perfezionista Lisa Fremont (Grace Kelly), mentre la moglie di Thorwald si trovava di fronte a uno sguardo di torvo rancore. Ma nulla è innocuo. La partita fra atman e aham è eterna, e non si arresta mai. L’ incanto peculiare, l’ azzardo del film è proprio questo: comporre una sophisticated comedy screziata e virtuosistica sulla base di una materia brutale, senza attenuarne in alcun modo il carattere sinistro.
Torniamo al cortile. Che aria tira in quel cortile della Nona Strada? Più o meno quella che tirava a Tebe con Edipo o a Elsinore con Amleto. "C’ è qualcosa di marcio nel cortile".
Ad accorgersene, come al solito, è il coro, che qui delega a rappresentarlo la mirabile Thelma Ritter, infermiera delle assicurazioni. La ruota vorticosa dei fantasmi, l’ ombra sempre più irresistibile di Grace Kelly che si proietta (da dietro) sul fotografo addormentato (quindi in fuga dai fantasmi che ritrova puntualmente sulla parete di fronte) creano una tensione che cresce, insieme al caldo umido di New York. Soprattutto in due persone: il fotografo e il commesso viaggiatore, che si appresta a uccidere la moglie. Che cosa lega questi due esseri che si ignorano? Un filo sottilissimo, un filo femminile. Il commesso viaggiatore Lars Thorwald uccide la moglie: il fotografo lo scopre con l’ aiuto della donna che vuole diventare sua moglie (e a sua volta rischierà di essere uccisa dall’ assassino).
Come sempre, sacrificio e ierogamia sono avvolti l’ uno nell’ altro. Una volta espulsa la vittima sacra, che ora non è soltanto l’ assassinata, ma l’ innocente cagnolino dei vicini, si ha un effetto di pacificazione nel cortile. Il piccolo cane, vittima sostitutiva, viene rimpiazzato da un altro piccolo cane: a indicare che la sua esistenza rappresenta la sostituzione stessa. La ballerina ritrova il suo comico fidanzato, sfuggendo ai "lupi" che la insidiano. Anche Cuore Solitario, la donna matura e infelice che voleva uccidersi, trova un compagno: il pianista giovane e infelice, che era disperato per i suoi insuccessi. Qui si svela la crudele ironia di Hitchcock: previa qualche uccisione, la vita si alleggerisce e si rianima.
Gli assassini passano, il cortile resta. Questa lettura vedantica della Finestra sul cortile mi si impose come un’ evidenza una decina di anni fa. Tutto tornava e, quanto più tornava, tanto più mi sentivo attraversato da una sottile ilarità. Vedevo la faccia di Hitchcock, protetta dall’ imponente baluardo del suo labbro inferiore, incastonata nella cornice proliferante di un tempio indù. Poi pensavo: è un po’ come guardare un film di Mizoguchi attraverso Plotino. Perché no, dopo tutto? Che altro fare se la psicologia e la psicoanalisi occidentale sono così rudimentali e inadeguate rispetto a Hitchcock? Anni dopo, vidi di nuovo La finestra sul cortile. La lettura vedantica riaffiorava spontaneamente, anzi si arricchiva di nuovi dettagli. Ma non era questo a colpirmi. Bensì una constatazione: l’ arte non si lascia disturbare dai suoi significati.
E’ stato Dumézil a raccomandare una volta il piacere di leggere l’ Iliade di seguito "senza porsi domande", senza pensare a null’ altro che alla storia raccontata, senza commenti, senza dizionari, dunque senza significati ulteriori. Quel piacere è la vera ordalia dell’ arte. Ciò che regge a quella prova è salvo. E come si salvava il film di Hitchcock... Così bene che spingeva subito in altre direzioni. Per esempio: la brezza che smuove l’ aria stagnante del cortile e delle rimuginazioni del fotografo viene da Park Avenue, con il passo di Grace Kelly. E’ lei, con le sue strepitose mises, con le sue battute molto più appuntite di quelle del maschio obbligatoriamente spiritoso, a spargere spezie nel film. Attraverso di lei Hitchcock, stratega dell’ immagine, sembra far convergere tutto verso un’ epifania, che è anche un talismano.
Osserviamo: all’ inizio del film il fotografo, pedante e burbero come spesso gli uomini d’ azione, spiega a Grace Kelly che lui va in giro per il mondo, sfiorando pericoli e disagi, con una minuscola valigetta. Come dire: "Non è roba per te, fatua femmina di Park Avenue". Al momento, Grace Kelly tace e incassa. Ma il giorno dopo, quando già sale la tensione per il supposto assassinio, apparirà con una valigetta nera, di somma eleganza, dove ha racchiuso il suo nécessaire per una notte con il fidanzato ritroso. E, dinanzi all’ attonito James Stewart, dirà le due battute che siglano il film. "Un po’ di intuito femminile in cambio di un letto improvvisato" (è il baratto che risolve aforisticamente tutte le difficoltà sentimentali che opprimono il povero fotografo).
E infine, sempre a proposito della valigetta: "Vedi è più piccola della tua" (con deliziosa insinuazione sessuale). L’ epifania si ha quando quella minuscola cassetta nera non si apre con un suono secco e il suo geometrico nitore si scioglie nella nube rosata della camicia da notte che appare (insieme alle pantofole e al minuscolo specchio, ricordo vedantico). Quella luce si irradia su tutto il film.
Aggiungerei un’ ultima glossa. La finestra sul cortile è l’ Occidente stesso, nella sua forma più ammaliante e irriducibile. Ma forse, per capire se stesso, l’ Occidente ha bisogno anche di categorie nate altrove. Altrimenti, rischia di vedersi più arido e informe di quanto già non sia. Oltre tutto, non è sempre stata una vocazione peculiarmente occidentale quella di viaggiare molto, di cercare altri mondi, di conquistarli ma anche di studiarli? E perché si studia se non per capire qualcosa che poi si può anche usare?
Forse una storia che ci riguarda tutti molto da vicino è quella chassidica del Rabbi Eisik di Cracovia, raccontata da Buber. Rabbi Eisik figlo di Jekel ha un sogno che si ripete e gli intima di andare lontano, fino a Praga, dove avrebbe trovato un tesoro nascosto, sotto il ponte che conduce al castello dei re boemi. Rabbi Eisik va a Praga, osserva il ponte ma si accorge che è sempre sorvegliato da sentinelle. Testardo, continua a vagare nella zona.
Alla fine il capitano delle guardie, colpito da quel vecchio ostinato, gli chiede che cosa cerca. Rabbi Eisik racconta la storia del suo sogno. Il capitano delle guardie scoppia a ridere. E gli racconta un’ altra storia: "Guarda che, se i sogni fossero veritieri, in questo momento starei facendo un viaggio che è l’ inverso del tuo. E naturalmente non troverei niente. Sappi che ho sognato che avrei trovato un tesoro a Cracovia, nella casa di un rabbino che si chiama Eisik figlio di Jekel, dietro la stufa. Figurati, andare a Cracovia dove metà degli uomini si chiamano Eisik e l’ altra metà Jekel...". Il rabbino Eisik figlio di Jekel ascolta senza commentare e torna subito a casa sua a Cracovia. Dietro la stufa trova il tesoro.
Il punto della storia - osservò un grande indologo, Heinrich Zimmer - non è che il tesoro da noi cercato si trova più vicino di quel che pensiamo. Se così fosse, la storia di Rabbi Eisik somiglierebbe a mille altre.
Il punto decisivo è che il luogo del tesoro deve essere rivelato da uno Straniero, il quale non sa neppure in quel momento che ci sta illuminando.
Se non avesse incontrato il capitano delle guardie nella lontana Praga, Rabbi Eisik non avrebbe mai guardato nell’ angolo dietro la stufa di casa sua. L’ India (e non solo l’ India) potrebbe essere per noi quello che il capitano delle guardie fu per Rabbi Eisik.
*Roberto Calasso, La follia che viene dalle Ninfe, "Il teatro di posa della mente", Milano, Adelphi, 2005, pp. 51-64.
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