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> MARGHERITA SARFATTI --- Archivi Vaticani, Pio X e la mappa del “mondo modernista” (di Marco Roncalli).

giovedì 22 giugno 2017

Archivi Vaticani, Pio X e la mappa del “mondo modernista”

La ricezione e l’applicazione dell’enciclica “Pascendi Dominici Gregis” nella prima analisi comparata di tutte le relazioni pervenute a Roma dai vescovi e dai superiori degli ordini religiosi di ogni continente

di Marco Roncalli (La Stampa, 21/06/2017)

Città del Vaticano. Passato alla storia come la «sintesi di tutte le eresie», il modernismo conobbe all’alba del ‘900 un momento cruciale della sua storia per la condanna di Pio X. Obiettivo del Pontefice era la chiusura di ogni spazio al movimento che ripensava il messaggio cristiano nel confronto con la società del tempo, opponendo però -ai suoi occhi- fede e storia, Sacra Scrittura ed esegesi biblica, dottrina teologica e scienza. La risposta più forte di papa Sarto arrivò, come è noto, con l’ enciclica Pascendi Dominici Gregis ( 8 settembre 1907), decisa a sradicare con energiche misure antimoderniste quello che a giudizio del gesuita Enrico Rosa de “La Civiltà Cattolica” era «un cristianesimo nuovo che minacciava di sopprimere l’antico».

L’enciclica, nelle sue pagine conclusive, prescriveva che i vescovi inviassero ogni tre anni, a partire dal 1908, una relazione giurata sullo stato del modernismo nelle loro diocesi, confermando quanto richiesto: che fosse posta la filosofia tomista a fondamento degli studi; che i rettori e gli insegnanti dei seminari e delle università cattoliche non fossero infetti da modernismo; che venisse vietata la lettura di scritti modernisti; che venissero nominati i censori per le pubblicazioni; che fossero impediti i congressi di sacerdoti; che venisse stabilito un Consiglio di vigilanza.

Prescrizioni che avrebbero avuto una lunga eco. E non solo per il loro rilancio, tre anni dopo, attraverso un nuovo decreto antimodernista Sacrorum antistitum (1 settembre 1910), noto per la parte con la formula del giuramento imposto al clero e nuove accentuazioni nel testo della Pascendi. Anche dopo la morte di Pio X, infatti, richiami al modernismo avrebbero caratterizzato gli anni successivi nella storia della Chiesa, contribuendo (sempre meno dal pontificato di Giovanni XXIII in poi), alla diffusione di un modello monolitico di Chiesa e di disciplina, segnato dal ruolo centrale delle gerarchie ecclesiastiche.

Ma fermiamoci sulle reali conseguenze della Pascendi Dominici Gregis a partire dalla prima ricognizione che ne ha analizzato ogni direttiva e l’ impatto in ogni angolo del pianeta scandagliando una vasta mole di documenti, in larghissima parte inediti. Si tratta di carte custodite negli Archivi della Congregazione per la Dottrina della Fede, della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, della Congregazione per le Chiese Orientali, della Congregazione “Propaganda Fide” (oggi Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli), nell’ Archivio Segreto Vaticano. Carte valorizzate da una ricerca internazionale sostenuta dal German Research Council (Deutsche Forschungsgemeinschaft) durata diversi anni, con contributi di noti specialisti, ora pubblicata con il titolo “The Reception and Application of the Encyclical Pascendi, The Reports of the Diocesan Bishops and the Superiors of the Religious Orders until 1914”, dagli storici Claus Arnold (Università di Mainz) e Giovanni Vian (Università di Venezia) per le Edizioni Ca’ Foscari, in modalità open access (il volume può essere scaricato liberamente dal sito dell’editore).

Come spiega Alejandro M. Dieguez (Archivio Segreto Vaticano) aprendo il volume, alla pubblicazione dell’enciclica nessuno aveva previsto le conseguenze “operative” delle disposizioni: dall’istituzione «quanto prima» del Consiglio di vigilanza in diocesi all’ invio «alla Santa Sede» entro un anno e poi ogni triennio di una «diligente e giurata esposizione sull’attuazione delle prescrizioni dell’enciclica e sulle dottrine che corrono in mezzo al clero». Nemmeno l’organo deputato a ricevere queste relazioni era stato chiaro, motivo dunque di una dispersione dei primi invii approdati in diverse sedi: dalla Segreteria di Stato al Sant’Offizio, dalla Concistoriale a Propaganda.

E se è vero che le prime relazioni arrivate a quest’ultima sede passarono subito alla Concistoriale, il dicastero guidato dal cardinale De Lai, prelato che godeva la totale fiducia di Papa Sarto (non le successive), altre furono a lungo oggetto di contese tra la Concistoriale e il Sant’Offizio superate solo dall’1 maggio 1912. Da quel momento «fu chiaro che l’esame delle relazioni sul modernismo spettava alla Congregazione Concistoriale», osserva Dieguez, spiegando che «se l’analisi di quanto avvenuto al ‘centro della cristianità’ rivela una certa disorganizzazione curiale riguardo alla ricezione ed elaborazione delle notizie richieste dalla Pascendi» l’esposizione di vari casi “getta” luce sulle incertezze e, più in genere, sullo stato d’animo della “periferia”, ossia delle Chiese locali.

Così, al di là del tasso di assolvimento dell’obbligo, dove le cifre che interessano - spiega qui Vian - sono quelle per il 1908 e il gennaio 1912 (quando la presentazione dei rapporti era dovuta dapprima, fino all’agosto 1910, alla scelta dei vescovi di conformarsi alla norma della Pascendi e poi, dal settembre 1910 a tutto l’anno successivo, al suo rilancio con il Sacrorum antistitum), e pur non dimenticando che dal gennaio 1912 l’obbligo poté essere ottemperato anche rispondendo a due quesiti specifici nelle “relationes ad limina” (non considerate in questa monografia), sono dati più che significativi quelli qui raccolti e interpretati. A maggior ragione vista la piena “copertura” di questa prima analisi comparata degli atteggiamenti dei vescovi innanzi agli obblighi della “relazione Pascendi”. Un’analisi che nonostante l’ esiguità delle risposte solo rispetto alle attese, presenta campioni assai esaurienti al fine di trarre conclusioni. Un’enorme mole di documenti qui suddivisi innanzitutto per aree geografiche, con appositi “focus” dilatati nei capitoli dalle diocesi del Vecchio Continente a quelle del globo.

Un primo approfondimento riguarda la Francia dove la repressione antimodernista toccò di fatto solo un piccolo numero di seminaristi e la minaccia di misure più rigorose bastò a imporre il silenzio. «L’enciclica ha bloccato le ricerche più innovatrici e se sembra aver messo un termine alla crisi modernista, non è senza aver sterilizzato per lungo tempi i differenti tentativi di adattare il discorso ecclesiale alle realtà del momento», nota Louis-Pierre Sardella nel suo contributo, aggiungendo che i vescovi constatavano che «molti fedeli, senza aderire al corpus ideologico modernista» avevano «tuttavia preso l’abitudine -come deplorato dall’enciclica, “di pensare, parlare, scrivere con maggior libertà di quanto convenga a dei cattolici”...». Insomma siamo ad una data e in un luogo in cui la distanza tra l’espressione del Magistero (con le sue norme dottrinali e disciplinari) e la vita reale dei cristiani (con i suoi problemi) aumenta, ma parallelamente anche a una crescente indifferenza, mentre si profilano sfide davanti alle quali è difficile presentarsi con la sola armatura dogmatica difensiva di una istituzione gerarchizzata.

Un secondo meticoloso approfondimento affronta la situazione in Italia. Raffaella Perin, dato conto delle assenze anche di vescovi esemplari nel campione di relazioni ritrovate - forse perché i presuli che avevano già fama di antimodernisti le ritennero superflue - osserva che gli altri presuli meno in linea con Pio X «forse non risposero perché non potendo opporsi apertamente o sollevare perplessità, con il loro silenzio avrebbero almeno evitato di accondiscendere o, al contrario di alimentare ulteriori sospetti con risposte che potevano essere interpretate malevolmente». L’analisi delle relazioni pervenute consente sottolineature sull’accoglimento degli ordini papali quanto alla necessità di vigilare e all’impegno nel continuare a sorvegliare il proprio clero e l’ortodossia dei seminari, ma rileva pure la denuncia dell’ignoranza del clero, che limitava - agli occhi dell’episcopato - la possibilità che il modernismo potesse diffondersi nelle diocesi italiane.

Allo scandaglio della Spagna è dedicata invece l’analisi di Alfonso Botti. Lo storico conferma per l’area iberica la mancanza di un vero movimento modernista e, di contro, la presenza di un antimodernismo che rimarca la curvatura conservatrice e tradizionalista di questo episcopato che, nel disorientamento causato da istruzioni poco chiare, non percependo il problema con la stessa intensità della curia romana, o ritenendolo controproducente, rinunciò persino a segnalare le poche posizioni moderniste nelle varie diocesi.

Non c’è qui lo spazio per continuare a ripercorrere l’ampia ricerca con tratti simili o diversi, in altri Paesi europei: dal Belgio ai Paesi Bassi, dalla Svizzera alla Russia (Giovanni Vian); in Germania (e qui Claus Arnold porta il lettore sul terreno delle eccezioni concesse da Pio X per la situazione politica e religiosa che aveva spinto i vescovi a raccomandare alla Santa Sede di non pubblicizzare le misure previste dalla Pascendi, per evitare di suscitare l’irritazione pubblica verso la Chiesa cattolica e il papato); o in Austria (Michaela Sohn-Kronthaler), o in altre aree non germanofone dell’ex Impero austro-ungarico (Otto Weiß). Né c’è lo spazio per descrivere la situazione in Nord America e in America Latina (terreno d’indagine rispettivamente di Charles Talar e di Maurizio Russo che hanno rilevato come, nelle Americhe, il modernismo fosse una questione europea o legata alla presenza di ecclesiastici originari del Vecchio continente); e neppure nelle Indie Orientali, nei mondi lontani dell’ Indocina o dell’Oceania (laddove - rileva Vian - come in altre aree della cattolicità extraeuropea le sollecitazioni di Pio X furono neglette).

E nemmeno possiamo fermarci sulle interessanti “relazioni Pascendi” degli istituti religiosi (analizzate da Dieguez), i cui superiori - si è detto- erano pure stati invitati a inviare reports sul fenomeno a prefissate scadenze. In realtà è proprio l’intero atlante del modernismo che viene qui ricostruito. Piuttosto proviamo qui a condividere con i curatori le ipotesi che la sintesi di questa iniziativa mondiale suggerisce. «Che nell’ottica di Pio X e dei suoi collaboratori di Curia valesse la pena di operare a 360° contro il modernismo, attraverso strumenti come le relazioni, i consigli di vigilanza, i censori sulla stampa e altre misure disciplinari, e questo anche di fronte a limitate adesioni da parte degli ordinari diocesani, sembrano confermarlo le rare vicende, non scontate, di individuazione di nuovi ‘modernisti’, nelle località più disparate della cattolicità, di cui le ricerche confluite nel presente volume danno notizia», afferma Vian.

E se è vero che Arnold concorda sull’efficacia dell’operazione sul piano della mobilitazione antimodernista, sottolineandone l’impatto al di là di quanto risulti dalle relazioni giunte a Roma, lo stesso giunge a rilevare che Pio X aveva buone ragioni per non essere entusiasta dell’episcopato cattolico nel suo insieme. «L’elevato numero di assenze tra i rapporti attesi a norma della Pascendi - un dato ancora più significativo per gli ordinari di diocesi dell’Europa Occidentale, l’area complessivamente più coinvolta dalla crisi modernista - merita la formulazione di un’ipotesi: accanto a probabili negligenze, mi pare che in quel modo si manifestassero perplessità, che in alcuni casi erano anche più o meno velate riserve, di fronte al criterio ampio e quasi onnicomprensivo dell’antimodernismo proposto da Pio X e dagli ambienti curiali più intransigenti e integristi», afferma Vian.

Insomma diversi contributi del volume rilevano che per non pochi ordinari il modernismo visto in diocesi era assai diverso che visto da Roma. Di qui dubbi, incomprensioni, incertezze, ma anche - per alcuni - distinzioni e non condivisione di giudizi e di modalità di intervento: elementi che contribuirono ad alimentare un graduale distacco di una parte dell’episcopato nei confronti del pontificato di Pio X palesatosi con la scelta del conclave dell’estate 1914 , che -afferma sempre Vian- optò per un candidato portatore di una linea almeno in parte di discontinuità rispetto a quella del predecessore. Questo risultò particolarmente evidente- anche se non fu l’unico aspetto - per il disciplinamento del modernismo.

Non è tutto. Infatti, l’appurata convinzione - espressa da vescovi delle Americhe, dell’Asia e dell’Oceania - che il modernismo costituisse un problema europeo (o di importazione dall’Europa, attraverso riviste, libri e missionari), si manifestò pure come l’ indizio di un cattolicesimo che, mentre nei suoi vertici continuava a essere pensato come romano, tutt’al più, europeo, andava prendendo sempre più consapevolezza della necessità di più ampie prospettive. «La predominante dimensione eurocentrica del cristianesimo non era un fenomeno proprio della sola Chiesa cattolica. Anche le Chiese delle altre confessioni cristiane continuavano a ritenersi caratterizzate dal riferimento a culture e teologie profondamente radicate nel contesto europeo. E, come è noto, più in generale era la stessa percezione dell’opinione pubblica europea - che, attraverso i possedimenti coloniali, era trasmessa anche a gran parte della popolazione del pianeta - che continuava a guardare all’Europa, soprattutto a quella dei Paesi occidentali, come al centro e alla guida della civiltà umana», scrive Vian nelle ultime pagine di The Reception and Application of the Encyclical Pascendi. E conclude: «La Prima Guerra mondiale e il dopoguerra avrebbero reso più evidente come la transizione dall’eurocentrismo alla mondializzazione, sviluppatasi in seguito fino all’odierna globalizzazione, fosse una dinamica ormai in atto. Essa coinvolse anche il cristianesimo, il cui eurocentrismo si avviava gradualmente e in mezzo a non poche resistenze, a cedere il passo a una prospettiva di “World Christianity”».


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