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Politica

Berlusconi mette ancora in discussione il risultato delle elezioni e spera nel riconteggio dei voti

mercoledì 17 maggio 2006 di Emiliano Morrone
L’UNITA’ D’ITALIA E IL PARLAMENTO "CON LA COPPOLA", QUELLA DI "FORZA ITALIA" E DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’".
TRE PRESIDENTI: OSCAR LUIGI SCALFARO (1992-1999), CARLO AZEGLIO CIAMPI (1999-2006), GIORGIO NAPOLITANO (2006-2014), E IL PARTITO DEL FALSO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’": "FORZA ITALIA"!!!
L’ITALIA (1994-2014), TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di (...)

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> Berlusconi si era illuso che il patto del Nazareno lo riportasse in auge. Lo svuotamento di Forza Italia. Ora a lasciare sono i peones Da inizio legislatura persi 40 senatori e più di 30 deputati.

domenica 27 settembre 2015

Lo svuotamento di Forza Italia

di Piero Ignazi (la Repubblica, 27.09.2015)

A BERLUSCONI tutti ormai, rendono l’onore delle armi. Persino Savini gli ha dedicato frasi di riconoscimento e gratitudine per l’azione volta nel passato. È come spolverare un ritratto di famiglia ingiallito o, se pensiamo all’afflato mistico dell’unto dal Signore che beveva l’amaro calice della discesa in politica, onorare una reliquia. Il suo tempo è passato. Solo l’incredibile risultato delle elezioni del 2013, con Grillo alle stelle e Bersani nella polvere, lo aveva rimesso in gioco. E questo nonostante la catastrofica perdita di voti dell’allora Pdl. Ora non ci sono più spazi di manovra. L’irruzione e l’irruenza di Matteo Renzi lo ha relegato in un angolo.

Berlusconi si era illuso che il patto del Nazareno lo riportasse in auge; invece, era solo una stampella a disposizione del nuovo capo del governo, buona per irretire e imbrigliare l’avversario di sempre e gestire gli oppositori interni. Nient’altro. Al momento delle scelte importanti come l’elezione del Presidente della Repubblica, Renzi non ha esitato un attimo a disfarsene. Ha reso la pariglia rispetto allo sgambetto fatto da Berlusconi a D’Alema sulla bicamerale, negli anni Novanta.

Da tempo il gruppo parlamentare di Forza Italia è un sorta di albergo del libero scambio, dove però non entra quasi nessuno (una Di Girolamo non fa primavera) mentre escono a frotte. L’ultimo gruppo di scissionisti lo ha guidato l’un tempo fedelissimo Denis Verdini. Questa nuova componente non ha ambizioni egemoniche sull’elettorato di destra. Ripropone il classico canovaccio dei “responsabili”, esponenti di un ceto politico che per rimanere in vita offre i suoi servigi al governo.

La politica italiana ne ha viste a dozzine di operazioni di questo tipo: non hanno mai portato a nulla. Non è da quelle parti che può nascere una alternativa al berlusconismo. Sono altri, in primis Meloni, Fitto e Salvini, i contendenti per la guida dello schieramento di destra. Sono tutti quarantenni, chi appena uscito da Fi come Fitto, chi prima entrata e poi uscita di nuovo come Meloni, chi mai entrato e tutto calato in un’altra storia come Salvini.

In questo trio Matteo Salvini gode di una posizione di vantaggio perché dispone di una forza politica consolidata e con il vento in poppa. È stabilmente sopra Fi quanto a intenzioni di voto e dispone di una agenda politica chiara e accattivante, intessuta di messaggi xenofobi e sicuritari. E a forza di diluire il suo tasso di padanità, la Lega scende sempre più efficacemente al sud. Le sue potenzialità dipendono proprio dal passaggio dalla dimensione regionale a quella nazionale. Il lancio di Lega Italia va in questa direzione.

Giorgia Meloni, oltre a giocare sul fattore donna, può profittare di un serbatoio di riferimenti politicoculturali e di un elettorato - della destra postmissina: un richiamo muscolare allo Stato e alle sue prerogative anche in economia, una assertività proto-nazionalista in politica internazionale, un omaggio ai valori cattolico-tradizionali (dimenticando Francesco). Una destra classica, forse troppo per questi tempi moderni, e ancora relegata in una nicchia dalla quale, ad eccezione di Meloni, nessuno riesce ad uscire.

Il movimento di Raffaele Fitto è quello più in sintonia con l’anima profonda del berlusconismo, soprattutto quella meridionale. Lo straordinario successo personale di Fitto alle Europee, primo nella sua circoscrizione, e secondo assoluto in Italia, dimostra che, al di là di quell’aria sonnolenta simil-morotea, Fitto riesce a convogliare attenzione e consensi. Il suo atout sta proprio nell’empatia che lo lega all’elettorato berlusconiano, grazie alla riproposizione, riveduta e corretta, dei temi portanti della Fi d’un tempo; il suo limite, nella dimensione prevalentemente meridionale del suo appeal.

Nessuno dei tre leader ha quindi in mano le chiavi del successo. Tutti insistono su spezzoni diversi dell’elettorato del centrodestra. È probabile allora che vi saranno alleanze tattiche tra i nuovi leader e chi , eventualmente, conserverà il reliquiario forzista; ma è improbabile che si consoliderà un nuovo attore unitario di questa area. Ai due pivot della politica nazionale, Pd e M5S, si affiancheranno, quanto meno nel breve periodo, una serie di partiti medio-piccoli sul fianco destro. Uno scenario inedito nella politica italiana.


L’ultimo atto della fuga da Fi

Ora a lasciare sono i peones

Da inizio legislatura persi 40 senatori e più di 30 deputati

di Mattia Feltri (La Stampa, 27.09.2015)

È il tempo di Carneade, o meglio del terzino dell’Atalanta, come si diceva un tempo e lo cantava benissimo Roberto Vecchioni: «Fossi stato un genio / o almeno un terzino dell’Atalanta...». Geni pochi o niente, ma di terzini dell’Atalanta ce n’è una folla, tutti di colpo al centro del villaggio: la destra italiana per un giorno o almeno un pomeriggio rimane emotivamente appesa alle mosse del senatore Domenico Auricchio, finché non è passato da Forza Italia ad Ali, cioè al partito di Denis Verdini. Chissà come va misurata la moralità di Auricchio visto il suo commento alle paturnie di Raffaele Fitto solo otto mesi fa: «Fossi in lui avrei già lasciato il partito, anzi la politica che dovrebbe essere prima di tutto coerenza e lealtà. Abbia rispetto per chi gli ha dato tutto». E cioè per Silvio Berlusconi: «Tradire Berlusconi sarebbe come tradire me stesso. Gli ho detto che non lo tradirò mai. Lui mi ha preso sotto braccio, mi ha chiamato “Mimì” e mi ha sorriso».

Così parlava Mimì Auricchio una settimana fa. Se volete il Carnevale siete nel posto giusto. La fantastica Eva Longo (ex Dc, ex Ccd, ex Fi, ex fittiana, ora verdiniana) nel gennaio del 2014 così escludeva l’ipotesi di un ritorno in Forza Italia, dove ancora la Longo risiedeva, di Nunzia De Girolamo, nel frattempo passata con Angelino Alfano: «Non possiamo accettare palesi e vili tradimenti». Non si andava leggeri, con gli altri, e non ci si va nemmeno adesso e infatti la suddetta De Girolamo venti minuti dopo essere rincasata da Berlusconi impegna del sarcasmo: «Adesso Alfano canta meno male che Renzi c’è». Sospetto da cui si poteva essere sfiorati da almeno un paio d’anni.

Ma è l’ora del terzino dell’Atalanta: la scissione è un brivido universale, sebbene passeggero. Un tempo se ne andavano Pierferdinando Casini e Gianfranco Fini, o almeno Clemente Mastella e Marco Follini, fino a Sandro Bondi e Denis Verdini, adesso tocca a Monica Faenzi e Giuseppe Galati, di cui il lettore probabilmente non conosce le biografie a memoria. E però è un andirivieni talmente massiccio che il centrodestra ormai si divide in alfaniani, verdiniani, fittiani, berlusconiani, salviniani, meloniani, e la geografia parlamentare pare quella dell’Jugoslavia dopo la dissoluzione.

Da inizio legislatura, Forza Italia ha perso fra isterie istantanee oltre trenta deputati e quasi quaranta senatori, e allora, davanti alle cedevolezze del senatore Peppe Ruvolo («Ribadisco la mia lealtà alla linea del presidente Berlusconi e diffido chicchessia dall’utilizzare impropriamente il mio nome», settembre 2013; «la linea politica intrapresa da Forza Italia mira a rincorrere i populismi», settembre 2015) fioriscono interviste a Domenico Scilipoti e Antonio Razzi, incaricati di ridefinire i confini dell’etica politica. Che effettivamente sono piuttosto elastici.

Giovanni Mottola, già vicedirettore del Giornale, a inizio anno indirizzava un consiglio e un po’ di disprezzo al solito Fitto («Se crede che il leader di Forza Italia sta sbagliando perché non va a fondarsi il suo partitino?»). Ora Mottola il consiglio l’ha fatto suo, e quantomeno rimane nella parte che vuole le riforme. Altrove si trovano motivazioni più friabili: il senatore Francesco Amoruso è passato con Verdini perché «Berlusconi non mi ha difeso» in una periferica polemica fra capoccia forzisti pugliesi. Del resto Forza Italia è il partito in cui si giustifica il passaggio dal sì al no alla fine del bicameralismo, cioè alla più importante riforma degli ultimi settant’anni, perché «Renzi ci ha fregato nell’elezione del capo dello Stato» (Maurizio Gasparri, ancora pochi giorni fa). E certi terzini presto o tardi finiscono in tribuna.


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