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STORIA E STORIOGRAFIA. "In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla" (w. Benjamin).

L’ATLANTE DEL "PARADISO IN TERRA", BOLOGNA, DANTE, E LA "MEMORIA" DI ABY WARBURG. Una nota - di Federico La Sala

"Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo" (W. Benjamin).
mercoledì 18 gennaio 2017
[...] Al tempo di Bonaccorso di Soresina, podestà di Bologna, del giudice ed assessore Giacomo Grattacello, fu scritto quest’atto, che deve essere detto Paradiso, che contiene i nomi dei servi e delle serve perché si sappia quali di essi hanno riacquistato la libertà e a qual prezzo [...]
"Non permetto che mi si trascini attraverso l’Inferno se non a colui che confido sappia anche portarmi attraverso il Purgatorio fino al Paradiso" (Aby Warburg, 26.06.1896).
IL "LIBER PARADISUS" DEL XX (...)

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>LA "MEMORIA" DI ABY WARBURG. --- Fra antropologia e storia dell’arte. Un volume di testi inediti in Italia del grande studioso (di Maurizio Cecchetti).

venerdì 10 dicembre 2021

Aby Warburg: storico dell’arte o antropologo delle forme arcaiche?

Esce nei “Millenni” un volume di testi inediti in Italia del grande studioso tedesco considerato il padre dell’iconologia. Dai saggi emerge che la sua figura richiede una nuova definizione

di Maurizio Cecchetti (Avvenire, venerdì 10 dicembre 2021)

      • [Foto] Aby Warburg

Siamo a cavallo tra XIX e XX secolo, Aby Warburg ha fatto il suo viaggio americano, a sud-ovest, dove ha scoperto i rituali degli indiani Hopi, in particolare la danza del serpente, ed è tornato in Europa con una idea che non si leverà più dalla testa e che aveva cominciato a coltivare a partire dai suoi studi giovanili sul versante storico-religioso e sui filologi classici tedeschi. La sua triade di riferimento che lega filosofia, storia, storia dell’arte, antichistica, filologia è quella di Burckhardt, Nietzsche e Usener. Ma sul versante filosofico ci sono anche Kant, Cassirer e il furor bruniano. Ma anche linguisti, psicologi e gli antropologi che lavorano sui cosiddetti “primitivi”. Warburg pensa che se si vuole capire come funziona la nostra psiche, i lati oscuri che ci spingono verso l’irrazionalità, dobbiamo studiare i rituali pagani e in particolare l’arcaismo greco, che è poi un sinonimo di dionisiaco, di riti orgiastici come le danze delle menadi, di sacrifici cruenti...

Quando scopre gli Hopi e il rituale del serpente, Warburg si convince che ha finalmente a disposizione materia prima per verificare le sue idee e determinare una sorta di grammatica delle espressioni, tema che ha ereditato dal saggio di Darwin L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, che aveva letto per la prima volta nella traduzione italiana uscita a Torino nel 1878, riprendendo poi questa linea quando terrà nel 1889 un seminario sui Tipi della Cappella Brancacci il cui testo, come ricorda Maurizio Ghelardi, è tuttora inedito in tedesco.

Ghelardi, studioso di Burckhardt e, da molto tempo, anche di Warburg del quale ha curato varie edizioni, ha composto per la collana dei “Millenni” Einaudi un secondo volume dell’opera warburghiana dove, dopo il primo che riuniva i saggi di interpretazione iconologico-astrologica, ora presenta una serie di scritti, alcuni mai tradotti prima, sotto il titolo Fra antropologia e storia dell’arte.

Si tratta del libro che per la prima volta cerca di liberare Warburg dalla camicia di forza iconologica, sostenendo apertamente che egli è «anche storico dell’arte», ma è molto altro e di diverso dal suo mito. Warburg appartiene a una categoria di uomini che studiano e cercano di mettere in chiaro ciò che non riescono a dominare dentro se stessi: ossessioni, fobie, paure ataviche, stati di latente schizofrenia che lucidamente sentono e analizzano (era di moda nel Sessantotto dire che in ogni uomo c’è un po’ di schizofrenia, intendendo mettere in discussione la distinzione fra sani e malati che poi fondò la nuova psichiatria basagliana).

Warburg mette in pratica il monito medice, cura te ipsum, che si legge nel Vangelo di Luca, ma ha una più antica origine nell’esegesi biblica ebraica. Nella sostanza, studiando le forme arcaiche dell’arte greca per riconoscervi la traccia degli impulsi vitali originari che ancora si possono cogliere formalmente sotto le incrostazioni di una cultura “moderna” - quella dell’immagine rinascimentale - che ha soffocato lo slancio puro dell’antico paganesimo, tuttavia commette un errore prospettico quando assimila questo al paganesimo “attuale” dei rituali indiani che ha conosciuto in Nuovo Messico e dintorni. Sembra dimenticare che anche le culture postcolombiane sono state contaminate dalla razionalità occidentale dei conquistatori. Lui stesso quando acquista oggetti o fotografa gli Hopi opera con una logica “coloniale” che anni fa - con la mentalità che oggi chiamiamo cancel culture - fece saltare in America il progetto di una mostra su di lui. Ciò che possiamo conoscere ancora in una forma vitale e non archeologica, ma anche in una differenza temporale che, inevitabilmente, ha alle spalle i millenni seguiti alla scomparsa del paganesimo greco. Qui metodo storico-religioso e fenomenologia si giocano una partita tutta ancora da decostruire.

In senso generale, Warburg si muove per tenere in pugno la propria “schizofrenia”. Non si deve dimenticare che restò in cura cinque anni, dopo la Grande Guerra (che fu, come lui stesso ha scritto, una concausa della sua instabilità psicologica), e sottoponendosi alla terapia “esistenziale” del celebre psichiatra svizzero Binswanger - che dirigeva a Kreuzlingen la clinica Bellevue ed era critico verso le teorie di Freud sul primato dell’Es -, ne uscì ristabilito nell’equilibrio nervoso, ma pur sempre tormentato dai suoi disturbi fobici.

Lo storico dell’arte amburghese Carl Georg Heise ricorda in un libro su Warburg del 1947 che egli diventava violento scaricando la sua ira su chiunque cedeva all’estetismo. Ma questo non è altro che il rovescio della medaglia: egli svolge, in senso propriamente nietzscheano, un’opera di smascheramento contro tutto ciò che, secondo lui, il cristianesimo ha imposto alla grammatica delle espressioni arcaiche al fine di normalizzarne la potenza destabilizzante (quella sulla psiche individuale, ma anche sull’ordine sociale che il potere deve controllare).

Le tracce pagane - le “formule del pathos” - sepolte nella memoria inconscia, le coglie, per esempio, nelle figure del Rinascimento che mostrano il panneggio ondeggiante e i capelli al vento, come se appunto riemergesse dalle figure del Ghirlandaio o di Botticelli un lacerto di quell’impulso vitale incontenibile e da non ridurre all’ordine perché è prova di qualcosa che ribolle sotto l’apparenza umana.

Warburg combatte alla radice il dogmatismo religioso, «gli antichi dèi pagani - scrive Ghelardi - ridotti in miseria dal trionfo del cristianesimo». Anzi li va a cercare dove abitano «sotto mentite spoglie i più remoti luoghi della terra» (gli Hopi, appunto). E s’impegna a svestire le forme edulcorate ovvero estetizzanti dell’arte che piaceva ai mercanti fiorentini che commerciavano con le Fiandre.

La sua critica delle immagini è una teoria del sospetto, come quella di Nietzsche, Marx e Freud. Lettore precoce della Nascita della tragedia dove Nietzsche teorizza l’opposizione fra apollineo e dionisiaco, ma poi anche di Totem e tabù, dove nel 1913 Freud collega le espressioni della mente primitiva e le patologie nevrotiche, Warburg cerca di orchestrare attorno al concetto di polarità (quindi non secondo dialettica) la separazione dell’“erma bifronte” che guarda in due direzioni opposte: Apollo e Dioniso. Mondi inconciliabili.

Occorreva «strappare la greca Atene dalle mani di Alessandria». Ma la lotta contro l’apollineo come forma statica dove la bellezza è vita pacificata (vedi l’accusa di Nioetzsche al cristianesimo come religione dei deboli), ha anche come obiettivo polemico Winckelmann e il suo ideale classico di «nobile semplicità e quieta grandezza».
-  Questa antologia curata da Ghelardi (soprattutto la prima sezione sull’uomo simbolico con una selezione dei Frammenti costitutivi per una teoria pragmatica dell’espressione) ci fa capire meglio alcune cose: Warburg cerca un linguaggio che scavi nelle profondità della sua nevrosi, e per farlo elabora una sorta di psicologia-antropologia sperimentale delle forme simboliche.

Impressionante sforzo che ha anche la sua macchina probatoria: la Biblioteca, che egli costruisce facendosi finanziare dalla sua famiglia di banchieri ebrei. Potremmo dire che la Biblioteca è anche la sua mente organizzata secondo l’idea del “buon vicinato” di cui ha più volte parlato Calasso. L’Atlante Mnemosyne ne doveva essere il figlio rivoluzionario. Rimasto incompiuto per la morte prematura dell’autore nel 1929, è diventato un mito variamente imitato tanto nella letteratura quanto nella critica delle immagini. Warburg ritornò dalla clinica nel 1924 parzialmente guarito (come scrive Ghelardi, la conferenza sul rituale del serpente, che doveva dare prova della sua guarigione, dimostra che la terapia non riesce a eliminare completamente il potenziale fobico degli strati arcaici). Il giorno dopo aver tenuto la conferenza Warburg scrive a Saxl, suo fedele collaboratore, di non pensare a una pubblicazione del testo perché lo ritiene inadeguato. Il tono è quasi depresso, ma è la prova di come la sua grandezza di studioso non vada disgiunta dalle sue patologie. E quella conferenza è, in tal senso, emblematica.

Aby Warburg
-  Fra antropologia e storia dell’arte Einaudi. Pagine 726. Euro 85,00


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