di Pietro Barbetta (doppiozero, 26 agosto 2013)
In Erasmo da Rotterdam (1466/1469-1536) la follia presenta se stessa come una divinità. Erasmo scrisse L’elogio della follia nel 1509 e lo pubblicò nel 1511.
Dopo avere elogiato in lungo e in largo la follia, che viene presentata come un principio vitale, Erasmo prende posizione verso la metà del trattato. Non tutta la follia è buona, solo parte di essa. Di follia ce n’è di due generi: il primo viene dall’inferno, inviato dalle Furie vendicatrici, suscita nei mortali la vendetta, la guerra e “l’insaziabile sete dell’oro, l’amore obbrobrioso ed empio, il parricidio, l’incesto, il sacrilegio o qualche altra peste del genere”.
La seconda follia, elogiata durante tutto il testo, è quella dei bambini, degli anziani, i quali, grazie alla follia, presentano condotte strane, inusuali, eccentriche. Questa follia, che dice sempre la verità, rasserena gli dei e gli uomini, senza alcuna simulazione né adulazione. Si tratta della follia che ha sulla fronte ciò che chiude in petto ed è diffusa nelle isole fortunate.
Entrate nell’immaginario europeo grazie alle navigazioni oceaniche, le isole fortunate sono il luogo dove tutto cresce senza il bisogno della semina e dell’aratura, dove la natura è una madre abbondante. Questa follia è incompatibile con una scienza che si occupa della distribuzione di beni scarsi per soddisfare bisogni illimitati. Natura matrigna.
Qualche secolo dopo James Mattew Barrie (1860-1937) introdusse, nella pièce teatrale Peter Pan, o il ragazzo che non voleva crescere del 1904 e poi, nel 1911 in Peter Pan e Wendy, l’Isola che non c’è. Nell’opera di Barrie si tratta di un luogo dove non trascorre il tempo e non c’è memoria, tanto che Dan Kiley (1942-1996), psicologo che lavorava con adolescenti carcerati, scrisse La sindrome di Peter Pan nel 1983. Opera in cui si parla di uomini che rimangono sempre bambini. Sindrome univocamente attribuita agli adolescenti e agli adulti borderline, che non sono capaci di prendere responsabilità.
Invero la storia di Peter Pan è ben più complessa, emerge da un’esperienza letteraria e di vita di chi l’ha inventata. Di Barrie non possiamo dimenticare la sua opera a mio avviso più rilevante, benché meno conosciuta, Peter Pan nei giardini di Kensington e la scaturigine di Peter Pan dall’esperienza della morte improvvisa di un fratello, oltre che dalla sua vita eccentrica e colorita, interessata al mondo dei bambini.
Forse tra Erasmo e Barrie, nonostante i secoli che li dividono, c’è un sentire comune: la follia, questo tipo di follia, lontano da essere irresponsabile è portatrice di nuove responsabilità che riguardano la creazione di mondi possibili.
Erasmo prosegue sostenendo che le isole fortunate fanno fiorire l’erba moly - donata a Ulisse per non venire sottoposto ai sortilegi di Circe - panacea, nepente e altre sostanze farmacologiche di proprietà mediche, ipnotiche, stimolanti, estetiche. Erbe farmaceutiche - il termine farmaco deriva dal greco pharmacon significa anche droga - che hanno il potere di farti osservare il mondo da un altro punto di vista, quello della buona follia. La natura è dunque abbondante, dona più del necessario per la vita, il lavoro è una maledizione.
L’astenico è dunque il prototipo della buona follia: oziosi, scansafatiche, lazzaroni d’ogni sorta sono coloro che portano la follia buona. Forse, a ben guardare, anche oggi come ai tempi di Erasmo. Come non collegare queste tesi, e i racconti di Barrie, con il movimento Hyppie? Come non pensare a Woodstock, ai figli dei fiori, all’amore libero, al Rock, da Joni Mitchell a Jimi Hendrix, dai Beatles ai Rolling Stones, da David Bowie a Tom Waits?
La distinzione di Erasmo tra i due tipi di follia vale anche oggi, discerne la gravità del matto in base al danno sociale, più che alla bizzarria del singolo individuo. Non ci rendiamo ancora abbastanza conto che i narcisisti - capaci di successo e scalata sociale, sia vendendosi al primo offerente per il proprio vantaggio, sia nella versione del capo - sono davvero i casi più gravi. Corrispondenti per Erasmo alla follia da contrastare, da sempre si presentano attraverso qualcosa di assolutamente nuovo. La loro caratteristica paradossale è l’assoluta novità nel presentarsi. Si tratta di una dinamica costitutiva.
A differenza della follia buona, infatti, questa follia non è un fenomeno strettamente eccentrico e idiosincrasia, al contrario è un fenomeno sociale diffuso. Come nell’ipnosi dei medici della Salpêtrière, la prima volta è contatto fisico e oculare, poi bacchetta di comando, un’altra volta ancora fulmicotone. Sempre qualcosa di sbalorditivo, mai visto prima. Così si crea quella confusione che produce il sentimento di attaccamento al capo, quel fenomeno subliminale che crea dipendenza.
Si approfitta dell’uomo nidicolo, mancante, abitato dal nulla, che vive lunghi periodi nella dipendenza. Si trae vantaggio dalla tendenza alla dipendenza, che è sempre lì, pronta a farci regredire in ogni momento di difficoltà e disperazione. Così la follia delle masse è l’insieme di un capo, spesso supportato da un gruppo che lo esalta, e delle folle, spaesate e disorientate, che gli si affidano.
Ma perché le folle si affidino al leader è indispensabile un gesto inusitato, unico, che varia ogni volta, che, in linea di principio, non deve essere confuso con il gesto precedente. Unica costante è che al centro della relazione c’è un corpo: il mio corpo è il corpo del popolo, io sono la voce del popolo, sono con lui in unione mistica.
L’unicità del gesto è un taglio paradossale, introduce una differenza che abolisce, in quel gesto, ogni altra differenza, un rientro nel caos, una creazione distruttiva. Dobbiamo pensare alla comunicazione non come una ripetizione ridondante, come accade nella normale comunicazione quotidiana, data per scontata, ma a una comunicazione assolutamente differente, qualcosa che sta tra mente e corpo, che confonde i due piani. Non un terzo attributo ma una confusione tra gli altri due. Non c’è chiarezza d’idee, né spazio tra un corpo e l’altro, incorporazione reciproca, pura fagocitazione di sé. Il paradosso consiste proprio nell’incontrare qualcosa di nuovo, d’inquietante, che solo il mio stato di disperazione può dispormi a considerare positivo. Quando si sta male, tanto peggio, tanto meglio.
Il gesto inusitato, secondo le teorie di Mara Selvini Palazzoli (1916-1999), è l’anticamera della psicosi. Quando accade la famiglia del paziente ha ancora due possibilità: rendersi conto di ciò che sta per accadere e cambiare, oppure mantenere le proprie radicate abitudini ed entrare nella transazione schizofrenica. Così accade anche alla famiglia degli italiani di fronte al gesto inusitato del leader. In che consiste dunque il gesto inusitato? È assolutamente imprevedibile, una novità sconcertante: un socialista rivoluzionario fonda un movimento militarizzato di estrema destra, un imprenditore televisivo si fa leader politico, un perdigiorno di provincia s’improvvisa razzista dentro una canottiera da operaio comunista, un comico manda tutti affanculo. Tutte novità peculiari, nella ripetizione, davanti a un pubblico disperato che non vede vie d’uscita.
Ma Erasmo ha una soluzione, sul finire dell’Elogio ricorda che alcune passioni dell’anima sono in stretto rapporto con il corpo materiale. Tra queste la brama amorosa, che è una specie di follia buona. Se Platone scrisse che l’amore è un uscir fuori di sé, l’amore erotico, passionale, ma anche come apertura all’altro e solidarietà sociale contrasterà il narcisismo del capo, organizzato intorno alla cinica indifferenza.
Erasmo, questo nostro grande contemporaneo, diagnostica la via d’uscita da quest’epoca: riprendere fiducia nella relazione, farla finita con ogni tipo di confraternita oppressiva e mortifera. Imbarcare piuttosto costoro, nelle nostre coscienze, sulla Stultifera Navis e osservare, a distanza dovuta, il loro naufragio.