Perché Palmiro Togliatti fu traduttore di Voltaire
risponde Sergio Romano (Corriere della Sera, 15.11.2010)
Il primo volume della serie «I classici del pensiero libero» - il Trattato sulla tolleranza di Voltaire - è apparso con una sua prefazione. Posseggo una precedente edizione dell’opera, pubblicata da Editori Riuniti nel 1949 con la prefazione, nientemeno, di Palmiro Togliatti. Conosciamo l’abilità del «Migliore» nel vendere al suo ipnotizzato pubblico le verità apodittiche della «Via al socialismo». Credo tuttavia che meriti un commento la sua tesi secondo cui «tra il razionalismo illuministico e il marxismo la differenza è senza dubbio grande», essendo «la nostra dottrina del tutto nuova».
Gianni Celletti, Ravenna
Caro Celletti,
Togliatti non si limitò a scrivere una prefazione al Trattato. Ne fu anche il traduttore. Eravamo, come lei ricorda, nel 1949, vale a dire in una fase in cui gli scontri della guerra fredda erano particolarmente aspri. Il Pci era stato estromesso dal governo De Gasperi nel 1947. Un anno dopo, nel 1948, i comunisti si erano impadroniti del potere a Praga con un colpo di Stato. E nei mesi in cui Togliatti traduceva Voltaire, l’Italia firmava a Washington il Patto Atlantico. Ma non erano quelle le ragioni per cui il segretario del Pci decise di dedicarsi alla traduzione del più famoso libello politico di Voltaire.
Nella sua prefazione spiegò ai lettori che il Trattato sulla tolleranza era un lucido atto d’accusa contro il fanatismo religioso, l’arroganza della Chiesa, lo strapotere del clero. Può sembrare, continuava Togliatti, una battaglia del passato, ormai vinta. Ma è resa nuovamente attuale da «recenti episodi» e dal «risorgere di una baldanza clericale al servizio di una estrema resistenza e reazione capitalista».
Devo aggiungere che Togliatti aveva una parte di ragione. La Chiesa non era al servizio del capitalismo, ma sembrava decisa a governare i costumi italiani con un pugno di ferro e a servirsi della Democrazia cristiana perché l’Italia assomigliasse alla Spagna di Franco e al Portogallo di Salazar più che ai Paesi del continente con cui avrebbe tentato di lì a poco la strada dell’integrazione europea.
Dopo avere difeso Voltaire e l’utilità del trattato nella situazione italiana di allora, Togliatti dovette tuttavia sfumare il suo pensiero. I philosophes francesi erano gli eredi del razionalismo europeo e avevano il grande merito di avere spinto più in là le frontiere della ragione. Erano quindi dei precursori a cui era giusto rendere omaggio. Ma «la nostra dottrina è del tutto nuova, perché trova nella realtà stessa e nel suo sviluppo la ragione e la molla del rinnovamento del mondo». Tra l’Illuminismo e il materialismo dialettico vi era quindi un salto di qualità, un cambiamento di passo.
La «nuova storia», salutata da Goethe sul campo di battaglia di Valmy, non cominciava dalla presa della Bastiglia, ma dal grande manifesto che Marx e Engels avevano scritto nel 1848. L’esperienza razionalista restava tuttavia fondamentale. Chi la ignora, concludeva Togliatti, finisce «per mettere capo ancora una volta al passato o aprire la strada alla sua resurrezione».
Scrivendo queste parole Togliatti non si rese conto che potevano essere utilizzate per l’Unione Sovietica. Nella sua prefazione vi è a questo proposito un passaggio in cui descrive il processo intentato contro Jean Calas (il protestante di Tolosa falsamente accusato di avere ucciso un figlio), «uno di quei processi che disonorano i giudici e la giustizia, e ancora oggi e troppo di frequente offendono gli animi onesti». Capì che queste parole si adattavano perfettamente ai grandi processi staliniani degli anni Trenta?