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DONNE E UOMINI, CITTADINE E CITTADINI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico ....

25 Giugno 2006: salviamo la Costituzione e la Repubblica che è in noi - di Federico La Sala

giovedì 26 giugno 2008 di Vincenzo Tiano
di Federico La Sala (Libertà - quotidiano di Piacenza, 08.06.2006, p. 35)
Il 60° anniversario della nascita della Repubblica italiana e dell’Assemblea Costituente, l’Avvenire (il giornale dei vescovi della Chiesa cattolico-romana) lo ha commentato con un “editoriale” di Giuseppe Anzani, titolato (molto pertinentemente) “Primato della persona. La repubblica in noi” (02 giugno 2006), in cui si ragiona in particolar modo degli articoli 2 e 3 del Patto dei nostri ’Padri’ (...)

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> 25 Giugno: Salviamo la Costituzione e la Repubblica che è in noi ----- CONTRO LA DISEDUCAZIONE CIVILE (di Sergio Zavoli).

domenica 8 giugno 2008

Contro la diseducazione civile

di Sergio Zavoli *

Celebrare la ricorrenza della nascita della Repubblica ha significato rinnovare, non simbolicamente, il ricordo di un evento cui Piero Calamandrei conferì, nell’ambito della nostra storia, il «primato della straordinarietà». Non solo per ciò che recise e inaugurò nella vita del Paese, ma anche per il modo in cui si ebbe il grande salto storico da cui nacque una Repubblica sorta dal libero voto dei cittadini, deciso, predisposto e svoltosi con un re ancora sul trono. Dopo la catastrofe del conflitto mondiale e della guerra civile risorgeva la Nazione e si compiva l’ideale del risorgimento democratico d’ispirazione mazziniana.

Fu Nenni - repubblicano, nella sua giovinezza - a proporre che la scelta tra monarchia e repubblica fosse contemporanea all’elezione dell’Assemblea costituente; ebbe in ciò l’appoggio di Togliatti e la proposta prevalse su quella di De Gasperi, il quale avrebbe prima voluto il voto per la Costituente e poi il referendum - che pure aveva indicato e sostenuto - per non accentuare il dissidio interno alla DC sul grande plebiscito istituzionale, che vedrà una campagna serrata, martellante, emotiva, venata di acrimonia e radicalismo.

In tutte le regioni del Sud la repubblica venne sconfitta, ma i voti di minoranza contribuirono a formare una maggioranza di due milioni di suffragi che decise il referendum: l’Italia era repubblicana, anche con il voto dei ceti progressisti meridionali, dei contadini di Carlo Levi, dei cafoni di Ignazio Silone.

Così, alla "Conferenza della pace" di Parigi, davanti al consesso dei vincitori, nel discorso rimasto famoso per l’esordio "Sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me", De Gasperi potrà aggiungere: "ma sento anche la responsabilità e il diritto di parlare come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica, la quale armonizza in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, la concezione universalistica del Cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori".

Quel 2 giugno, nello stesso giorno in cui nasceva la Repubblica, rinasceva il Parlamento.

La scelta tra repubblica presidenziale e parlamentare, dibattuta a lungo nel comitato ristretto dei Settantacinque e nell’Assemblea plenaria, non aveva un esito scontato. Il modello presidenziale contava su pochi, ma agguerriti sostenitori, tra cui Calamandrei. Pesava, in ogni caso, la tragica esperienza della Repubblica di Weimar e quella dell’Italia del primo dopoguerra, esempi di un parlamentarismo debole e inconcludente, schermo troppo fragile da opporre a nazismo e fascismo. Einaudi proporrà all’Assemblea di prendere in esame i poteri che, in una lunga evoluzione, aveva via via assunto il primo ministro inglese, seppure sottoposto allo stretto controllo del Parlamento. Richiamo, per cenni, quelle dispute volendo rimarcare l’esame approfondito, lo scrupolo, il ricorso alla storia e alla dottrina, l’apertura senza pregiudizi con cui la Costituente, in diciotto mesi, svolse il suo compito. Quei temi, in particolare il cosiddetto "premierato forte", ai giorni nostri li ritroveremo al centro del dibattito politico. Ancora vivi - anzi, di una inquietante attualità - sono i grandi temi legati a quanto la Costituzione afferma nell’articolo 3: "E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana". Norma programmatica, unica tra tutte le Costituzioni dell’epoca (dove si incontrano il pensiero sociale cattolico e quello socialista) fondamento della legislazione sui diritti civili dell’ultimo trentennio e oggi nuovamente sotto attacco, ma via via più condivisi, al punto d’essere difesi superando le divisioni e gli schieramenti tradizionali. Il Parlamento della Repubblica ha una laboriosa storia di risvegli ideali; e, in concreto, di sempre rinnovate inclusioni, cioè di aperture alle forze emergenti della politica e della società civile nel mutare, e nel maturare, dei tempi. La straordinaria ricchezza costituita dalla pluralità di idee, di cultura, di progetti ispirati dalla ritornata democrazia, a veder bene non è andata dispersa. La Carta costituzionale imprimerà a un Paese minacciato dalla disunione un forte "sostrato unitario", come l’ha definito Napolitano. Quanto profondo e solido sia quel radicamento nella storia della Repubblica e della Costituzione è stato il tema di un intervento del compianto Pietro Scoppola alla Fondazione della Camera. Dalla sua analisi riprendo il passo in cui lo storico ha fatto proprio un giudizio di Dossetti, per il quale "il fiore pungente della Costituzione - come lo chiamò - germoglia dalla tragedia della seconda guerra mondiale e dalle durissime prove della Resistenza". E tuttavia, per quanto profonde e salde siano le radici della Costituzione repubblicana, "non sembra corrispondere ad esse - osservò Scoppola - un diffuso patriottismo repubblicano e costituzionale come coscienza di cittadinanza". E’ davvero stringente la sintonia tra queste parole e l’allarme pronunciato da Giorgio Napolitano, in occasione del 2 giugno, sui rischi di una deriva opportunistica, fino all’egoismo più palese, da cui il Paese sembra essere attraversato. C’è dunque ancora bisogno di educazione civica; non in forme stereotipate, ma nuove e coinvolgenti. La scuola dovrebbe fare di più, e così il sistema mediatico. A tali necessità rispondeva quella che, in altre circostanze, chiamammo l’instancabile pedagogia di Ciampi, in cui la riscoperta dell’italianità si legava all’idea di una comunità non solo storicamente, ma anche socialmente, civilmente e culturalmente solidale, nel rispetto della virtù repubblicana come la vedeva Montesquieu: amore per la cosa pubblica, che presuppone disponibilità a mettere in comune, tutti, qualcosa di sé, anzi "il meglio di sé". E Scalfaro non ha mai cessato di perorare con tutte le sue energie, in ogni modo e circostanza, l’insegnamento della Costituzione, "la più solida, equa ed efficace delle pedagogie civili".

L’educazione alla cittadinanza, come è chiamata dagli studiosi di scienze politiche, è tutt’altro che un tema minore. Nella Carta fondamentale dell’ordinamento repubblicano è chiaramente definito un diritto decisivo per la democrazia: quello di manifestare liberamente il proprio pensiero "con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". La premessa e la garanzia più efficaci di questo diritto stanno nella pluralità delle voci; eppure ha continuato a circolare una domanda destinata a suscitare una preoccupazione non bigotta, né bizzarra: se cioè stesse entrando in crisi l’assunto democratico secondo cui società libera, pluralità di idee e d’informazione, concorso alla vita pubblica in tutte le sue forme civili, sono tutt’uno, cioè spirito di cittadinanza, lo stesso al quale ci ha ricondotto Napolitano con accenti così risoluti da indurre una serie di osservazioni, analisi e giudizi. Ed è questo il motivo per cui - trascorso il 2 giugno, e avendo appreso che solo il 30-35% degli italiani conosce il significato della ricorrenza - sono riandato all’esperienza maturata sul campo a proposito dell’uso che noi, i cosiddetti comunicatori, abbiamo fatto e facciamo della nostra storia nazionale. Imparare la democrazia, esortava Gustavo Zagrebelsky dalle pagine di un libro assai profetico. Bisogna salvare i giovani dalla malattia strisciante, persino inconsapevole, della diseducazione civile. Per prime, vanno rianimate tutte le grandi fonti del senso, del significato, a cominciare dalla famiglia, dalla scuola e dai mass-media, per evitare che i loro ruoli, raccolti e fatti suoi dalla televisione, finiscano per essere interpretati - su basi generaliste, direbbe un massmediologo - dall’onnivora e fatalmente superficiale supplenza di ogni altra designata agenzia.

Sotto questo aspetto credo sia lecito definire vacillante il mito della televisione che "mostra le cose come stanno". Non è più un mistero per nessuno che tutto il ricreato dalla TV diviene l’immagine di una realtà più vera del vero. E qui, nel rappresentare quanto va direttamente riferito allo stato reale del Paese, cioè al progressivo scollegarsi dell’interesse individuale da quello comune, si coglie il primo indebolimento dell’identità nazionale - civile, culturale, etica - e una crescente cessione alla logica del sentire privato di ciò che dovremmo saper cogliere come segni di una diffusa e critica consapevolezza civica. Se la Tv non è soltanto il mezzo più idoneo a rappresentarci il mondo, ma anche a formare il nostro giudizio sul mondo, l’ineludibile requisito di uno strumento di tanta potenza e responsabilità dovrebbe essere quello di svolgere il suo compito fondandolo su contributi di carattere etico. Inventiva, spettacolo, gradevolezza, svago - non ne verrebbero a soffrire. Anche la gara per la conquista dell’audience andrebbe pensata e perseguita richiamandosi a quel principio: passi per un giornale, che ciascuno si sceglie perché corrisponde alla propria cultura, mentalità, ideologia, ma irrompere nelle case attraverso l’etere - specie se si è servizio pubblico - chiama in causa il rapporto fiduciario che uno strumento di tanto potere deve garantire alla res publica, cioè in nome di un bene generale. Mi sono soffermato sulla TV - anche quella di proprietà privata ha responsabilità pubbliche - per la sua posizione dominante nel sistema dei media, ma l’esigenza di pluralità e il richiamo all’etica vale per il giornalismo e per qualunque altra modalità comunicativa: è dall’intero sistema che può venire l’apporto più efficace alla formazione di una società di cittadini consapevoli dei loro diritti e capaci di esercitarli. Specie in un’epoca di crescenti risorse mediatiche, dovute all’universo elettronico; cui non può sfuggire l’elaborazione e la messa in valore di pulsioni, proposte e travisamenti che sono raramente l’opera dello storico, il quale si propone di accertare la verità anche sottoponendo a nuovo esame la versione degli eventi accettata fino ad allora, e dandone una sua responsabile lettura. Molto revisionismo deteriore ha le sue origini in una cattiva informazione, una pedagogia interessata, una politica ideologica, in definitiva una cultura in cui si insinua e agisce una parziale o manomessa costruzione della realtà che può portare a lente, striscianti, suggestive amnesie di ogni genere; non escluse quelle, di non facile decifrazione, che includono principi etici, valori morali, dignità culturali. Ogni ridondanza, malizia e faziosità andrebbero banditi: quel che serve è una pacata, lucida e condivisa volontà di pace civile e sociale, fatta di lavoro, di equità, di sicurezza. È ciò che dobbiamo allo stesso atto fondativo di questa democrazia e di questa Repubblica. Cioè a noi, persone e cittadini, singoli e comunità, tenuti insieme, indivisi, da una storia che è di ciascuno e di tutti. In cui quanto va salvato, contro la vischiosità del pregiudizio, è compito di strumenti specialmente vocati a farci capire che cosa dover intendere per res publica, la quale non è mai interessata alle pronunce solenni, scolpite nel marmo, ma al principio secondo cui conoscere e condividere - pur nelle diverse, legittime identità - è la prima possibilità di difendersi e crescere. Insieme. Penso alla lucidità di De Rita nel considerare la lectio umana e civile, sociale ed etica, venuta dal Colle in un giorno che invitava a parlarci, l’un l’altro, avendo davanti agli occhi lo stesso Paese, tentato dalla trasgressione quotidiana come segno di una micro-deriva della dignità civica e del rispetto interiore; e ciò mentre - osserva De Rita - "una società che esalta l’individualismo, e ha rotto con le vecchie appartenenze, non riesce a crearne di nuove". Se non quelle spaesate, aggressive, ribelliste, violente che aggregano i senza bussola, imbarbariti dalla solitudine e dall’egotismo, alle soglie di quella che il presidente Napolitano ha chiamato "regressione civile".

* l’Unità, Pubblicato il: 08.06.08, Modificato il: 08.06.08 alle ore 13.47


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