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MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...

LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! Alcune note - di Federico La Sala

I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
domenica 10 dicembre 2023
[...] "SAPERE AUDE!" (I. KANT, 1784). C’è solo da augurarsi che gli storici e le storiche abbiano il coraggio di servirsi della propria intelligenza e sappiano affrontare "l’attuale crisi di identità della storiografia" [...]
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
-***FOTO. Xanti Schawinsky, Sì, 1934
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LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE (...)

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> LA STORIA DEL FASCISMO --La marcia su Roma si poteva fermare - Milza e Berstein sottolineano che nell’ascesa del fascismo giocarono un ruolo fondamentale le “classi medie emergenti” (di Dino Messina).

martedì 21 maggio 2019

La marcia su Roma si poteva fermare

di Dino Messina (Corriere della Sera, 21 maggi0 2019)

La marcia su Roma era stata messa a punto alla metà di ottobre 1922 dai quadrumviri Emilio De Bono, Italo Balbo, Michele Bianchi e Cesare Maria De Vecchi. L’Italia era stata divisa in dodici zone ciascuna sotto il controllo di un ispettore fascista, mentre l’avvicinamento alla capitale sarebbe avvenuto da tre punti di raccolta: Santa Marinella, Monte Rotondo e Tivoli. L’azione cominciò con il congresso di Napoli del 24 ottobre, che richiamò 40 mila fascisti. Benito Mussolini, davanti a quella platea di militanti in camicia nera tuonò: «Io vi dico, con tutta la solennità che il momento impone: o ci danno il potere o noi ce lo prenderemo piombando su Roma». L’attacco a Roma era stabilito per il 28, ma prudenzialmente il capo del fascismo rientrò a Milano per dare una parvenza di legalità alle sue manovre parlamentari e nello stesso tempo perché da Milano, dove l’avventura fascista era cominciata poco più di tre anni prima, era più facile raggiungere la Svizzera, se le cose si fossero messe al peggio.

La narrazione di Pierre Milza e Serge Berstein, due dei maggiori storici francesi dell’età contemporanea, nella corposa Storia del fascismo da oggi in edicola con il «Corriere della Sera» è allo stesso tempo rigorosa e accattivante. Ripercorre tutte le fasi dell’età mussoliniana - dallo scoppio della Grande Guerra all’esecuzione del Duce - in una cavalcata storica di cinquecento pagine che lascia senza respiro e risponde alle maggiori domande su uno dei fenomeni centrali del Novecento italiano ed europeo.

Chi erano innanzitutto i militanti che diedero vita al movimento prima e al Partito fascista poi? Erano espressione delle classi deboli di una società piegata dalle difficoltà del dopoguerra o costituivano l’avanguardia di ceti emergenti che volevano sostituirsi alla vecchia classe dirigente? Secondo un’inchiesta del 1921 su 151 mila aderenti, cioè la metà degli iscritti, scrivono Milza e Berstein, «si contavano 18.000 proprietari agrari e 4.000 industriali, (una proporzione inferiore a quella di tali categorie nell’intera società), 14.000 piccoli commercianti, 15.000 impiegati, 7.000 funzionari, diecimila professionisti, in una proporzione che superava di gran lunga tali categoria nel corpo sociale». Il resto era rappresentato da operai agricoli (circa 37 mila) e da operai disoccupati (23 mila). Queste categorie, osservano gli autori, rappresentavano la manovalanza nelle azioni squadristiche che terrorizzarono le città e sovvertirono gli equilibri anche nelle campagne, dando man forte ai proprietari terrieri che non intendevano rispettare gli accordi faticosamente raggiunti con le leghe dei braccianti. Milza e Berstein sottolineano tuttavia che nell’ascesa del fascismo giocarono un ruolo fondamentale quelle che Renzo De Felice aveva definito le «classi medie emergenti».

Tornando alla marcia su Roma, le cose non si svolsero nel più lineare dei modi. Mentre nel resto del Paese, dal 27 ottobre gli squadristi si presentavano alle prefetture e ai comandi di polizia, alle centrali telefoniche e alle stazioni per prendere il controllo del situazione senza incontrare resistenza, sulla capitale confluirono soltanto 26 mila uomini, male armati e peggio organizzati. A Roma era presente un presidio militare di 28 mila uomini, molto ben equipaggiati e addestrati al comando del generale Emanuele Pugliese. Sarebbe bastato un ordine preciso dall’alto per ribaltare la situazione. Ma il re Vittorio Emanuele III, rassicurato anche dal cambiamento filomonarchico di Mussolini, si rifiutò di decretare lo stato d’assedio.

Quattro anni dopo la fine della Grande guerra, conclusasi secondo la mitologia dannunziana con una «vittoria mutilata» e dopo due anni di scontri sanguinosi, la classe dirigente dell’età liberale assisteva all’ascesa legale del sovvertitore Mussolini. Molti, anche convinti democratici, tirarono un sospiro di sollievo pensando che l’incarico di presidente del Consiglio al capo delle camicie nere, che il 30 ottobre si era presentato al Quirinale in divisa fascista, fosse il prezzo minore e provvisorio da pagare per lo scampato pericolo della rivoluzione bolscevica. Invece non andò così, come ben raccontano Milza e Berstein.


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