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STORIA E MITO.

DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica - di Federico La Sala

L’EUROPA IN CAMMINO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
sabato 20 aprile 2024
Foto: "La nave Argo con l’equipaggio" (Lorenzo Costa)
[...] Nel 1770 a Strasburgo, nei pressi del confine del Sacro Romano Impero con la Francia, Goethe “guarda un arazzo che narra le storie di Giasone, di Medea e di Creusa”, preparato “per le feste in onore dell’arrivo della sposa” di Luigi XVI di Borbone, Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena che si stava trasferendo a Versailles, e così commenta: «dunque un esempio del più infelice matrimonio»! [...]
FILOLOGIA E (...)

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> DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. --- Harukichi Shimoi: il samurai tra Dante, D’Annunzio e Mussolini (di Leonardo Palma)

giovedì 22 settembre 2022

Harukichi Shimoi: il samurai tra Dante, D’Annunzio e Mussolini

Un giapponese a Fiume tra ju-jitsu, imprese aeronautiche e studi danteschi.

di Leonardo Palma *

Tra il novembre 1951 e il marzo 1952, Indro Montanelli soggiornò in Giappone per raccontarne il dopoguerra. Durante il rigido inverno, incontrò un vecchio poeta giapponese che gli avrebbe fatto da guida, un uomo piccolo, tozzo e brutto, con un’unica linea di folte sopracciglia resa ancora più densa dagli spessi occhiali da ipermetrope. Non parlava italiano ma solo il dialetto napoletano e, trovatosi di fronte a un piatto di spaghetti e ad un fiasco di Chianti, «mentre la sua forchetta arrotolava con partenopea pazienza i fili di pasta», confessò a Montanelli che:

      • “Da quando non ho più il Chianti, mi sono fatto astemio per non contaminare i ricordi, la nozione stessa del vino”.

Harukichi Shimoi era nato nel 1883 nei pressi di Fukuoka, quarto figlio del samurai Kikuzo Inoue. Il cognome Shimoi viene dal suo padre adottivo, l’architetto, commerciante di legnami e futuro suocero, Kisuke Shimoi. Quest’ultimo adottò il ventiquattrenne Harukichi nel 1907 in seguito ad una grave crisi economica che aveva ridotto sul lastrico la sua famiglia, un evento piuttosto comune tra le famiglie samurai che non avevano accolto con entusiasmo le trasformazioni dell’epoca Meiji.

Harukichi studiò alla Scuola Magistrale di Tokyo, l’attuale Università di Tsukuba, e ottenne la laurea in anglistica. Iniziò ad insegnare in un liceo femminile ma poco tempo dopo fece uno di quegli incontri che ogni tanto danno una svolta inaspettata alla vita delle persone.
-  Conobbe il traduttore, critico letterario e anglista Bin Ueda, fondatore del movimento modernista nipponico Pan No Kai, e fu introdotto da quest’ultimo alla Divina Commedia.

      • [Foto] Harukichi Shimoi, un samurai innamorato dell’Italia

Shimoi cadde malato per l’amore di Dante, cominciò a raccogliere libri e studi danteschi, traduzioni in francese, tedesco, inglese e fondò la Dante Toshokan, la prima Società Dantesca Giapponese. Si iscrisse alla Gaikoku-go-Gakko, la Scuola Speciale di Lingue Straniere, ed iniziò a studiare l’italiano, più o meno negli stessi anni in cui l’italianista Yamakawa Heisaburo traduceva in giapponese l’Inferno.

Nel 1915, Shimoi decise di trasferirsi in Italia e grazie all’Ambasciatore Alessandro Guiccioli, un marchese ravennate, tipico rappresentante della carriera di età liberale, ottenne l’incarico di lettore di lingua giapponese al Reale Istituto Orientale di Napoli, la più antica scuola di sinologia europea. Tra i quartieri popolari e il notabilato cittadino, al mattino Shimoi leggeva nei caffè la rivista di Vincenzo Siniscalchi, L’Eco della Cultura, poi dopo aver pagato raggiungeva la bancarella di Via Toledo dove don Gaetano Pappacena, storico libraio analfabeta, lo intratteneva con i racconti della storia della città.

Grazie all’amicizia con l’ispanista Gherardo Marrone, Shimoi fu introdotto nei salotti bene di Napoli e prese a frequentare gli ambienti culturali dell’avanguardia che all’epoca subivano il fascino del futurismo, l’audacia delle sperimentazioni artistiche, la spinta utopistica di certe ideologie primo-novecentesche. Egli si legò in particolare allo scultore Raffaele Uccella ed a Elpidio Jenco, entrambi propugnatori di una visione artistica che aderiva ai principi futuristi dell’artecrazia teorizzata da Marinetti.

Fu in questo ambiente fecondo di arte e lettere e politica rasente l’utopia, quello raccontato così bene da Luciano Caruso in Futurismo a Napoli, che Shimoi maturò come intellettuale e poeta, ripetendo quel miracolo che la generazione dei suoi genitori, ad eccezione forse proprio del padre, avevano compiuto all’indomani dell’arrivo delle cannoniere di Perry. Accolse lo straniero, si immerse nelle acque di una cultura estranea, ne bevve dalla fonte e ne uscì come “scugnizzo giapponese”, italiano in tutto tranne che nel suo essere giapponese.

      • [Foto] Dante Alighieri, il Sommo Poeta

Forse, soltanto chi ha avuto la fortuna di conoscere quei giapponesi cresciuti in Occidente può capire questo miracolo di incontaminata contaminazione. Un giorno, di ritorno da Roma, Shimoi noleggiò una carrozzella, chiese al conducente di portarlo dal suo amico, il compositore Giovanni Ermete Gaeta, e il vetturino, vedendo solo uno straniero, commentò in dialetto gli abusi che avrebbe perpetrato sul suo ignaro cliente. Chiese una cifra spropositata per la corsa a cui Shimoi rispose domandando chiarimenti. «È pure surdo stu scemo!».

Al che il piccolo giapponese gli si fece accanto, lo prese per il bavero e con le pupille ridotte a due fessure minacciò in perfetto napoletano:

      • «Comm’hè ditto? Sò surdo, so scemo, so chesto, so chello... mo t’o faccio vedé io a te ‘o panorama”. Di fronte al pericolo, il vetturino cominciò a scusarsi prodigandosi in inchini. “All’anima d’o ciappunese! Chisto è cchiù napulitano ‘e me!».

Negli anni che precedettero il baratro della guerra verso cui la locomotiva europea stava ciecamente correndo, Shimoi continuò ad insegnare all’Orientale e grazie al suo amico Morone pubblicò le prime raccolte di poesie e scritti giapponesi sulla rivista La Diana, tipico zibaldone novecentesco con uno scritto a mo’ di prefazione di Benedetto Croce. Quest’ultimo rappresentava in quegli anni il principale teorico della poesia pura e diede a Morone il coraggio necessario per pubblicare giovani intellettuali, futuristi, neoliberisti, metafisici, dadaisti, oltre alle sperimentazioni di Saba, Ungaretti e Onofri.

La rivista rappresentava cioè una avanguardia nella trasformazione della poesia italiana che, lentamente, stava cercando di perseguire l’ideale della purezza, del frammentarismo, di quel simbolismo di marca francese che sarebbe poi sfociato nell’ermetismo di cui Ungaretti e Montale furono padri putativi. In quel primo numero Shimoi pubblicò alcune traduzioni in prosa di componimenti giapponesi che, tradizionalmente, sono caratterizzati da immediatezza ed essenzialità. Ciò che Mallarmé definiva “il senso misterioso degli aspetti dell’esistenza”, la poesia che “dona autenticità al nostro soggiorno, e costituisce il suo compito spirituale”.

      • [Foto] Veduta del golfo di Napoli con Vesuvio sullo sfondo e lanterna del porto in primo piano. Il dipinto reca un’attribuzione ad Antonio Joli (Modena 1700-Napoli 1790).

Proprio gli haiku giapponesi, componimenti nati nel periodo Edō, esprimevano questo mistero in appena tre versi di 17 more. Musica della matematica, numeri che cantano. La raccolta ebbe un immediato successo e divenne l’oggetto di un libro pubblicato nel 1917, curato da Shimoi e Marone, intitolato Poesie giapponesi. Nell’introduzione, Shimoi ricordò che il Giappone era il paese meraviglioso della poesia, dove

      • «il popolo giapponese s’abbandona alla gioia del canto».

Giovanni Papini ne lodò i contenuti sul Mercure de France e anni dopo denunciò l’influsso della “moda giapponese” lanciata da Shimoi e Marone sugli sperimentatori italiani di quegli anni, soprattutto Ungaretti. Quest’ultimo, almeno fino al 1959, rifiutò sdegnosamente ogni parentela con la poesia nipponica ma la ricerca incentrata sulla parola come valore idealtipico, assoluto, non poteva non ricordare la sintesi dell’estremo oriente. Così Saffi e Jenco accostarono Porto Sepolto a Nobutsume Sasaki e Suikei Maeta.

Al contrario, Saba rivendicò i suoi esperimenti nel segno della poesia giapponese, sperimentazioni che chiamò “piccoli giocattoli” e che rientrarono in un libercolo quasi in miniatura di 40 composizioni di tre versi, intitolato Intermezzi giapponesi. Come spesso accade, una fatica generata dalla passione ebbe un influsso determinante sulla nascita di quella sensibilità letteraria da cui sarebbe sbocciato il fiore dell’ermetismo.

Poi venne la guerra. Harukichi Shimoi, professore uso a tradurre poesie, chiuse il suo ufficio e volle conoscere il fronte come inviato de il Mattino e il Mezzogiorno. Nel 1914 il Giappone si schierò al fianco dell’Intesa, vinse la Kaiserliche Marine tedesca a Tsingtau e, tre anni dopo, inviò l’incrociatore Akashi e alcuni cacciatorpediniere nel Mediterraneo per operazioni antisommergibile. Shimoi si sentì fin da subito partecipe di quella tragedia e grazie alle sue conoscenze riuscì ad eludere l’obbligo per la stampa straniera di restare nelle retrovie e raggiunse la prima linea.

      • [Foto] Italiani al fronte. Prima Guerra Mondiale.

Grazie all’intervento dell’ambasciata nipponica, egli fu raccomandato dal generale Caviglia, ex addetto militare a Tokyo e in quel momento comandante in capo delle truppe italiane, dal senatore regio Giuseppe De Lorenzo, geografo e orientalista, e dal Ministro Francesco Saverio Nitti. La guerra italiana vista da un giapponese raccoglie l’epistolario di Shimoi e le sue corrispondenze con De Lorenzo e Nitti. Quest’opera, da un punto di vista letterario scarna, disadorna, discontinua, incerta sintatticamente ma forzatamente schietta e sincera, si inserisce perfettamente nel solco delle opere di altri come Il Giappone in armi di Barzini, Kobilek di Soffici, Trevelyan e il suo Scenes from Italy’s war, Poore, Fairbanks, Page, e su tutti Hemingway.

Ciò nondimeno, in Shimoi quel fascino tipicamente marinettiano per la guerra bella - “più bella della Vittoria di Samotracia” - urtava l’evidente senso di smarrimento di fronte al dramma della morte e della sofferenza. Shimoi cercava nella carne ferita e nello spirito orgoglioso degli italiani quel senso di pietà e dignità che aveva scoperto in Dante. Se doveva scendere agli inferi, Shimoi voleva credere che fossero popolati da anime dannate ma comunque umane, anche di fronte al peccato e al dolore della pena.

Le trincee dovevano essere la guerra / sì del cammino e sì de la pietate. In una lettera a Corrado Pavolini del 1929, Ungaretti ricordava che durante la guerra, tra lo sporco delle trincee e i rumori delle artiglierie:

      • «Io scrivevo un diario poetico: note poetiche, impressioni metafisiche, gridi d’anima, rapidi e brevi, poiché in quei tempi, per chi combatteva, l’eternità era in un attimo».

Shimoi disse di non aver interesse per la gloria spinta dalla vanità, bensì per l’eroismo puro, “perciò divino”, di giovani e vecchi che compiono ogni giorno atti straordinari senza essere ricordati da nessuno. Per lui Enrico Toti, umile operaio mutilato della gamba destra che si arruolò volontario e morì in trincea, era degno della più altra tradizione dell’aristocrazia guerriera giapponese.

      • [Foto] Enrico Toti fu un eroe puro

Sotto la medesima coltre di umiltà, Shimoi descrisse il salvataggio di un soldato italiano ferito dalla mitraglia austriaca: gli fasciò la gamba martoriata, se lo caricò a spalla e lo portò al posto di medicamento. Quando il giovane italiano gli chiese chi fosse, egli rispose soltanto di essere un giapponese amante dell’Italia:

      • «Che c’importa del nome Scimoi [sic], io sarei più contento di fargli sapere che le spalle d’un giapponese gli hanno dato un appoggio!».

Tra le cime dell’Adamello, le mulattiere del Pasubio o le acque del Tagliamento e del Piave, nulla seppe però attrarre quel piccolo giapponese come le truppe degli Arditi. L’Ardito, la “più potente scultura del genio latino” secondo D’Annunzio, il “guerriero più simile a quello di Maratona” che diede un nome e una divisa al coraggio e che meglio di qualunque altro corpo personificò quel misto di anarchismo, genio e amor di patria che da sempre caratterizza il popolo italiano.

Un decennio più tardi, Mario Carli ricordava come, all’inizio, gli Arditi fossero poco più che “una leggenda bella e misteriosa” tra i fanti del suo battaglione, fino a quando una fredda notte del 1917 alla Sella di Dol, sul San Gabriele, li videro andare alla carica. E tutti capirono che chiunque, anche i vecchi, potevano essere uguali a loro.

      • «Toglimi lo zaino, un briciolo di disciplina formale [...] nutrimi meglio, dammi qualche soldo in più [...] attribuiscimi della responsabilità e un po’ di orgoglio: e vedrai che nessun austriaco mi farà paura, vedrai che non rifiuterò nessuna pattuglia, nessuna incursione, nessuna avanzata. Fammi essere italiano, e io sarò Ardito».

      • [Foto] “Un italiano di Mussolini”, ritratto aereo di Mario Carli ad opera di Gerardo Dottori

Per Carli, all’Italia liberale ormai in età da pensione era mancata fino ad allora una formula che desse sostanza alla bellezza e alla temerarietà dell’eroica giovinezza, almeno fino alla nascita del futurista della guerra: l’Ardito. Scapigliato, libero, guascone, agile, sfrenato, “la forza gaia dei vent’anni che scaglia le bombe fischiettando i ricordi del Varietà”, mutata nell’avanguardia della Nazione in guerra.

      • Futurismo che si fece Arditismo, Arditismo che si fece Fiumanesimo, Fiumanesimo che sfociò nei Fasci di Combattimento.

Shimoi guardò a questi avvenimenti come ad una possente trama tessuta da divinità latine, uno sbocco rivoluzionario inevitabile che riuniva in sé lo spirito dei suoi antenati Samurai e il genio dei popoli mediterranei. Si dice che egli si fosse arruolato volontario tra gli Arditi e che avesse insegnato loro il karate tra le trincee del Carso ma si tratta di un romantico falso storico. Shimoi seguì le truppe scelte in combattimento come corrispondente di guerra, non come volontario, e la divisa e la qualifica di Ardito onorario furono un regalo da parte del generale Caviglia o, su raccomandazione di D’Annunzio, del capitano Carli. Nondimeno all’epoca il karate non era ancora conosciuto neanche in Giappone, veniva praticato esclusivamente ad Okinawa ed era chiamato toudi o tote-jutsu.

Funakoshi Gichin, considerato il padre del karate moderno, fu invitato soltanto nel 1922 a dimostrare la sua arte al Congresso di Educazione Fisica di Tokyo. Non è possibile neanche che Shimoi avesse insegnato agli Arditi il judo, non soltanto perché in quegli anni veniva ancora chiamato Kano-Jujitsu, ma perché non abbiamo prove che quest’ultimo avesse mai incontrato il prof. Kano o studenti del Kodokan prima del 1928. Tuttavia, le fonti sono concorde nell’affermare che Shimoi abbia insegnato qualcosa agli Arditi italiani ed è dunque possibile ipotizzare che si sia trattato di tecniche di ju-jitsu di una vecchia scuola (koryu) di famiglia.

      • [Foto] Shimoi sposò la causa fiumana

Il padre biologico di Harukichi, del resto, era un vecchio samurai. Quel tipo di ju-jitsu era quanto rimasto dello yoroi kumi-uchi, la lotta in armatura, che prevedeva tecniche di leva, prese, spazzate, blocchi, per portare l’avversario a terra in mischia, sottometterlo e infliggere il colpo di grazia con l’arma corta (kodachi) solitamente alla gola, alla cervice o sotto le ascelle per arrivare al cuore.

Una tecnica adattabile alla scuola di coltello degli Arditi. Quest’ultimi venivano addestrati a Sdricca di Manzano, effettuando esercitazioni di assalto a fuoco su “colline tipo”, con il lancio corto di bombe a mano, le famigerate Thévenot, l’uso di mitragliatrici, fucili, lanciafiamme e la lotta con il coltello. A Shimoi, gli Arditi italiani ricordavano gli Sciro-Dasuhi di Port Arthur durante la guerra russo-giapponese, soldati armati unicamente di katana che indossavano una camicia bianca con le maniche strette da un nastrino bianco (sciro-dasuki) e un asciugamano intorno al capo.

      • Questo culto della giovinezza stava all’epoca prevalendo su quello che Stephan Zweig, prima di suicidarsi nel 1942, aveva definito “il mondo di ieri”.

L’Ottocento, quell’epoca che traeva gioia dal durevole, dall’incedere della tradizione e delle abitudini, si spegneva nell’effervescenza della gioventù; non risvolto demografico, bensì promessa di futuro, mito dell’uomo nuovo, di un ordine nuovo. E niente rese maggiormente palpabile questo anelito ad una palingenesi del mondo quanto le avanguardie culturali ed ideologiche del primo Novecento, tutte accomunate dalle suggestioni dell’infiammarsi, dell’accendersi, dell’ardere, del bruciare.

La fiamma di Marinetti, il fuoco di D’Annunzio, l’Incendiario di Palazzeschi, il “pensiero che si fa fiamma” di Carlo Michele Stetter, la Scintilla di Lenin, ognuna di queste esperienze segnalava il disperato desiderio della combustione del mondo. La generazione dei padri aveva costruito un mondo di “calma e voluttà”, quella dei figli aspirava con il loro ardimento a renderlo un fuoco perenne e in questo attrito di forze il Novecento divenne il secolo più breve di tutti, mentre qualcuno, come Proust, si rendeva conto che la nostalgia spaziale dei soldati svizzeri sradicati dalle loro valli nel ‘600 sarebbe presto divenuta dolore per una lontananza di tempo.

      • [ Foto] Giovani legionari a Fiume

Tra questi due estremi, Shimoi apparteneva sinceramente al primo: la resistenza sul Piave, l’attraversamento del Tagliamento, la liberazione di Trento e Trieste, la mitraglia, l’assalto all’arma bianca, quel fiotto di adrenalina ed energia pura, come la poesia che egli ricercava a Napoli, dovevano essere quanto di più vicino ci fosse all’appagamento di un desiderio sessuale, intellettuale, spirituale.

Nella guerra e nei suoi drammi vide il compimento assoluto di quell’Italia ideale che aveva intravisto in Dante, in Cavalcanti, in Petrarca, in Leopardi. Essa c’era perché era, e poteva essere solo grazie al sacrificio di una gioventù che, ribaltando il pensiero di Cattaneo, ″infiammava l’Italia a surgere in armi″. Shimoi volle essere partecipe della felicità della sua patria adottiva e il 3 novembre 1918, alla liberazione di Trento, fu il primo ad entrare in piazza e, con la coccarda tricolore al petto, si diresse al monumento dedicato a Dante Alighieri e qui:

      • “Sul marmo lucido del suo piedistallo, s’inginocchiò e s’inclinò reverente sotto la dolce pioggerella un piccolo giovane che è venuto dall’Estremo Oriente”.

L’incontro con Gabriele D’Annunzio avvenne sul finire della guerra. I due poeti si videro a San Nicolò in Veneto, il Vate indossava su quel corpo secco ed emaciato un carico di medaglie che sembravano farlo vacillare ad ogni passo incerto e per salutare Shimoi, lui che era già piccolo, dovette inchinarsi.

      • “Fratello! Fratello mio! Sebbene non di sangue!”.
      • [Foto] Gabriele D’Annunzio, il Vate d’Italia

Gabriele D’Annunzio e Shimoi ebbero un rapporto privilegiato. I due, giunti per strade sì diverse da così lontano, trovarono qualcosa l’uno nell’altro, un sentire comune che D’Annunzio definì un ricordo d’acqua e d’anima.

      • “Vidi a un tratto due lacrime vive sgorgate dai tuoi sconosciuti occhi di straniero. E subitamente ti riconobbi fratello; e il cuore mi si aperse. Ora ti dico - in questo giorno di primavera ansiosa - ti dico che nessun poeta della tua stirpe compose mai strofa su rugiada più celeste di quel tuo pianto”.

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