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MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...

LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! Alcune note - di Federico La Sala

I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
domenica 10 dicembre 2023
[...] "SAPERE AUDE!" (I. KANT, 1784). C’è solo da augurarsi che gli storici e le storiche abbiano il coraggio di servirsi della propria intelligenza e sappiano affrontare "l’attuale crisi di identità della storiografia" [...]
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
-***FOTO. Xanti Schawinsky, Sì, 1934
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LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE (...)

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> LA STORIA DEL FASCISMO --- Harukichi Shimoi e Gabriele D’Annunzio. Un giapponese a Fiume tra ju-jitsu, imprese aeronautiche e studi danteschi (di Leonardo Palma).

giovedì 22 settembre 2022

====== CONTINUAZIONE DEL POST PRECEDENTE E FINE====

Anni dopo, il Vate avrebbe ricordato come i giapponesi, gli unici a ″sentire l’odore del sangue″, fossero tra i pochi a possedere quella sensibilità d’animo necessaria per capire le sue opere. Per suggellare l’affratellamento, Shimoi propose a D’Annunzio l’avventura di un volo Roma-Tokyo; un tema, quello aeronautico, che anche l’interpretazione di Italo Balbo - chi vola vale, chi non vola non vale, chi vale e non vola è vile - non può che rimandare a quell’ansia di azione e movimento, di conquista, di superamento, e di affermazione di libertà in potenza.

La Sarfatti ne venne a conoscenza e scrisse al Vate, ansiosa di partecipare al raid: “Vi prometto assoluta obbedienza ed assoluta segretezza”. Nel Fastello della mirra, D’Annunzio avrebbe poi ricordato che da tempo pensava ad un volo verso l’oriente, non Odissea di un animo inquieto ma conquista spirituale, come ″i tre latini″ che recarono un’ampolla di olio al Santo Sepolcro dopo un lungo cammino da Acri. Ma gli eventi di Fiume lo costrinsero ad abbandonare l’impresa e degli stormi che partirono soltanto Arturo Ferrarin e Guido Masiero - “... il giovane eroe sostò sull’Alpe e si addormentò nella gloria gelida. ... Ho perduto il mio pilota. La sorte mi permetterà di ritentar la prova?” - giunsero a Tokyo.

      • [Foto] Arturo Ferrarin pronto a compiere la sua Impresa

I due aviatori furono accolti come eroi liberatori, quaranta giorni di festeggiamenti e il dono da parte del principe Hirohito di un kimono e di una katana delle collezioni imperiali a cui fece da rumoroso screzio la sorda indifferenza italiana, adusa alla polemica e mai alla riconoscenza. Ferrarin inchiostrò tutta la sua amarezza nelle pagine de “Il mio raid Roma-Tokyo”, ma volle anche dedicare quell’opera:

      • “Alla Vita, all’Amore, alla Morte, ed al mio motore, sempre ubriaco di benzina e di spazio, che ha squarciati i Silenzi dell’Infinito, coll’urlo rauco dei suoi 250HP”.

Il mondo di ieri incrociava lo zenit, quello dell’ardimento futurista passava pel nadir. D’Annunzio scrisse a Shimoi mentre i suoi legionari si armavano, dolendosi di non poter “vedere fiorire il pesco nella terra di Tokyo”. Gli offrì il suo posto nella carlinga:

      • “Spola che non conosce il moto alterno. Andrete? Recate il saluto di Fiume ai nostri fratelli del Sol Levante; e le violette di Fiume che oggi sono le più profumate del mondo”.

Proprio a Fiume si concluse l’ultimo atto di D’Annunzio, la corsa che lo avrebbe trasformato da poeta-eroe a poeta-condottiero, uno sforzo di volontà sì forte da cangiar la vita in arte. Quel manipolo di irregolari, di legionari in cui si fusero senza ordine ufficiali, socialisti rivoluzionari, arditi, futuristi, nazionalisti, anarchici, sindacalisti, furono il suo verso più duraturo. L’estetica, che secondo il capitano Carli era ″avviata da un potente respiro di umanità″, tramortì Apollo e risvegliò all’ebbro Dioniso, e quel che era nato come un atto politico travolse se stesso e divenne prima vita-festa, poi vertigine rivoluzionaria e infine declinò in duello fratricida che, come sempre accade in Italia, si tinse dei colori della commedia tragica.

      • [Foto] Arturo Ferrarin, vittorioso in Giappone

Si presentò a D’Annunzio vestito da Ardito, gli consegnò l’onorificenza di Cavaliere del Sol Levante e un messaggio di incoraggiamento. Il Vate lo abbracciò, lo nominò caporale d’onore della sua guardia del corpo e gli offrì un banchetto insieme ai suoi legionari durante il quale pronunciò un discorso augurale per il futuro del Giappone, intravedendone il riscatto morale e il suo ruolo guida nella resurrezione della Grande Asia. Funesta premonizione ai principi ideologici che guidarono lo spietato governo militare di Tokyo negli anni della Seconda Guerra Mondiale. Da quel momento in avanti, D’Annunzio prese a chiamare Shimoi “camerata-Samurai”, lo coinvolse in scherzi alle truppe ma, soprattutto, lo usò come emissario con Benito Mussolini, all’epoca direttore de Il Popolo d’Italia e fondatore dei Fasci di Combattimento.

Shimoi usciva segretamente da Fiume assediata e raggiungeva Milano, consegnava a Mussolini le reprimende del poeta per lo scarso supporto e ne raccoglieva le confidenze e i malumori. “T’invio questo fratello Samurai”, scrisse la prima volta D’Annunzio. In poco tempo, anche nel futuro Duce crebbe la stima per quel giapponese venuto da così lontano. Proprio nel fascismo movimentista e sansepolcrista, quello più genuinamente rivoluzionario, ribelle, Shimoi intravide la cura per il suo paese natio.

Ciò nondimeno, il trapianto del fascismo in Giappone fu limitato all’espressione puramente estetica dello stesso, poiché il militarismo nipponico si caratterizzò sì per una ideologia ultranazionalista ma anche per la sua sincretica originalità. Negli stessi giorni in cui D’Annunzio portava i suoi legionari a Fiume, Ikki Kita pubblicava il Nihon kaizo hoan taiko (Linee di un progetto di ricostruzione del Giappone) che, in modo assai superficiale, è stato considerato come l’omologo orientale del Mein Kampf.

      • Shimoi assieme a Mussolini

In esso, Kita sosteneva la necessità della nascita di un Impero rivoluzionario che avesse la forza di contrastare l’ordine internazionale occidentale e divenire la guida dei popoli asiatici. Shimoi condivideva le riflessioni di Kita ma credeva che la rivoluzione dovesse essere spirituale, prima ancora che politica e per questo si spese affinché il fascismo italiano desse i suoi frutti anche tra la gioventù nipponica.

Nell’atmosfera effervescente di Fiume, tra critici cinematografici, letterati, intellettuali, soldati, scrittori provenienti dalla Francia, dalla Russia sovietica, dalle regioni magiare e balcaniche, il poeta giapponese potrebbe aver ispirato a sua volta le radici ideologiche dell’associazione segreta Yoga, fondata dall’aviatore Guido Keller e nutrita di suggestioni orientali vagamente inquietanti come il culto della svastica indiana.

      • Shimoi lasciò Fiume ben prima del tragico epilogo di Natale, forse perché deluso dalle lotte intestine che martoriavano la reggenza, e se ne tornò a Napoli.

Gli offersero la cattedra di yamatologia succedendo al Balbi e negli anni seguenti s’impegnò nella divulgazione della poesia e della cultura giapponese, pubblicando a proprie spese la rivista Sakura e una annessa raccolta di libri. Intorno al giornale gravitarono numerose personalità artistiche di quegli anni come Nicola Maciariello, Rodolfo Vingiani, Attilio Colucci, Nakamura Kozo, Dan Koreyoshi e Yozano Akiko di cui pubblicò un piccolo capolavoro dal titolo Onde del mare azzurro.

Ma come nella poesia di Salvatore Di Giacomo, per Shimoi quegli anni furono solo un intermezzo ad un periodo in cui “ll’aria s’è fatta scura...‘O tempo se revota”. Nel 1921 fu assunto come interprete dall’ambasciata giapponese ed organizzò un incontro nella sede milanese del Popolo d’Italia tra Mussolini e alcuni diplomatici e deputati. Nell’ottobre dell’anno successivo fu tra le camicie nere che marciarono su Roma, forse una delle poche teste pensanti lì in mezzo, e poco tempo dopo, insieme al biografo del Duce Beltramelli, fondò la prima associazione culturale italo-giapponese.

      • [Foto] Guido Keller mentre si appresta a solcare i cieli

Nel 1923 accompagnò due documentaristi, Masutomi e Itoi, che erano stati incaricati dal Ministero dell’Istruzione del Giappone di realizzare un film sulle meraviglie del mondo, a Napoli, Firenze, Venezia, Roma, ma volle che la loro macchina da presa non catturasse soltanto quella che lui chiamava l’Italia archeologica, bensì quella “viva e pulsante” di Enrico Toti, di Beccastrini, minatore cieco ed eroe di guerra, e della nave-asilo Caracciolo dove la ″Montessori dei mari″, Giulia Civita Franceschini, educava gli orfani napoletani. Convinto delle affinità elettive tra l’Italia e il Giappone, Shimoi volle poi che i due documentaristi potessero incontrare il Duce e riprenderlo mentre passeggiava o faceva il saluto romano.

      • L’amicizia tra Shimoi e Mussolini, nata durante l’avventura fiumana, resistette nel tempo come intimo affetto prima ancora che come comunanza di sentire politico.

Come Fiume fu figlia dell’ingenuità poetica di D’Annunzio, così lo fu l’ammirazione che Shimoi provava per il Duce. Quest’ultimo si appassionò alla cultura giapponese e lo stesso De Felice commentò gli estremi di questa ″simpatia″ in un articolo del 1988, ricordando come Mussolini fosse rimasto impressionato dalla storia dei samurai Byakkotai i quali, dopo essere stati sconfitti e convinti della morte del loro daimyo, fecero seppuku per rispettare il patto di fedeltà che li aveva legati in vita al loro signore.

Memore di questa epopea raccontatagli da Shimoi, nel 1928 il Duce donò al governo giapponese una colonna pompeiana, decorata con la scultura di un’aquila in bronzo forgiata da Duilio Cambellotti, che ancora oggi adorna la collina Limori-Yama e la cui targa commemorativa ricorda il sacrificio dei guerrieri Byakkotai. Questo interesse fu duraturo, non transitorio, e nel 1924 Mussolini accettò la proposta di Shimoi di fare da testimonial per una famosa bevanda analcolica giapponese, la Calpis, e scrisse di suo pugno un messaggio alla gioventù nipponica esaltando la vicinanza tra il fascismo italiano e lo spirito del Bushidō (Via del Guerriero) giapponese.

La campagna pubblicitaria fu un successo e questo diede a Shimoi lo slancio per fondare un movimento politico extraparlamentare - il Partito della Gioventù Imperiale - e per pubblicare una serie di opere sul Duce e sul fascismo, da “Fassho Undo a Gyorai no se ni matagarite” (Cavalcando sul retro di un siluro), da “Shinto Ponpeo o tou tame ni” (una guida artistica a Pompei) fino alle traduzioni di libri e discorsi del Duce, inclusa la sua tesi di laurea Preludio al Machiavelli. Quelle stesse traduzioni, inclusa quella in italiano di una commedia satirica su Mussolini e il delitto Matteotti che sarebbe poi stata sottoposta a censura, gli sarebbero costate l’espulsione dall’università negli anni ’50 per propaganda a favore dell’Asse.

      • [Foto] La Via del Guerriero

Durante gli anni Venti e i primi anni Trenta, Shimoi continuò a fare la spola tra il Giappone e l’Italia, lavorando alacremente alla promozione e agli scambi culturali tra i due paesi. Fu l’interprete del prof. Jigoro Kano, il fondatore del Judo, quando quest’ultimo venne a Roma nel 1928 per incontrare esponenti del governo, della diplomazia e delle forze armate italiane, tra cui il maestro Carlo Oletti, marinaio e pioniere della lotta giapponese in Italia. Sul quotidiano L’Impero, Shimoi scrisse che:

      • “Il Judo non ha solo lo scopo di educare il corpo, ma vuole anche plasmare moralmente e intellettualmente l’individuo per formarne un ottimo cittadino”.

Gli echi della sua personale visione dell’arditismo e della cultura guerriera sono evidenti. Dopo essersi fatto fotografare a Palazzo Venezia nel 1926 insieme a Mussolini, aveva dichiarato:

      • “Il popolo giapponese sente vibrare nel Duce del Fascismo l’anima degli eroi”.

In Shimoi il sentimento incedeva sul pensiero politico poiché, scavando a fondo, egli rimaneva un poeta e un letterato, dunque un ingenuo come tutte le anime belle. E come tutti gli ingenui che arrivano a conoscere i propri idoli, alla fine ne rimase inevitabilmente deluso. Nonostante l’impegno profuso nel fondare un pensiero che fosse autenticamente nipponico ed altrettanto autenticamente fascista, senza contare le energie spese nella propaganda a favore del regime italiano anche in casi deplorevoli come la guerra etiopica, Shimoi decise di allontanarsi dalla politica e ritirarsi in un angusto cono d’ombra dopo l’abbraccio tra Mussolini e Hitler.

Continuò a credere nella necessità storica di un socialismo a carattere nazionale ma sentì anche montare la diffidenza nei confronti dei disegni di egemonia mussoliniana e hitleriana:

      • “So che Mussolini, nel ’35, s’inscimunì ‘nu poco. So che corse appresso a Hitler e alle fimmine...”.

Forse, in fondo, aveva sempre saputo che si trattava di fesserie. “Fesserie sono tutte. Tutto quello che l’uomo fa è una fesseria ... E questa è la cosa più grande che mi abbia insegnato Napoli”. Shimoi trascorse la Seconda Guerra Mondiale lontano dalla politica, traducendo in giapponese l’opera di D’Annunzio, sforzo che avrebbe eccitato la voracità intellettuale di Yukio Mishima verso lo studio dell’italiano.

      • [Foto] Yukio Mishima, l’ultimo Samurai

Quando nel 1940 gli fu chiesto, in occasione delle celebrazioni dell’Amicizia Italo-Giapponese, di scrivere un articolo, tenne chiusi nel baule della memoria i suoi trascorsi e indirizzò alla rivista una raccolta di poesie con piccole note critiche a margine. Sua figlia aveva deciso di restare in Italia durante la guerra e sarà proprio lei ad ospitare, grazie alla protezione dell’ambasciatore barone Shinrokuro Hidaka, Claretta Petacci per alcuni giorni.

Shimoi fu poi assunto dal Corriere della Sera come corrispondente dall’Estremo Oriente ed una delle poche ricostruzioni dell’attacco di Pearl Harbor da parte giapponese porta la sua firma. L’impegno per il quotidiano milanese finì nel 1943 con la caduta del fascismo ed a quel punto Shimoi decise di riprendere in mano la sua passione per Dante. Volle portare a compimento la nascita di una Casa Dante Alighieri a Tokyo ma come il bambino che scrive in riva al bagnasciuga durante una marea, così il suo sogno fu travolto dalle bombe alleate.

Durante l’occupazione che seguì alla sconfitta, Shimoi toccò con mano il problema delle epurazioni. Fu infatti interdetto dall’insegnamento, salvo poi doverlo richiamare quando si resero conto del valore altissimo della sua arte oratoria e della sua poetica in quanto:

      • “I giapponesi non sanno parlare, nemmeno gli avvocati... un popolo di calligrafi non può essere un popolo di oratori”.

Si riavvicinò un poco alla politica soltanto negli ultimi anni della sua vita, quando convinzioni anticomuniste lo spinsero verso il Partito Conservatore di Mamoru Shigemitzu, quello stesso ministro che subì l’onta di dover firmare la resa a bordo della corazzata americana Missouri il 2 settembre 1945. Quando Montanelli lo raggiunse a Tokyo, Shimoi gli procurò incontri con politici, aristocratici, diplomatici, e lo accompagnò perfino a conoscere suo nipote, l’unico kamikaze scampato alla morte perché la dichiarazione di resa giunse poco prima di calarsi nella carlinga.

      • [Foto] Indro Montanelli volle bene a Shimoi

Davanti a quel piatto di spaghetti, Shimoi assaporò ancora una volta un po’ d’Italia e si confidò. Ricordava ancora la prima volta in cui aveva consegnato una missiva di D’Annunzio a Mussolini:

      • «Ma quand’è che si arrende quel rompicoglioni?». I due si detestavano, era evidente. Per il Vate, il futuro Duce era “nu cafone», e per quest’ultimo il Vate era “nu pagliaccio”. Ma poi guardava Montanelli con i suoi occhi piccoli e neri: «Chistu lo dico a vui, e a vui solo, tengo ‘a vostra parola guagliò».

Un giornalista americano si accorse della bottiglia di Chianti sul loro tavolo, illuminandosi. Fece cenno a Montanelli e quest’ultimo, con gentilezza, ne versò un calice. Il vecchio Shimoi gli afferrò il braccio, con il volto cinereo e la voce tonante: «Un bicchiere di Chianti a un Americano? Un esercito per combattere i Russi, sì, glielo diamo, e sono pronto anch’io. Ma un bicchiere di Chianti, mai...O almeno non prima di altri mille ottocento anni di storia». Si alzò in piedi, guardò torvo l’americano che non capiva una parola e in perfetto napoletano proseguì: «E se per questo mi vogliono epurare, mi epurino pure. Io ‘cca sto!».

Come in quello scritto introduttivo di Croce al primo numero de La Diana del 1915, raccontare Harukichi Shimoi significa difenderne la virtù imperfetta. Il suo filofascismo e l’adesione ad un nazionalismo di stampo militarista portatore di nefande conseguenze furono il peccato di un carattere che non fu privo di virtù.

“Non so quanto valga Shimoi come scrittore giapponese”, rispose Montanelli ad una studentessa che gli chiedeva notizie del professore, “come uomo e come amico valeva moltissimo. Non smetterò mai di rimpiangerlo”.

Nel dicembre del 1954, il cuore da Ardito italiano di quel piccolo giapponese si fermò per sempre.

“E se per questo mi vogliono epurare, mi epurino pure. Io ‘cca sto!”.

Eia, Eia, Eia, Alalà!

La maggior parte delle citazioni in questo articolo sono tratte da:

-  Pautasso, G., Un Samurai a Fiume. Harukichi Shimoi, Oaks Editrice, 2019;

-  De Felice, R., Le simpatie nipponiche di Mussolini, in Relazioni Internazionali, anno I, n. 2, 1988, pp. 45-58;

-  Ferrarin, A., Il mio volo Roma-Tokyo, Idrovolante Edizioni, 2019;

-  Guerri, G.B., Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920, Mondadori, 2019;

-  Peluso, A., ″Il Judo nelle Forze Armate Italiane″, in Il Giappone, vol. 41, 2001, pp. 97-103;

-  Gatti, R., In alto il ferro. Scherma di pugnale per Arditi, Audacia, 2016;

-  Rochat, G., Gli Arditi nella Grande Guerra. Origini, Battaglie e Miti, Le Querce, 2017.

* Fonte: "Harukichi Shimoi: il samurai tra Dante, D’Annunzio e Mussolini", Rivista "Contrasti", 31 maggio 2020 (ripresa parziale - senza immagini).


NOTA*

ALL’ESCORIAL, CON FILIPPO II, NEL 1584: "(...) A Madrid in festa per la pubblicazione delle nozze di Catalina Micaela con Carlo Emanuele di Savoia e per il giuramento del principe Filippo come prossimo sovrano di Castiglia, furono ricevuti da re Filippo che li accolse in compagnia delle infanti e li gratificò di tutti gli onori possibili senza tener conto della differenza di rango tra sé e quei piccoli (non soltanto per ragioni anagrafiche) principi che gli presentarono lettere nelle quali i daimyo loro genitori chiedevano il suo aiuto perché la religione cattolica trionfasse in Giappone” (cfr. Angelantonio Spagnoletti, “#FilippoII”, Salerno Editrice, Roma 2018, pp. 223-224).

DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica

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