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STORIA E STORIOGRAFIA. "In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla" (w. Benjamin).

L’ATLANTE DEL "PARADISO IN TERRA", BOLOGNA, DANTE, E LA "MEMORIA" DI ABY WARBURG. Una nota - di Federico La Sala

"Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo" (W. Benjamin).
mercoledì 18 gennaio 2017
[...] Al tempo di Bonaccorso di Soresina, podestà di Bologna, del giudice ed assessore Giacomo Grattacello, fu scritto quest’atto, che deve essere detto Paradiso, che contiene i nomi dei servi e delle serve perché si sappia quali di essi hanno riacquistato la libertà e a qual prezzo [...]
"Non permetto che mi si trascini attraverso l’Inferno se non a colui che confido sappia anche portarmi attraverso il Purgatorio fino al Paradiso" (Aby Warburg, 26.06.1896).
IL "LIBER PARADISUS" DEL XX (...)

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> L’ATLANTE DEL "PARADISO IN TERRA", BOLOGNA, DANTE, E LA "MEMORIA" DI ABY WARBURG -- LE MINORANZE POSSONO FARCI USCIRE DAL SECOLO DELL’ORRORE (Franco Fortini, 1986)

martedì 14 aprile 2020

LE MINORANZE POSSONO FARCI USCIRE DAL SECOLO DELL’ORRORE

dii Franco Fortini (il manifesto, 28 ottobre 1986).

Non voglio davvero disconoscere che la libertà minore (pedagogica perché fortifica, per via di esperimento ed errore, il soggetto disordinato, e lo introduce al sistema di premi e di punizioni che l’esistenza è) non sia anche apportatrice di salubrità, di salute. Anzi, nel nostro presente che è feroce con i deboli e li sopprime ai minimi vitali (o anche al di sotto di quelli) e si vanta del sangue che la sera si trova sotto la suola delle scarpe, la libertà di disporre del cibo e del letto, delle vesti e delle medicine sarà certo meno terapeutica della volontà di quanto non siano le libertà di scelta ma è, di queste ultime, la condizione prima.
-  Bisogni e desideri, necessità e fantasmi sono inseparabili e in continuo transito gli uni attraverso gli altri. Per non averlo capito in tempo, la tradizione laico-liberale e quella socialista, a eccezione di pochi che onoriamo, si sono presentate impreparate all’appuntamento dei nostri decenni e hanno continuato a ripetere i luoghi comuni dell’autocoscienza individuale oppure di un impegno politico che tutto delegava al Partito, inteso quale supremo gestore dell’autocoscienza.
-  E proprio per questo è potuto sembrare invece che, chiamata da Eliot la “infermiera agonizzante”, la Chiesa terapeuta e taumaturga sia stata capace di supplenze allo stato, di unificare apostolato e guarigione, politica sacramentale e pedagogia della salvezza; né sarebbe male che vi guardassimo più da vicino.
-  Per decine di anni troppa parte dell’ottimismo scientifico e delle illusioni sono passate, senza reale verifica, dalla tradizione giacobina o democratico-laica a quella comunista; che, come abbiamo vissuto, quando le fallisca il duro padre leninista ricorre ai miti sentimentali che hanno abbeverato progresso e industria, dai saint-simoniani al New Deal.

Mi permetto rammentare, di passaggio, che non si è data sufficiente attenzione ai punti di contatto tra il pessimismo antropologico che è proprio della storica “terapia” cristiana e quello storico di una parte rilevante, sebbene minoritaria, del marxismo moderno. Per il cristiano l’uomo è costituzionalmente ammalato, leso da un vulnus originario che lo ha reso separato dalla natura edenica; la sua guarigione è salvezza e si attua fuori dal tempo, il presente non è che figura di un altro presente immutabile. Ma anche una parte del pensiero rivoluzionario, quella non rousseauiana né positivistica, non hanno una mera fine ma solo una trasformazione storica, non solo una funzione negativa ma anche una positiva.
-  Solo l’ammalato può allora essere il terapeuta dell’ammalato, secondo la parola brechtiana, sklaven verden dich befreien “schiavi ti libereranno”. Nei medesimi anni di Brecht, inascoltati dalla sinistra dell’ottimismo “progressista”, lo dicevano anche Simone Weil e Ernst Bloch. Ma se era relativamente facile dire questo pensando alle classi umiliate e offese dell’Europa di cinquant’anni fa, chi realmente oserebbe oggi proporre, accanto a quelle, come terapeuti o liberatori, come i re guaritori o lebbrosi della leggenda, gli schiavi, i malati, i feriti del terzo e quarto mondo? O i nuovi barbari delle nostre periferie? Eppure, non dimentichiamolo, fu questa la sfida cui si confrontarono cent’anni fa i rivoluzionari europei. Il ruolo terapeutico di “pratiche sociali”.

Una volta avrei capito subito che cosa si intendesse con “pratiche socali”; oggi, ma dubitosamente, credo che si alluda all’area vastissima e giustamente imprecisa, che è oggetto di volontariato o semi-volontariato o di particolari attività amministrative, dove si lavora a contatto di situazioni generalizzate, prodotte dalla società presente ma che, essa situazione, nelle proprie istituzioni, è incapace di gestire e trasformare. A me pare che la particolare condizione di queste “pratiche sociali”, nel loro inevitabile ambiguo rapporto con le istituzioni dello stato del “benessere” o “sociale” (e con quelle sue sottosezioni che sono i partiti) le volga a qualcosa che non è soltanto fattuale, empirico, immediatistico bensì a qualcosa che “deve o “dovrà” essere.
-  La “pratica sociale” sembra, fortunatamente, eccedere proprio quel frazionamento degli uomini, quella reificazione in figure e ruoli che è, a mio avviso, l’inevitabile e già ovunque visibile conseguenza delle prediche sulla “fuga dal centro” e sulla fine dei progetti di futuro. L’Occidente conosce benissimo questi corpi intermedi fra partecipazione e secessione. E’ inevitabile che i poteri centrali diffidino, tentino di inglobare o controllare o, al bisogno perseguitino, come fu con i Giansenisti e con gli anarchici. Questi microrganismi sono naturalmente terapeutici, sono libertà e la portano, enzimi del corpo sociale e, come spesso ripetono,”nel mondo ma non del mondo”.

Nessuna di queste istituzioni di mutuo soccorso psichico e fisico, ideologico e corporeo, può evitare, come un qualsiasi Esercito della salvezza, il passaggio dalla minestra all’opuscolo, al libretto rosso o verde, all’invito a film, riunioni o feste; ma che dico, non può e neanche deve, perché il ruolo terapeutico di queste pratiche sociali è proprio di essere un indice teso a qualcos’altro, a un dover essere, a un “oltre” e, se non lo sono, allora valgono quanto il medico della mutua, i congressi dei partiti, il campionato di calcio o il Te Deum a Santiago.
-  Per dire tutto in una formula: la condizione che chiamiamo di libertà - da qualcosa e per qualcosa - non è terapeutica o lo è solo se contiene in sé la possibilità di un superamento di se stessa ossia una obbligazione e un impegno, quindi una accettata limitazione di se stessa per un fine e un orizzonte ulteriori.

Quanto affermo va contro il costume intellettuale ereditato dal progressismo. In una società che non vuole sentirne parlare (o vuol sentirne parlare soltanto “a destra” ossia con ben precise garanzie di ordine sociale) quanto affermo implica anche considerare terapeutico ciò che indirizza gli investimenti libidinali verso quel che oltrepassa la nostra biografia, dunque verso una repressione.

Non sarà possibile mutare il presente senza minoranze che sviluppino e pratichino terapie e autoterapie mirate direttamente alla fuoriuscita dal secolo degli orrori e stupidità cui siamo avvezzi. Sotto la sua pupilla di Medusa, l’esperienza della prima metà del secolo ci ha pietrificati a segno che queste mie parole appaiono, nella più benevola delle ipotesi, come patologia autoritaria.

Rassicuriamoci, non propongo l’Opus Dei né la Terza Internazionale. Ho detto “minoranze”, ma quello di cui sto parlando riguarda tutti, terapeuti e pazienti, portatori di salute e di un possibile rationale obsequium, di una razionale ubbidienza a quanto senza alcun dubbio si configura come una forma o figura di Super IO.
-  Probabilmente è quella di cui parla la Commedia quando in vetta al Purgatorio, allo homo viator chiamato Dante Virgilio dice che ormai incorona te sovra te, indicando il segno di una salute raggiunta non in una unità ma in una divisione accettata fra un sé universale e un sé particolare.
-  Anzi, il primo segno ed esercizio di una libertà ricevuta o recuperata è in quel processo ininterrotto di identificazione e di separazione, fra momento di autorità (interiore o esteriore) e momento di ubbidienza (interiore e esteriore). Ecco perché al celebre motto liberale “La mia libertà finisce dove comincia la libertà di un altro”, non da oggi ma da un secolo si replica: La mia libertà comincia esattamente e soltanto dove comincia la libertà di un altro.


Sul tema, nel sito, si cfr.:

FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.

FLS


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