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STORIA E STORIOGRAfIA DEL FASCISMO, "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (A. GRAMSCI, 1924).

IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE. Alcune note - di Federico La Sala

Nel 1975, nell’intervista sul fascismo, De Felice (con alle spalle già gran parte della sua imponente costruzione biografica dedicata a Mussolini e al fascismo) ricorda che, nel 1961 (...).
venerdì 21 luglio 2017
BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI
GRAMSCI: "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (1924). All’interno di uno straordinario articolo, scritto per celebrare Lenin (morto il 21 gennaio 1924), nella prima pagina dell’Ordine Nuovo del 1° marzo 1924, con il titolo “Capo” (ripreso, poi, nell’Unità del 6 novembre 1924 col titolo Lenin capo rivoluzionario), Antonio Gramsci - in contrapposizione - delinea con magistrale e storica lungimiranza i tratti essenziali del governo guidato dal (...)

In risposta a:

> MARGHERITA SARFATTI, RENZO DE FELICE, E IL MITO DELLA ROMANITÀ. --- MARGHERITA GRASSINI (di Simona Urso).

mercoledì 3 maggio 2017

GRASSINI, Margherita

di Simona Urso *

GRASSINI, Margherita. - Nacque a Venezia l’8 apr. 1880 da Amedeo e Emma Levi.

Era la quarta figlia - dopo Nella, Lina e Marco - di una ricca famiglia ebrea profondamente ortodossa e molto nota in città. Il padre, avvocato e consigliere comunale - personalità di spicco della comunità israelitica e anche amico personale del patriarca G. Sarto, futuro papa Pio X - fondò, insieme con G. Musatti, la prima società di vaporetti della laguna; i due crearono anche un gruppo finanziario che fornì i capitali per avviare la trasformazione del Lido in località a intenso sviluppo urbanistico attrezzata per il turismo. Amedeo Grassini, quindi, oltre a possedere un ingente patrimonio personale, occupava, in città, una posizione di assoluto prestigio, ulteriormente accresciuta quando, nel 1894, la famiglia abbandonò il ghetto ebraico per trasferirsi a palazzo Bembo. Tale posizione gli permise di provvedere nel modo migliore all’istruzione della G. che, intelligente e precoce, fu educata in casa, potendo usufruire, grazie alle conoscenze paterne, di insegnanti d’eccezione quali lo storico dell’arte, e poi direttore della Biennale, A. Fradeletto, il risorgimentista e futuro sindaco e podestà di Venezia, P. Orsi, il letterato P. Molmenti; lo studio delle lingue straniere ne completò la formazione. La posizione del padre le permise, inoltre, di entrare in contatto con molte delle personalità che, in quegli anni, visitarono la città; fra gli incontri più significativi quelli con I. Zangwill - scrittore ebreo inglese che le fece conoscere il sionismo e le fu sempre amico -, G. D’Annunzio e la famiglia Fogazzaro.

La G. visse sempre il proprio ebraismo d’origine con distacco ma anche con orgoglioso senso di appartenenza culturale, cui non corrispose mai l’accettazione del dato religioso in quanto tale. Questa ambivalenza originaria, in bilico tra assimilazione, conflitto con le radici ebraiche e orgogliosa rivendicazione delle stesse, fu sofferta da tutti i fratelli Grassini, con conseguenze gravi, fino al suicidio della sorella Lina nel 1909. Nella G. tale ambiguità e l’attrazione mai pacificata verso la sfera del sacro avrebbero contraddistinto tutto il suo percorso biografico, conducendola, nel 1928, a una tormentata conversione al cattolicesimo e, più tardi, negli anni Trenta, avrebbero avuto un ruolo anche nel suo distacco dal fascismo.

Nel 1899 la G. sposò l’avvocato Cesare Sarfatti, militante socialista che in quegli anni, accanto a Elia Musatti, stava ricostituendo la sezione veneziana del partito; nello stesso periodo fece anche il suo primo apprendistato come giornalista "di cose d’arte" su Il Secolo nuovo, quotidiano socialista locale.

Nell’esercizio di quest’attività, particolare rilevanza ebbe l’insegnamento trasmessole dal Fradeletto, il quale le aveva fornito gli strumenti intellettuali e culturali atti a coniugare una formazione imbevuta di classicità con il romanticismo idealista di J. Ruskin e Th. Carlyle, e il simbolismo francese e tedesco.

La G., nelle sue memorie (ma sta a confermarlo il carteggio conservato nel Fondo Fogazzaro presso la Biblioteca Bertoliana di Vicenza) colloca fra i suoi primi, e importanti, mentori anche Antonio Fogazzaro, da cui fu introdotta alla conoscenza del dibattito culturale e religioso che animava in quegli anni il movimento modernista internazionale. Sempre tramite Fogazzaro la giovane G. conobbe colui che sarebbe stato, in certo modo, il suo padre spirituale e il tramite verso la conversione al cattolicesimo, don Brizio Casciola.

Trasferitasi a Milano nel 1902 con il marito, i due presero a frequentare il gruppo socialista milanese, in particolare la casa di Anna Kuliscioff; Sarfatti esercitava come avvocato, ma fu anche stretto collaboratore di Turati, almeno fino al 1913-14. Alla fortuna come avvocato non corrispose, però, una uguale fortuna politica: a lungo consigliere comunale socialista, Sarfatti non riuscì mai a entrare in Parlamento, obiettivo cui puntava fin dal trasferimento a Milano. Forse anche per avervi intravisto la possibilità di un rilancio della propria carriera politica, egli seguì la moglie nelle sue simpatie per B. Mussolini. A differenza della G., il cui rapporto con l’ebraismo restava conflittuale, Sarfatti era un convinto sionista e partecipò, in qualità di delegato per il gruppo sionista milanese, alla conferenza internazionale di Bruxelles del 1911.

La G. lo accompagnò, ritrovandovi l’amico Zangwill, fondatore della Jewish territorial organization, con il quale non avrebbe mai più interrotto i contatti: nel 1912, per La Voce di G. Prezzolini, ne tradusse il racconto Chad Gadya (in parte ispirato a vicende della famiglia della G.) e, nel 1914, il saggio Le suffragiste inglesi (Firenze).

Ancora una volta il rifiuto della pratica religiosa andava nella G. di pari passo con la volontà di non perdere l’elemento identitario di origine. Forse proprio partendo da queste radici, dove l’ebraismo si era mutato in una sorta di messianismo laico, è possibile comprendere il suo costante interesse per la politica sentita come possibilità di realizzazione di una "città futura" (titolo anche di una rubrica che la G. tenne sulle pagine de La Difesa delle lavoratrici), che ella avrebbe via via identificato prima nel socialismo, poi nella patria risorgimentale sorta a nuova vita dopo la Grande Guerra e, infine, nello Stato fascista.

Dal 1902 al 1915 la G. collaborò, in qualità di critico d’arte, all’Avanti! e a Il Tempo, quotidiano del gruppo socialista milanese; sul primo tenne anche, dal 1908 al 1910, una rubrica culturale, "Le ore della Quindicina", i cui contenuti, permeati di simpatia per l’irrazionalismo e attenti a tutti i movimenti culturali emergenti in area europea, mostrano con evidenza la sua progressiva presa di distanza dalle coordinate culturali del partito socialista.

Di fatto la permanenza a Milano l’aveva messa in contatto con ambienti che confermarono questa sua vocazione a spaziare in territori diversi: grazie alla mediazione di Fogazzaro e di Casciola fu vicina anche alla rivista Rinnovamento, che fu un ulteriore tramite verso lo spiritualismo e l’idealismo filosofico. A consolidare il nuovo indirizzo del suo pensiero valsero anche la conoscenza con Prezzolini e, dal 1908, la già ricordata sporadica collaborazione alla Voce, da cui venne lentamente assimilando una sorta di "nazionalismo modernista" (E. Gentile).

Queste simpatie culturali già dal 1906 avevano messo la G. in sintonia con i futuristi, in particolare U. Boccioni e F.T. Marinetti; frequentò, inoltre, l’ambiente emancipazionista e fu vicina al filantropismo politico dell’Unione femminile, diretta da Ersilia Majno, socialista ma come lei influenzata dallo spiritualismo. Tuttavia la G., benché membro della Pro suffragio dal 1905, non fu di fatto particolarmente sensibile al movimento femminile vero e proprio, anche se fu al fianco della Kuliscioff quando questa fondò, nel 1912, il settimanale La Difesa delle lavoratrici, di cui fu redattrice e corsivista fino al 1915.

Già alla fine del 1912 la G. si era avvicinata a Mussolini, da poco divenuto direttore dell’Avanti!: un primo segnale della loro stretta collaborazione fu la partecipazione della G. a Utopia (1913-14), rivista teorica del socialismo rivoluzionario, da Mussolini fondata e diretta.

Il rapporto con Mussolini con ogni probabilità nacque attraverso la comune amicizia per Prezzolini e venne consolidato dall’adesione di entrambi all’humus vociano in cui convivevano risorgimentismo, spirito pedagogico, individualismo, l’influenza dell’irrazionalismo europeo, nonché un certo pensiero cattolico orientato al misticismo, tutti elementi che già da tempo facevano parte dell’orizzonte culturale della G.; da questo eclettico coacervo ella e Mussolini maturarono alcune idee confluite nel loro interventismo e, infine, nel fascismo.

Intanto, grazie alla costante presenza della sua firma sulle pagine dell’Avanti!, la fama e l’influenza della G. nell’ambito della critica d’arte aumentavano, incrementate anche dal salotto culturale di cui fu animatrice a partire dal 1910, e che tenne aperto per almeno vent’anni: casa Sarfatti era oramai uno dei luoghi nevralgici della Milano culturale e politica. Non più semplicemente critico d’arte, la G. divenne talent scout del gruppo futurista di Nuove tendenze, da cui, nel dopoguerra sarebbe emerso Novecento italiano, il movimento artistico da lei promosso e con cui venne sempre identificata.

Già contraria alla guerra di Libia, nel 1915, la G., dopo alcuni tentennamenti, si schierò per l’intervento, scelta che sancì pubblicando un libretto di propaganda, La milizia femminile in Francia (Milano), in cui portava come esempio di amor patrio le donne francesi e il loro eroismo in guerra. Abbandonò infine il partito socialista schierandosi definitivamente con la corrente mussoliniana; lasciato l’Avanti!, per tutta la durata della guerra fu critico d’arte della rivista di U. Notari, Avvenimenti.

Nel 1918 perse in guerra il figlio diciottenne Roberto, partito volontario fra gli arditi.

Questo evento avrebbe segnato non solo la sua vita privata, ma anche la successiva adesione al fascismo, in cui trovò riscontro al suo culto della patria, fondato sul sacrificio bellico e sul mito del sangue versato, e a un aristocratico antidemocraticismo che vedeva nella Grande Guerra il momento fondante di una nuova compagine statale e di una nuova gerarchia politica. Il mito del capo, incarnato da Mussolini, completò, poi, l’evoluzione ideologica della Grassini.

Dal 1918 fino alla fine degli anni Venti fu collaboratrice fissa de Il Popolo d’Italia, dove, come sempre, si occupò di arte, riservandosi però anche una rubrica di recensioni letterarie, "Le cronache del venerdì". Dal 1922 al 1933 fu condirettrice e poi direttrice di Gerarchia, rivista teorica del fascismo mussoliniano.

La rivista, circoscritta ai mussoliniani di stretta osservanza, proprio in quanto tale rappresenta un utile osservatorio sul "mussolinismo" - in particolare per gli anni Venti, quando la costruzione dello Stato fascista costituiva l’interesse politico prioritario di Mussolini - e sul ruolo personale che la G. ebbe nella elaborazione di questa specifica "ideologia".

La G., comunque, non abbandonò la critica d’arte né l’attività promozionale nei confronti degli artisti emergenti, anche perché, nella sua personale Weltanschauung, agli artisti era destinato un ruolo centrale nell’edificazione dello Stato fascista; tenne così a battesimo, nel 1922, il movimento pittorico cui più è legato il suo nome, Novecento, al quale inizialmente aderirono sette pittori precedentemente legati a Nuove tendenze (A. Funi, P. Marussig, L. Dudreville, E. Malerba, M. Sironi, U. Oppi e A. Bucci).

Il fine di tale movimento, che nasceva dunque da una costola del futurismo più moderato, doveva essere la rifondazione della pittura sulla base di uno stile compatto, scarno, quasi monumentale, in certo senso classico, nei termini in cui tale era stata la pittura italiana del Quattrocento; proprio la classicità, ritrovata attraverso un processo di sottrazione (ragion per cui la G. riteneva che il futurismo avesse costituito una indispensabile pars destruens nella storia della pittura italiana), sarebbe stata un eccellente viatico all’arte della nuova stagione che il fascismo stava aprendo. Con questo richiamo, inoltre, il movimento anticipava l’uso strumentale della classicità e della romanità, cui poi si richiamò costantemente la propaganda fascista; il simbolo stesso del fascio littorio pare sia nato da un’idea della Grassini.

Naufragato rapidamente il gruppo originario per dissidi interni, poco dopo nacque Novecento italiano inaugurato nel 1926 con una mostra inaugurata da Mussolini alla Permanente di Milano. La nuova compagine, che comprendeva quasi tutti i maggiori pittori e scultori italiani del momento (con l’eccezione dei futuristi) non era più un movimento artistico stilisticamente connotato in modo chiaro, ma un polo orientativo che, nell’intenzione della G., avrebbe dovuto raggruppare i migliori talenti dell’arte italiana contemporanea.

I punti fondamentali delle teorie della G. al riguardo sono in Segni colori e luci (Bologna 1925) e in Storia della pittura moderna (Roma 1930): elemento basilare di questa seconda fase era, ancora una volta, la compresenza di modernità e classicità, caratteri stilistici che la G. vedeva ben rappresentati nel cosiddetto "ritorno all’ordine", una corrente di indirizzo restaurativo diffusa nel panorama artistico europeo contemporaneo e alternativa all’astrattismo. La compresenza di classicità e modernità era, del resto, secondo la G., anche caratteristica costitutiva del pensiero fascista.

Per tutti gli anni Venti, il ruolo centrale occupato nell’ambiente culturale più prossimo al regime le permise di organizzare e gestire le più importanti mostre in Italia e all’estero. Grazie a questa sua onnipresenza, ma soprattutto grazie all’enorme successo della biografia di Mussolini di cui fu autrice (Dux, tradotto in 18 lingue), ella finì per essere, all’estero, quasi un simbolo della nuova Italia moderna e fascista.

La biografia, dapprima apparsa in inglese per il mercato anglosassone (Londra 1925), fu poi riscritta appositamente per l’Italia ed edita a Milano nel 1926 da Mondadori. A quest’opera la G. era stata in parte sollecitata da Prezzolini, ma le fonti dimostrano che ella vi pensava già nel 1923 (se ne trova conferma nell’Archivio Mondadori), quando ancora non era in contatto con le edizioni Butterworth. Il libro pone in essere l’esplicita volontà della G. da un lato di cogliere alle origini e, in certo modo, di sistematizzare l’ideologia mussoliniana (di cui chiariva i legami con F. Nietzsche, V. Pareto, G. Le Bon, G. Sorel); dall’altro di costruire ex novo l’immagine pubblica di Mussolini. In quest’immagine forza, energia e vitalismo si sommavano a una sorta di appeal anche erotico, rappresentandolo autorevole ma anche moderno e spregiudicato, quasi un eroe da romanzo d’appendice; anche il termine "dux", fu un’invenzione della G.: "romano nell’anima e nel volto, Benito Mussolini è una resurrezione del puro stile italico, che torna ad affiorare oltre i secoli" (Dux, p. 10); il ricorso alla fisiognomica per sostanziare la dimensione del personaggio acquistava valore aggiunto grazie alla copertina della prima edizione italiana: il busto mussoliniano scolpito da A. Wildt che evidenziava proprio quelle medesime caratteristiche "romane" del volto.

La quantità delle ristampe, ma soprattutto delle traduzioni, sta a dimostrare che il progetto propagandistico-comunicativo ebbe un indubbio successo. Eppure il Mussolini di qualche anno dopo, oramai ingessato nel ruolo del duce infallibile, avrebbe trovato il libro troppo ingombrante. Ma, proprio nel momento del massimo successo della G., la trasformazione di Novecento italiano in un centro di potere dalla struttura rigidamente corporativa, in cui ormai venivano gestite le mostre e sovvenzionati i pittori, ne annullò l’originaria compattezza e provocò, negli anni dal 1926 al 1930, pesanti attacchi al movimento, e di conseguenza alla G., da parte di altre correnti della cultura fascista che intendevano colpire i "novecentisti" per subentrare loro (apparvero in particolare sulla rivista di R. Farinacci Il Regime fascista). In conseguenza di ciò alle biennali del 1928 e del 1930 la G. fu penalizzata ed estromessa dalla commissione selezionatrice.

Negli anni successivi il consolidamento del regime e l’organizzazione del consenso attraverso nuovi canali politici e di comunicazione la scavalcarono ulteriormente; ne risentì anche il suo salotto, nel frattempo trasferitosi da Milano a Roma, che progressivamente perse lustro e si spopolò.

Se Mussolini, a metà degli anni Trenta, si era ormai allontanato da lei, la G. stessa non ne condivideva più la politica: non aveva approvato la guerra d’Etiopia e temeva l’avvicinamento alla Germania nazista, di cui la preoccupava soprattutto la politica antisemita. Nel 1937 diede alle stampe un libretto, L’America, ricerca della felicità (Milano-Verona).

Sotto la veste di cronaca di un viaggio negli Stati Uniti, L’America cela un lucido giudizio sul fallimento politico del regime fascista e forse anche la speranza, da parte della G., di trovare proprio in America la nuova Roma, la "città futura", di cui fu costantemente alla ricerca.

L’anno dopo, in seguito alla emanazione delle leggi razziali, si rifugiò in Sudamerica.

Rientrata in patria nel 1947, morì a Cavallasca, presso Como, il 30 ott. 1961. [...]

* Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 58 (2002)

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