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PIANETA TERRA. Tracce per una svolta antropologica...

MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA: "LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA" ("The Voice of the Shuttle is Ours"). Un testo di Patricia Klindienst (trad. di Maria G. Di Rienzo) - a c. di Federico La Sala

OVIDIO. La tela di Aracne apre il libro sesto delle "Metamorfosi", la storia di Filomela lo chiude (...) Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare (...)
sabato 13 aprile 2019
[...] In Una stanza tutta per sé, Virginia Woolf ci fornisce una comica metafora
della poetica femminista usando l’esempio del gatto di razza Manx, che vive
sull’isola di Man. Dalla finestra ella vede questo gatto attraversare il
prato: nota che apparentemente al gatto "manca" qualcosa, ma si chiede se la
sua condizione non sia primariamente solo una "differenza" dai gatti con la
coda. È il gatto senza coda un mostro della natura, una mutazione? O è un
prodotto della cultura, un (...)

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> MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA --- “Il poeta del mito. Ovidio e il suo tempo”. Intervista a Francesca Ghedini (di "Letture.org")

domenica 17 gennaio 2021

“Il poeta del mito. Ovidio e il suo tempo”

di Francesca Ghedini (Letture.org)

Prof.ssa Francesca Ghedini, Lei è autrice del libro Il poeta del mito. Ovidio e il suo tempo edito da Carocci: qual è stata l’influenza di Ovidio e della sua opera dal Medioevo ad oggi?

Il libro Il poeta del mito. Ovidio e il suo tempo, edito da Carocci, giunge alla fine di un lungo percorso di studio iniziato una quindicina di anni fa, quando, assieme al mio gruppo di lavoro, formato da studenti, giovani laureati, dottorandi e colleghi, abbiamo scelto di confrontarci con uno dei più prolifici e immaginifici poeti dell’antichità, Publio Ovidio Nasone, la cui opera ha ispirato artisti e letterati di ogni tempo. La nostra ricerca, nata all’interno dell’Università di Padova, era volta ad indagare non tanto, e non solo, le ragioni dello straordinario successo dei suoi poemi ma anche, e soprattutto, il rapporto fra le parole del poeta e quell’universo figurativo che tanto deve alla sua fantastica capacità di creare immagini grazie ad uno straordinario dominio sul lessico e sulla musicalità del verso.
-  Più di duecento saggi, convegni, monografie e una piccola mostra, tenutasi all’Orto Botanico dell’Università di Padova nel 2012, sono stati il prodotto delle nostre indagini e ci hanno portato alle soglie del bi millenario della morte del poeta nella lontana Tomi sul Mar Nero, con un bagaglio di spunti, stimoli, informazioni che abbiamo tradotto in un progetto espositivo che ha trovato la possibilità di una realizzazione nella prestigiosa sede delle Scuderie del Quirinale.

E, mentre ero impegnata con la selezione dei pezzi da esporre e la costruzione delle sale, mi sono resa conto che nella mostra potevo raccontare solo una parte del complesso mondo che emerge alla lettura dei carmi del poeta di Sulmona: solo quella parte cioè che poteva trovare riscontro nel repertorio figurativo antico e moderno. Ma l’uomo Ovidio, quell’uomo che nella giovinezza gioiosamente parla d’amore e riesce a entrare nelle pieghe più riposte dell’animo femminile, nella maturità si cimenta con la grande epica e la poesia civile, nella vecchiaia percorre i disperati sentieri della nostalgia della patria, sarebbe rimasto in ombra, perché gli aspetti più intimi della sua personalità non avrebbero potuto essere illustrati con opere d’arte figurativa.

Ho quindi deciso di mettermi a scrivere un libro per raccontare, nel modo il più semplice e accattivante possibile, un personaggio che merita tutta la nostra attenzione per la sua grandezza ed anche per le sue debolezze e contraddizioni, cercando di raggiungere una platea più ampia di quella fatta di specialisti della disciplina, colleghi, studenti a cui mi sono rivolta nei lunghi anni della mia carriere accademica.

Questa dunque la premessa; ma veniamo ora a tratteggiare le motivazione della fortuna di Ovidio e della sua opera dal Medioevo ad oggi: la parola di Ovidio è giunta a noi grazie ai pazienti amanuensi che nel chiuso dei loro cenobi hanno copiato anche i suoi versi più audaci (la mente corre ai segreti di quel monastero benedettino descritto con insuperabile forza evocativa dal grande Umberto Eco ne Il nome della rosa), illustrandoli con fantasiose immagini che hanno poi fornito ispirazione a tutti i grandi del Rinascimento. A partire dal XIV-XV secolo non c’era personaggio di spicco che non desiderasse possedere opere ispirate alla classicità, rivisitata attraverso lo specchio del mito: cicli di affreschi, sculture, arazzi, da esporre nelle sale da ricevimento, o deliziosi piccoli quadri per i boudoir o le camere da letto.

Ma l’influenza di Ovidio non si è fermata alla grande stagione della riscoperta dell’antico e del suo uso in chiave di auto rappresentazione sociale e culturale; le sue storie hanno continuato infatti a fornire ispirazione per secoli ad artisti di ogni genere, pittori, scultori, incisori, romanzieri e poeti, che spesso hanno messo in scena episodi e personaggi che in antico non avevano avuto fortuna iconografica. Ne sono esempi straordinari Filemone e Bauci, la coppia di dolcissimi coniugi che chiedono e ottengono di cessare la loro vita umana nello stesso momento, Deucalione e Pirra, a cui si deve il ripopolamento del mondo dopo il diluvio, e l’ovidianissimo Pigmalione, che si innamora della sua creazione, una scultura in avorio che egli vezzeggia come una vera fanciulla e che vera fanciulla diviene, per grazia di Venere.

Senza Ovidio non avremmo il Narciso “caravaggesco” che eternamente si specchia nella fonte; senza Ovidio non avremmo l’amore infelice di Giulietta e Romeo, né la diafana Dafne del Bernini che tende al cielo le mani già coperte di foglie o i dolcissimi Adone e Venere del Canova...

È Ovidio che ha dato forma definitiva a quella tradizione mitica che era il frutto di secoli di elaborazione, da Omero ai tragici greci, ai poeti ellenistici, ai letterati romani: e la mitologia che oggi conosciamo è a noi giunta tramite i suoi versi.

Ovidio è ancora fra noi anche nel linguaggio di ogni giorno: certe formule proverbiali attinenti al mondo dell’amore o della vita quotidiana sono suoi: non posso vivere né con te né senza di te, è un verso di Ovidio... ti odierò se potrò, altrimenti, pur controvoglia, ti amerò (odero, si potero, si non, invitus, amabo) oppure in amor vince chi fugge... La donna è un male così dolce...ma anche vedo il meglio e l’approvo ma seguo il peggio, sono tutte parole del poeta di Sulmona.... Anche il lessico gli è debitore: il narcisismo, male dell’anima che impedisce a chi ne è affetto di amare altri che se stesso, deriva dal suo Narciso; il termine ermafroditismo è coniato sulla storia di Ermafrodito e Salmacide, i cui corpi si sono fusi per sempre in uno; e G.B. Shaw avrebbe dovuto cercare un titolo diverso per la sua commedia, in cui racconta come l’austero professor Higgins trasformò la povera fioraia in una lady, se il Sulmonese non avesse narrato di come la raffinata statua d’avorio creata da Pigmalione, diventò poi una vera dolcissima fanciulla...

E la forza della sua parola è tale che continua a influenzare non solo artisti di avanguardia, come quel Joseph Kosuth la cui originalissima installazione è protagonista della prima sala della mostra, ma anche letterati contemporanei, com Vintila Horia, David Malouf, Christian Ransmayr, Antonio Tabucchi che in vario modo hanno reinterpretato il suo dolore dell’esilio.

Quali vicende hanno segnato la vita e l’opera di Ovidio?

Le vicende che hanno segnato la vita di Ovidio ci sono narrate da lui stesso, perché il poeta è, in un certo senso, l’iniziatore di quel genere autobiografico che di tanta fortuna continua a godere nella letteratura moderna. Ovidio si racconta come mai nessuno prima di lui e attraverso questi racconti fornisce preziose informazioni non solo su se stesso ma anche sulla società e cultura coeve.

Nato a Sulmona da una famiglia equestre di non recente creazione, come egli stesso ripete nei suoi carmi con una punta di orgoglio, passò la sua prima infanzia nel piccolo municipio ai piedi della Maiella, ricco d’acque e verde di tenera erba, dove amava ritornare per ritrovare i profumi e i colori della giovinezza. Ma presto abbandonò la terra natia per trasferirsi a Roma con il fratello a studiare retorica e diritto presso i più illustri maestri del tempo. Tale scelta indica chiaramente come il padre intendesse indirizzare i due figli verso l’avvocatura, primo passo di quella carriera politica a cui potevano aspirare i rampolli di una benestante famiglia equestre. Ma mentre il fratello maggiore fu incline all’eloquenza fin dalla giovane età (Tristia IV, 10, 17), il nostro poeta era affascinato dai misteri celesti, cioè da quella scienza delle stelle, che si era affermata a Roma grazie anche al diffondersi della filosofia stoica, e dalle Muse, che furtivamente lo attiravano, distraendolo da più gravosi impegni (Tristia IV, 10, 20); ed è a quelle Muse, che illuminarono tutta la sua vita e la sua carriera, che dall’esilio il poeta imputa la sua perdizione (Tristia III, 7, 27: i miei versi mi hanno fatto del male; Tristia V, 7, 31-36: ...i miei versi sono stati la mia rovina...).

A Roma frequentò i più illustri ingegni del tempo ed ebbe accesso ai “salotti” più esclusivi; si legò di amicizia con la figlia dell’imperatore, Giulia Maggiore e, dopo che questa fu allontanata da Roma con l’infamante accusa di adulterio, frequentò assiduamente la figlia di lei, Giulia Minore, che, seguendo le orme della madre, era divenuta animatrice della vita gaudente della capitale e sostenitrice di un modello di società ben diverso da quella propugnato dall’imperatore. Quando anche Giulia Minore incorse negli strali del nonno per colpe contro la morale (almeno questa è la versione che gli storici ci hanno tramandato), anche per Ovidio giunse la fine sotto forma di una durissima condanna che cambiò la sua vita per sempre.

Accanto a informazioni sulla sua vita pubblica e sulle sue frequentazioni, nei carmi del poeta troviamo spunti per ricostruire anche la sua vita privata: il suo nucleo familiare era composto da due genitori molto amati (sappiamo che pianse con profondo dolore la morte dell’amato padre -io lo piansi non diversamente da come egli avrebbe pianto la mia morte: Tristia IV, 10- e quella della madre, avvenuta poco dopo) e da un fratello, più anziano di lui di un anno esatto (Tristia IV, 10, 11), che ebbe in sorte una morte precoce e lasciò nel cuore del poeta una disperata desolazione.

Ebbe ben tre mogli, la cosa non desta meraviglia, se si tiene conto che tre mogli ebbero anche Antonio (l’indomabile Fulvia, la fedele Ottavia, l’ammaliatrice Cleopatra), Augusto (la nobile Clodia Pulcra, la discussa Scribonia, l’austera Livia), perfino Cicerone, l’ultima delle quali appena diciassettenne. Della sua prima consorte, sposata in giovane età con un matrimonio combinato (ero ancora quasi un fanciullo quando mi fu data in moglie... Tristia IV, 10, 69), il poeta ci fornisce un fulminante e non lusinghiero ritratto: né degna, né utile (nec digna nec utilis uxor); il disprezzo con cui la ricorda deriva forse dal fatto che la fanciulla, di origine falisca, come suggerisce in Amores III, 14, 1-2, doveva essere di famiglia modesta, non degna quindi di andare sposa all’ambizioso giovane poeta, a cui non diede nemmeno la consolazione di un figlio (nec utilis). L’immagine della seconda resta cristallizzata in un opaco cameo (71: sebbene senza colpa non rimase a lungo nel mio letto); ma è a lei che Ovidio deve l’unica sua discendente, quell’Ovidia, che egli ricorda anche nei Fasti (VI, 219), e che rimpiange di non aver potuto abbracciare al momento della partenza, perché lontana, sulle coste libiche, al seguito del marito, che ricopriva quell’anno la carica di proconsole. Per l’ultima compagna, appartenente all’illustre famiglia dei Fabii, il poeta ha parole di affetto e di gratitudine, per non averlo abbandonato nei momenti bui dell’esilio (Tristia IV, 10, 74); e l’amore che nutriva per lei, lo riverberò anche sulla figlia che ella aveva avuto da un precedente matrimonio, la giovane Perilla, a cui il poeta invia dall’esilio una lunga lettera piena di tenerezza, in cui la invita a non abbandonare gli studi e quella poesia, che pure a lui aveva recato tanto danno (Tristia III, 7).

Ma le informazioni più dettagliate che Ovidio consegna ai suoi lettori si riferiscono ai drammatici eventi che seguirono alla consegna dell’editto che gli ingiungeva di partire immediatamente per la lontana Tomi: era una luminosa notte d’ottobre e la Luna, alta nel cielo, guidava i cavalli della notte (Tristia I, 3), quando il poeta abbracciò per l’ultima volta la moglie in lacrime e i pochi amici rimastigli e abbandonò l’amata capitale per lidi ignoti, il cui solo pensiero incuteva terrore. Lungo e periglioso fu il viaggio, funestato da terribili tempeste, e solo dopo mesi di travaglio l’esule giunse ad una terra desolata dove i locali non parlavano né greco né latino: “qui il barbaro sono io”, dichiara dolorosamente.
-  Per dieci interminabili anni Ovidio visse ai confini del mondo e di quegli anni bui ci restano un centinaio di lettere scritte ad amici e parenti perché intercedessero presso l’imperatore per una diminuzione della pena. Lettere disperate, talvolta ripetitive, dove la rigogliosa vena poetica che aveva sorretto la sua produzione della giovinezza e della maturità appare meno vivace ma è ancora capace di regalare ai suoi lettori immagini indelebili quale quella dell’Aquilone infuriato, che abbatte al suolo le alte torri e porta via i tetti schiantati, o dell’unghia del cavallo che calpesta le onde consolidate dal freddo (Tristia III, 10), oppure del tempo che inesorabile passa, sintetizzato dalla icastica immagine della dannosa vecchiaia che sopraggiunge senza fare rumore (Tristia III, 7, 35).

Nelle lettere dall’esilio l’animo prostrato del poeta trova anche umilianti parole di cortigianeria, riscattate da lampi di un orgoglio smisurato, che gli fa trovare parole sempre nuove per affermare, con incrollabile certezza, che la sua Musa l’avrebbe reso immortale.

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