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Esteri

Parla Fidel: «Siamo poveri e in guerra, tutto per colpa degli Usa». Dialogo tra Fidel Castro e Gianni Vattimo - di Gianni Vattimo

domenica 28 maggio 2006 di Emiliano Morrone
di Gianni Vattimo
Di ritorno da L’AVANA. Ebbene sì, anch’io sono tra quegli intellettuali occidentali che si lasciano affascinare da dittatori e caudilli sudamericani, magari anche attratti dal fatto di essere invitati a viaggi principeschi verso le loro spiagge dorate... Le spiagge di Cuba sono effettivamente dorate, ma io ci sono arrivato, su invito della Biennale d’arte della Avana, con un volo charter in cui non c’era nemmeno il posto per le gambe, in compagnia di turisti per lo più (...)

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> Parla Fidel: «Siamo poveri e in guerra, tutto per colpa degli Usa». --- Ancora e sempre Fidel (di Gianni Vattimo).

venerdì 9 gennaio 2009

Ancora e sempre Fidel

di GIANNI VATTIMO (La Stampa, 9/1/2009)

Cinquant’anni dalla rivoluzione cubana. La stampa «indipendente» mi ripete che la rivoluzione è fallita, ma io non ci credo. Come molti intellettuali «vintage», anch’io ho attraversato disciplinatamente almeno le prime due fasi della parabola castrista: l’entusiasmo per la rivoluzione vittoriosa, il Che e le canzoni dei barbudos, il progetto di un allargamento del movimento fuori dai confini di Cuba; persino l’accettazione rassegnata della caduta dell’isola nella sfera d’influenza sovietica - perché non si poteva fare altro. Poi, certo anche a partire dalla dipendenza verso Mosca, la crescente delusione per le promesse non mantenute: povertà, limitazioni severe delle libertà politiche e civili; con le storie di persecuzione di scrittori e intellettuali gay, che mi vengono ancora puntualmente rinfacciate con sempre meno verosimiglianza. Oggi, a quanto pare, non «si può» decentemente professarsi castrista nel mondo della cultura predominante; è quasi una caduta grave come dubitare del diritto di Israele di affamare e poi bombardare Gaza, o porre troppe domande sull’11 settembre...

Io mi trovo però nella (minoritaria) condizione di un intellettuale italiano che non ha solo percorso le prime due fasi della parabola dell’immagine del castrismo, ma che ne ha vissuto di recente una terza, che si potrebbe chiamare la sintesi dialettica delle prime due. Sono stato a Cuba, ho potuto incontrare faccia a faccia Fidel, non più solo per speculum et in aenigmate (ho raccontato l’incontro su questo giornale nell’aprile 2003, non senza suscitare un fiera, e per me molto onorevole, reazione del Miami Herald). Ma soprattutto ho visto molti cubani, certo non oppositori del regime ma nemmeno privilegiati o personaggi ufficiali. Gente che crede ancora nella rivoluzione, e sopporta i tanti disagi quotidiani, anzitutto perché ricorda, personalmente o per memorie ricevute, che cos’era Cuba ai tempi di Batista; ed è convinta che le difficoltà economiche dipendono dal fatto che l’isola è in guerra ed è soggetta a un permanente assedio statunitense (oltre che alle minacce degli attentati). Di recente, poi, è nata nei cubani una nuova fierezza: la resistenza di Castro al gigante nordamericano è diventata fonte d’ispirazione per le tante trasformazioni politiche che hanno cominciato a fiorire nel resto dell’America Latina. E, a proposito di benessere: Michael Moore ha mostrato e documentato che un cittadino cubano può contare su un’assistenza medica gratuita di un livello che negli Usa è riservato solo a un piccolo gruppo di ricchi.

Ma, si dice sempre: la libertà, i gay in carcere, la stampa di regime, gli scaffali dei supermercati vuoti? Sui gay, almeno, la signora Mariela Castro, figlia di Raul, che dirige un modernissimo istituto di sessuologia, spiega che le ondate omofobiche, analoghe a quelle contro cui si rivoltarono i gay di New York con la battaglia dello Stonewall (ed era New York; ma la provincia americana, cioè tutto il resto degli Usa?) dipesero nei primi tempi della rivoluzione dalle «democratiche» decisioni dei capi locali del partito castrista, omofobi più o meno come tutta la società cubana e degli altri Paesi latino-americani (oggi peraltro molto più avanti di noi italo-vaticani). E più tardi dalla stretta securitaria e dal clima di guerra.

La rivoluzione castrista, nel quadro della nuova America Latina che si è delineato negli ultimi anni - anche, ma non solo, per merito di Chavez e del suo petrolio - non è affatto una (altra) speranza fallita, a dimostrazione che ha sempre ancora ragione il nostro «democratico» capitalismo. Semmai, certo, mostra che nel mondo tardo-moderno la rivoluzione in un solo Paese, che non sia un intero continente o quasi, come la Cina, non ha probabilità di successo: non potremmo mai pensare nemmeno a una rivoluzione classica, come quella francese, nel mondo odierno delle multinazionali, economiche o politiche che siano. Ma quando parliamo di America Latina (e non di Europa, ahimè) è proprio un continente quello a cui pensiamo.


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