Il bisogno della storia delle donne
di Maria G. Di Rienzo (comune-info, 07 Gennaio 2013).
La mancanza di una consapevolezza storica ottiene che le donne continuino a fare tutto, invece di cambiare tutto. L’equazione è semplice: se sei senza passato, sei pure senza futuro. Ci sono quattro modi principali in cui la nostra cultura si impegna contro la consapevolezza storica delle donne. Il primo è la ferma omissione delle donne dalla storia presente, ovvero dalle notizie. Circa il 15 per cento dell’informazione di cronaca riguarda le donne, usualmente come vittime di violenza o come autrici di crimini. Chiunque abbia mai organizzato qualcosa sulle donne e per le donne e delle donne lo sa: se non hai l’aggancio giusto o il seno scoperto sei invisibile. Il secondo modo, complementare, è l’omissione della storia dai giornali e dagli inserti cosiddetti «femminili» (quelle cose che si chiamano «Donna e Mamma», «Donna Moderna» e così via). Si ha, leggendoli, la curiosa sensazione che il tempo non esista. Un cronosisma, come avrebbe detto Kurt Vonnegut. Qui le notizie sono pettegolezzi, chi ha sposato chi, chi ha lasciato chi, eccetera. Il tuo destino come donna è sicuramente nelle tue mani: ci sono diete per te, e cosmetici per te, e test per insegnarti ad acchiappare il principe azzurro. Non hai passato, non hai futuro, è un eterno presente nella casetta di Barbie. Dal che emerge semplicemente il terzo tipo di pressione: ovvero il tema ideologico che se le donne si prendono sul serio perdono la loro femminilità. Questo è un tema ricorrente e sempreverde. Ho perso il conto degli studi psico-socio-tuttologi creati per spiegarci che abbiamo voluto tutto, e quindi abbiamo perso la nostra vera natura, siamo diventate uomini, abbiamo messo in crisi gli uomini e quindi gli uomini scappano da noi e il nostro orologio biologico ticchetta impazzito, solo e triste. «Ormai comandano le donne», di sicuro l’avete sentito o letto da qualche parte. Pensate che qualche tempo prima di Cristo lo diceva pure Catone il censore, e non avrete bisogno che sia io a dirvi che è propaganda. E per chi crede che il termine post-femminismo sia qualcosa di vent’anni fa rendo noto che esso fu coniato già nel 1919, per dare l’avvio a una campagna di denigrazione delle suffragiste. Il quarto modo in cui la nostra cultura si impegna contro la consapevolezza storica delle donne è l’erosione della memoria.
I libri di testo non riportano la storia delle donne, i media non la conoscono, l’arte la ignora. In grazia di ciò, molte giovani pensano che la discriminazione sessuale sia cosa che non le riguarda direttamente. O che il diritto di voto l’hanno sempre avuto. O che sia sempre stato legale interrompere una gravidanza e divorziare. Ignorano tutte quelle madri, reali e simboliche, che si sono incatenate davanti ai parlamenti, che hanno fatto scioperi della fame, che si sono autodenunciate per aver abortito (anche quando non era vero), che hanno scritto e parlato e proposto e perseverato. E così queste ragazze, quando si trovano di fronte alla lettera di dimissioni in bianco da firmare per essere assunte, o quando al colloquio di lavoro chiedono loro se sono fidanzate o se pensano di far figli sono seccate, ma sono soprattutto scioccate. E pure quelle che non si arrendono, non avendo passato sono costrette ogni volta a ripartire da zero, a reinventare modelli di attivismo e di resistenza, o a fare affidamento su modelli altrui.
Questo è il rischio nel rimanere indifferenti alla nostra propria storia: perdere quel che abbiamo ottenuto, e consegnare un futuro indecente alle bambine di oggi. Forse impareremo, prima o poi, a onorare le nostre eroine, magari mentre sono ancora vive, a pretendere le loro facce sui francobolli, e le loro vicende nella narrazione storica, di modo che le nostre figlie abbiamo qualcosa di meglio da sperare che diventare veline. Spero non vi urti se a questo punto vi recito parte di una poesia. Sono versi del primo poeta della storia umana, della cui esistenza storica siamo scientificamente certi; una persona che visse, scrisse e insegnò 2.000 anni prima di Aristotele. I 153 versi originari furono vergati in caratteri cuneiformi su tavolette di creta e potevano essere letti sia dall’alto in basso che trasversalmente.
Di sicuro a scuola vi hanno parlato dell’alfabeto cuneiforme sumero. Fu creato attorno al 3200 a.C., specificatamente per ragioni contabili (quante pecore, quanti vasi, e via così). Le prime tavolette che contengono liste di nomi datano a circa cento anni dopo. Quando Enheduanna compone le sue poesie (che venivano cantate) la scrittura nel suo paese, l’odierno sud dell’Iraq, ha circa 350 anni e gli ideogrammi sono una novantina. Le precedenti tavolette che abbiamo sono del tutto anonime: Enheduanna è la prima a identificare se stessa nello scritto, ed è la prima a scrivere poesia. Di sicuro a scuola non vi hanno parlato di lei. Il primo poeta della storia umana è una donna. Lo sappiamo dal 1927, ma non sono notizie da dare alla leggera, forse ci stanno ancora pensando su: a che età inserire l’informazione per non sconvolgere le giovani menti? Gli scolaretti potrebbero restare turbati? Le scolarette potrebbero diventare arroganti? Naturalmente nessuno si fa mai gli scrupoli al contrario, e cioè se a sentire ripetere a oltranza «le conquiste dell’uomo», «le scoperte dell’uomo», «le invenzioni dell’uomo», le scolarette pensino di non esistere, o che le donne non sono mai esistite, o che l’essere femmine dev’essere una disgrazia o cattivo karma per le dissolutezze della loro vita precedente.
Scherzi a parte, sono al termine del mio intervento e poiché la forma del cerchio è quella che mi piace di più, tanto che anche il mio corpo tende ad assomigliarle, vorrei chiudere come ho aperto, e cioè con Maria Gaetana Agnesi. Siamo nel 1700, ci sono sette sorelle e un padre che crede nell’istruzione femminile, tant’è che una sorella di Maria Gaetana, Maria Teresa, diventerà anch’ella famosa, come musicista. I maligni dicono che se il padre avesse avuto anche un solo figlio maschio non avrebbe riversato tanta ambizione sulle figlie: comunque, era deciso a «dimostrare» che le donne potevano fare matematica e scelse Maria Gaetana per la sua dimostrazione. Come sappiamo, la ragazza si rivelò più che eccellente in tal campo. Ma quando suo padre morì, Maria Gaetana abbandonò gli studi matematici per fare quello che le piaceva fare, e che sentiva giusto fare, e cioè aiutare gli altri, in particolare le altre donne, a stare meglio. Così si dedicò ad aprire ospedali e asili e in genere a prestare assistenza. Non sappiamo quante vite abbia salvato, e se non fosse per il «cappello da strega» non conosceremmo neppure il suo nome. È l’incursione in un campo considerato «maschile» a lasciare una tenue traccia di lei, nulla di quel che compì dopo.
Perché se la storia è solo storia di guerre, di conquiste economiche o territoriali, di imperi e contro-imperi, di grandi navigatori e nuove frontiere, di mirabolanti congegni sempre più perfetti nell’uccidere (dalla punta di selce all’uranio impoverito o al fosforo bianco), se la storia è storia di mortali e di una valle di lacrime, allora in questa storia non c’è posto per le viventi e i viventi, per chi la vita la dà, la nutre, la gode. Ecco perché abbiamo bisogno della storia delle donne. (fonte: Womenews.net)