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Poesia della settimana

Lentamente muore - di "Pablo Neruda"

Trattasi di una poesia di Martha Medeiros, brasiliana di Porto Alegre, pubblicitaria e cronista per Zero Hora (fls).
lunedì 16 febbraio 2015 di Vincenzo Tiano
"Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marca o colore dei vestiti,
chi non rischia,
chi non parla a chi non conosce.
Lentamente muore chi evita una passione,
chi vuole solo nero su bianco e i puntini sulle i
piuttosto che un insieme di emozioni;
emozioni che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbaglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti agli errori ed ai sentimenti! (...)

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> Lentamente muore ---- Da mille segni, appare evidente che l’Italia è un Paese ferito, risentito, deluso, ma non vinto. È pronto a rialzarsi in piedi

venerdì 25 aprile 2014

Un nuovo «vincolo» per unire la Nazione

di Michele Ciliberto (l’Unità, 25.04.2014)

«LA NAZIONE È UN PLEBISCITO DI TUTTI I GIORNI», DICEVA ERNEST RENAN, VOLENDO AFFERMARE CHE LA NAZIONALITÀ È UN PROBLEMA CHE ATTIENE ALLA COSCIENZA, NON ALLA NATURA. Si è italiani oppure francesi o tedeschi perché ci si riconosce in una comune identità etico-politica e anche religiosa; non perché si nasce in un territorio o in una regione geografica piuttosto che in un’altra.

La nazione è un fatto culturale, che si costituisce nel tempo attraverso lo sforzo secolare delle generazioni. Ed essendo un fatto culturale, come nasce può morire, oppure attraversare momenti di crisi, di declino, di decadenza.

Come disse Benedetto Croce, in un momento tragico della nostra storia, la civiltà, la cultura è infatti come un fiore che nasce sulla dura roccia e che un colpo di vento può stroncare e portare via. Scrisse queste parole dopo la tragica esperienza della guerra che l’aveva indotto a esprimere parole di profonda sofferenza ma non di ripulsa nei confronti degli aerei statunitensi che attraversavano il cielo per bombardare «Napoli nobilissima», la sua città. Croce però sapeva anche, e meglio di tutti, che la Nazione italiana è una realtà spirituale e che come era caduta così essa poteva rinascere, se fosse stata capace di riafferrare le sorgenti originarie della propria storia cioè della propria identità.

È quello che avviene in Italia con la lotta antifascista e la Resistenza, di cui oggi conosciamo anche il doloroso travaglio, i lato oscuri, i prezzi pagati come avviene con le guerre civili che non si fanno con i «paternostri» e che lasciano sul terreno vittime e carnefici. Fu però allora, in quella lotta crudele e anche spietata che la Nazione italiana tornò a nuova vita, e riuscì ad alzarsi in piedi dopo lo sfarinamento dello Stato, dell’esercito, di tutte le strutture istituzionali e amministrative.

Un paesaggio desolato: contemplandolo alcuni storici hanno parlato della morte della patria, sbagliando. L’hanno fatto perché non hanno inteso la profondità e la lunga durata della nazione italiana confondendo confuso nazione e Stato, due realtà che, per quanto storicamente contigue e a volte strettamente intrecciate, vanno distinte con precisione, se si vuole comprendere la storia italiana e anche la rinascita della Nazione italiana dopo la fine del fascismo e la guerra civile.

Per riprendere la battuta di Renan, la nascita della repubblica è stata il «plebiscito» con cui gli italiani sono tornati a essere cittadini di una patria comune, di uno stesso Stato. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile se non fossero stati capaci, insieme alle loro classi dirigenti, di mettere a base del loro vivere un nuovo patto: quello che li ha lungamente uniti, almeno fino alla fine del secolo scorso.

È il «vincolo» rappresentato dalla Costituzione repubblicana, nella quale sono confluite le correnti popolari e democratiche italiane dai cattolici ai socialisti dagli azionisti ai comunisti -, ma riuscendo a dar vita a un testo che, per la sua lungimiranza, è anche un programma politico imperniato sul concetto di eguaglianza, come appare da tutta la prima parte della Costituzione e, primo luogo, dall’articolo 3.

Negli anni scorsi, un leader che ha avuto un peso rilevante nella storia della Repubblica, e che ora è affidato ai servizi sociali, ha detto varie volte, pensando si stupire, che la Costituzione italiana è di tipo sovietico, un frutto del bolscevismo.

È invece il «punto dell’unione» della esperienza culturale, spirituale e politica di uomini come La Pira, Moro, Basso, Nenni, Togliatti, Laconi... I rappresentanti migliori dell’antifascismo nelle sue varie componenti, quelli che, dopo il fascismo, ridanno vita alla nazione italiana, dischiudendole un nuovo, e fecondo, ciclo della sua lunga storia.

È proprio questa cultura che entra progressivamente in crisi fin dagli ultimi decenni del secolo scorso e che oggi appare a molti solo una sorta di residuo del passato. Ma è un errore, anche questo. La Costituzione italiana non è consegnata ai libri di storia, sa parlare al nostro tempo, è vitalissima specie nella parte dei «principi generali», nei quali sono delineati obiettivi di eguaglianza e libertà che aspettano ancora di essere realizzati.

Ma per realizzarli, e mantenere viva la nostra Costituzione, è necessario capire che alla base della nostra Repubblica oggi va messo un nuovo patto, un nuovo «vincolo» civile che faccia i conti con tutte le trasformazioni della nostra società, a cominciare da quelle demografiche.

La Nazione italiana non è più quella che avevano di fronte i Costituenti: è cambiata, in profondità, sia sul piano strutturale che sul piano degli orientamenti ideali, culturali e anche religiosi. E con queste trasformazioni occorre oggi confrontarsi. Certo è difficile, tanto più dopo un ventennio in cui le diseguaglianze si sono inasprite, le contrapposizioni fra nativi e immigrati sono state acuite fino al razzismo.

La cultura della solidarietà è stata frantumata, fino all’imbarbarimento, alzando la bandiera della cultura «liberale». È questa la responsabilità più grave del berlusconismo nella storia della Repubblica, e qui stanno anche le responsabilità delle forze della vecchia sinistra che non hanno saputo contrastare questa deriva, in cui affonda le radici quello che, con termine sommario, si chiama populismo. Né è facile liberarsi di questo duro fardello: oggi noi continuiamo a essere nel pieno di una crisi organica, bisogna saperlo. Eppure sarebbe sbagliato esprimere un giudizio pessimista sulla Nazione italiana settanta anni dopo la Liberazione e la rinascita della Nazione.

Da mille segni, appare evidente che l’Italia è un Paese ferito, risentito, deluso, ma non vinto. È pronto a rialzarsi in piedi, a rimettersi in cammino, a far sentire la sua voce. Ma perché questi segni possano svolgersi, e consolidarsi, c’è bisogno di un nuovo «vincolo», che consenta a tutti nativi e immigrati di sentirsi parte di una comunità di un comune vivere civile, cittadini dello stesso Stato capace di contribuire a distruggere le forme più intollerabili di diseguaglianze.

E, come avviene nei momenti più gravi, per questo è indispensabile una sinergia feconda tra forze della cultura, della politica, della religione, come fu negli anni della rinascita della Nazione dopo il fascismo. È venuto il momento che ciascuno si assuma le proprie responsabilità, uscendo dalla tenda in cui per troppo tempo si è rifugiato. Come avvenne settanta anni.


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