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Mondo

Rwanda, ritorno su una colpevole cecità internazionale, dieci anni dopo il genocidio - di Colette Braeckman - selezione a cura di pfls

martedì 23 maggio 2006 di Emiliano Morrone


DIECI ANNI DOPO IL GENOCIDIO
Ruanda, ritorno su una colpevole cecità internazionale
di Colette Braeckman,
giornalista di Le Soir (Bruxelles), autrice fra l’altro di Nuovi predatori, Fayard. Paris. 2003.
(traduzione dal francese di José F. Padova)
Un milione di morti in cento giorni e il mondo non ne avrebbe saputo nulla? Dall’indipendenza, nel 1962, in poi, tutti coloro che s’interessavano al Ruanda sapevano che il fuoco covava. Già nel 1959, assistiti dai (...)

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> Rwanda ---- 7 aprile ’94. Nella terra delle mille colline inizia lo sterminio... «L’ideologia del genocidio è ancora viva. È di questi giorni la notizia che le ossa dei morti gettati nel fiume Nyabarongo e trascinati in Uganda, dove avevano ricevuto sepoltura, sono state profanate». Ci parla senza mezzi termini Yolande Mukagasana (di Pietro Del Soldà).

martedì 7 aprile 2009


-  Fantasma Rwanda

-  Quindici anni fa l’alba del genocidio

-  di Pietro Del Soldà (il Riformista, 07.04.2009)

7 aprile ’94. Nella terra delle mille colline inizia lo sterminio. In cento giorni le milizie estremiste hutu uccidono a colpi di machete 800.000 persone, tutsi ma anche hutu moderati. Oggi il Paese guidato da Kagame e dalle donne, che hanno preso per mano una società di orfani, seppellisce il ricordo con uno sviluppo economico invidiabile. Ma la riconciliazione è lontana.

«Il trauma è ancora vivo, palpabile, ma i rwandesi hanno deciso di andare avanti». A parlare è Jean Pierre Ruhigisha, rappresentante della comunità rwandese a Roma, in Italia dal 2000. Jean Pierre durante il genocidio del ’94 non si trovava in Rwanda. Se n’era andato molti anni prima, nel ’73, fuggendo con la sua famiglia dal secondo massacro che insanguinò la storia del suo popolo. Allora aveva quasi quattro anni, ma i ricordi, aiutati anche dai racconti della madre, sono ancora vivi e terribili.

«In questo mese di commemorazioni, quando si avvicina il 7 aprile, data d’inizio del genocidio, il ricordo dei massacri ritorna vivo. Le reazioni dei singoli, di chi ha perso i familiari o gli amici o è scampato per miracolo ai colpi di machete, sono diverse, ma indicano tutte che la paura c’è ancora: c’è chi scappa, c’è chi si rinchiude in casa per stare da solo, la gente non è ancora in grado di affrontare quel capitolo della storia come qualcosa di superato. Poi, passato il mese di aprile, si riesce a gestire il trauma e ad andare avanti con la vita di tutti i giorni».

La memoria fa male, dunque, ma non c’è alternativa. La storia del Rwanda deve ripartire da lì, da quel 7 aprile di 15 anni fa, quando l’alba illuminò, come sempre, il Rwanda delle mille colline, e scoprì che il paese non era più lo stesso. L’abbattimento del jet Mystere Falcon, avvenuto la sera prima sui cieli di Kigali, non aveva soltanto posto fine alla vita del presidente Habyarimana, colpevole agli occhi degli hutu più oltranzisti di aver firmato un accordo con i tutsi del Fronte Patrottico Ruandese. Quel razzo lanciato da "ignoti" fece qualcosa di più. L’offensiva contro gli oppositori del regime, tutsi ma anche hutu moderati, nacque da un disegno di morte cinico e organizzato.

Il Rwanda sia chiaro non era nuovo ai massacri reciproci tra hutu e tutsi. La rivolta del 1959, quando i contadini massacrarono i loro padroni tutsi a colpi di zappe e machete, provocò una strage. L’indipendenza del Rwanda è stata poi segnata da violenze continue: lo stesso Habyarimana aveva contribuito ad acuire la spaccatura del paese, una divisione a cui aveva largamente contribuito il potere coloniale belga ed alla quale venne imposta dall’alto, per fini politici, una natura "etnica" che storicamente non ha grande fondamento. Ma nel 1994 le cose acquistarono un tono diverso, da "sterminio programmato" di un’intera categoria di rwandesi, i tutsi, che l’ideologia estremista al potere definiva una razza diversa, venuta da lontano a rubare la terra e il bestiame degli autoctoni hutu. Una menzogna diffusa ad arte, che convinse e coinvolse un numero impressionante di cittadini hutu.

La notte del 6 aprile cominciò l’annientamento degli «scarafaggi», come li definisce la famigerata Radio Mille Colline, accusati in massa della morte del presidente: un massacro che avrebbe potuto svolgersi a colpi d’artiglieria. Ma così non fu: lo sterminio doveva avvenire a colpi di machete, guidato da una milizia di massa, l’Interahamwe, che includeva contadini, studenti, impiegati, affinché fossero migliaia le mani sporche di sangue, e nascesse un nuovo paese fondato sulla colpa condivisa, sulla rimozione, sulla paura della verità.

In tre mesi vennero trucidate circa 800mila persone. Poi, i tutsi del Fpr ripresero il potere per non lasciarlo più. Oggi, il presidente Paul Kagame appare come una figura sfuggente dietro i grandi occhiali che coprono il suo viso magro: è il padre del nuovo Rwanda, un paese moderno, che cerca di seppellire il ricordo con uno sviluppo economico e sociale da far invidia ai paesi vicini. Kigali è una città cantiere, il fermento si vede già sorvolandola dall’alto. E poi, record dei record, la maggioranza dei parlamentari è donna.

«Sono le donne la vera guida del paese» - ci spiega Benedetta Lauricella di "Progetto Rwanda", onlus italiana impegnata nel pese dal 1997 (www.progettorwanda.it). «All’indomani del genocidio, che aveva colpito soprattutto ragazzi e uomini adulti, le donne rimaste sole presero per mano il paese e allevarono 500mila orfani». Potere alle donne e sviluppo economico, dunque, e anche un fermo no alla deriva etnica: Kagame ha infatti vietato le mortifere etichette hutu e tutsi. Ma la riconciliazione è lontana. I "gacaca", tribunali del popolo, hanno contribuito a fare un po’ di luce, ma nessun colpevole ha davvero chiesto perdono. Nessuna commissione per la verità e la riconciliazione, sul modello del Sudafrica, ha affrontato davvero il trauma: le ombre del genocidio si allungano ancora sul futuro del Rwanda.


«L’odio etnico è ancora vivo e le violenze continuano»

Yolande Mukagasana. La denuncia al "Riformista" della donna simbolo della memoria rwandese. «Profanano le nostre sepolture. Uccidono i testimoni. E i governi europei accolgono gli assassini».

di P.D.S. (il Riformista, 07.04.2009)

«L’ideologia del genocidio è ancora viva. È di questi giorni la notizia che le ossa dei morti gettati nel fiume Nyabarongo e trascinati in Uganda, dove avevano ricevuto sepoltura, sono state profanate». Ci parla senza mezzi termini Yolande Mukagasana, l’infermiera rifugiata politica in Belgio. È la donna simbolo del genocidio ruandese, la sua vicenda ha colpito i tanti spettatori della pièce Ruanda 94 e i lettori del suo libro La morte non mi ha voluta. Nata a Butare da una famiglia tutsi, subì già nel 1959, quando aveva solo cinque anni, le prime ferite della violenza hutu durante il primo grande massacro nella storia del suo paese. Nel 1972 ottenne il diploma, ma solo 16 anni dopo le autorità hutu le riconobbero il titolo di infermiera anestesista. Fu allora che scoprì la divisone etnica che lacerava il paese. Nel 1992, nonostante la difficoltà di vivere e lavorare in una società che guardava i tutsi con ostilità crescente, aprì un ambulatorio privato. Un’iniziativa coraggiosa per l’epoca, che infatti la espose a critiche e minacce. Poi, quando scoppiò il genocidio del 1994, l’ostilità nei suoi confronti degenerò. Perse marito e figli, che vide morire trucidati davanti a lei. Ma lei fu risparmiata, la morte non l’ha voluta.

Una donna hutu, Jacqueline Mukansonera, la tenne nascosta nella sua casa mettendo a repentaglio la sua stessa vita. Yolande oggi ricambia, con la paura e la morte negli occhi anche a distanza di 15 anni, lavorando affinché la memoria non si perda, e soprattutto perché la riconciliazione abbia la meglio sul desiderio di vendetta. Yolande ci parla da Roma, dov’è arrivata per partecipare alla manifestazione che stasera ricorderà il più terribile sterminio della storia recente (parlerà alle 21, al teatro Piccolo Eliseo). «La violenza non è affatto finita - ci dice ancora - ogni anno, e con frequenza ancora maggiore in prossimità dell’anniversario dell’inizio del genocidio, il 7 aprile, i colpevoli cercano ed eliminano i testimoni delle loro atrocità. Solo in questi giorni sono state uccise 16 persone, una ragazza è stata accoltellata a Bruxelles. Anch’io, nella mia casa in Belgio, continuo a vivere nella paura». La comunità internazionale non ci pensa più e Yolande accusa: «I governi europei sono di fatto negazionisti, continuano ad accogliere gli assassini sul loro territorio».

Cosa ne pensa, le chiediamo, dei tribunali del popolo, i gacaca, favoriti dallo stesso governo? «La giustizia ha cominciato ad agire su tre livelli differenti - risponde - Il Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda è il livello più elevato, quello che si è occupato solo degli imputati eccellenti, e non ha mai previsto un risarcimento per le vittime. Poi c’è la giustizia ordinaria del Rwanda, un sistema che ha già cent’anni di storia, e che in nessun modo poteva affrontare decine di migliaia di processi». Si calcolò, infatti, che ci sarebbe voluto un secolo. «I gacaca quindi, istituzioni tradizionali che prevedono che vittime, testimoni e colpevoli si riuniscano sul luogo del delitto, hanno consentito di far emergere un po’ di verità».

Qualche forma di ricompensa effettivamente c’è stata, continua Yolande, il ruolo dei gacaca che si sono occupati dei «genocidari comuni», è stato utile. Ma certo non è sufficiente perché le ferite si rimarginino e cessi la paura.


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