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VITA E FILOSOFIA. Per una rivoluzione antipastorale ....

“Governare la vita”. Il lascito di Foucault, la filosofia come diagnosi del potere - selezione di Federico La Sala

Una raccolta di saggi di autori vari curata da Sandro Chignola sui due corsi che il filosofo tenne al Collège de France tra il 1978 e il 1979. Istruzioni per l’avvenire più che lavori compiuti
domenica 11 giugno 2006 di Vincenzo Tiano
di Girolamo De Michele (Liberazione, 09.06.2006)
Tra il 1978 e il 1979 Michel Foucault tiene due corsi al Collège de France: si tratta, per il filosofo che negli stessi anni lavora alla Storia della sessualità, di esporre delle ipotesi di lavoro, di saggiare la validità di progetti in corso di definizione. Di ripensare lo stesso disegno di un potere disciplinare. Non è casuale che questa ricerca sia abbozzata nel corso di quella sorta di impasse che prende Foucault dopo la stesura de La (...)

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> “Governare la vita”. --- Foucault, oggi - Foucault. Sa pensée, sa personne - Pensiero politico di Foucault - Le parole e le immagini (di Stefano Catucci).

mercoledì 19 novembre 2008

Foucault

TRA IL SÉ E IL NOI - COME LASCIARLO ALLA SUA IRREQUIETEZZA

Un sentiero di lettura per aggiornarci sul filosofo francese. Dai saggi curati da Mario Galzigna in Foucault, oggi per Feltrinelli, alla monografia di Paul Veyne Foucault. Sa pensée, sa personne, uscito da Albin Michel al libro sul Pensiero politico di Foucault di Vincenzo Sorrentino per Meltemi

di Stefano Catucci (il manifesto, 16.11.2008)

Nella sempre più ampia quantità, di studi dedicati a Michel Foucault alcune immagini e alcune citazioni ricorrono e mostrano l’urgenza di un problema: come leggere i suoi scritti e come usare le sue indicazioni di ricerca senza annettere un pensiero così irrequieto agli imperturbabili classici d’accademia?

Per un verso si tratta di un destino inevitabile giacché ogni esperienza filosofica, a mano a mano che si storicizza, tende a fissarsi nei testi che la esprimono e diviene perciò oggetto di analisi letterali, se non proprio di una pratica filologica. Ma per un altro verso è un paradosso, dato che Foucault ha contestato con forza, e costantemente, il predominio della «cultura del commento» e denunciato la piccola pedagogia spicciola nascosta nell’idea che una filosofia sia interamente compresa nei suoi testi.

Quella della «cassetta degli attrezzi» è l’immagine che Foucault metteva a disposizione per chi volesse incamminarsi sulle piste di ricerca da lui avviate, una immagine che viene spesso utilizzata per sottolineare la priorità dell’uso di un pensiero rispetto alla fedeltà di un’interpretazione.

E vi andrebbe aggiunta una citazione, quella secondo cui «il solo segno di riconoscimento che si possa testimoniare a un pensiero consiste nell’utilizzarlo, nel deformarlo, nel farlo stridere e gridare» senza accordare alcun tipo di interesse al criterio della «fedeltà» a un dettato: viene impiegata per rafforzare l’idea che la sua opera sia refrattaria a quei processi di acquisizione i quali, trasformandola in un classico, la normalizzano privandola del suo carattere più esplosivo, del suo essere un esempio di pratica critica e non un corpo di dottrine da applicare.

Un pensiero enigmatico

È significativo che quell’immagine e quella citazione compaiano in diversi contributi del volume Foucault, oggi, curato da Mario Galzigna (Feltrinelli, 2008, pp. 308, euro 20). Pur nella discontinuità tipica dei libri collettanei, tanto più forte se - come in questo caso - nascono come raccolta degli atti di un convegno, gli interventi ruotano essenzialmente intorno all’interrogativo posto da Alessandro Fontana nel saggio di apertura: come leggere Foucault oggi.

Fontana appartiene alla generazione degli allievi diretti di Foucault ed è tra coloro che portano il maggior merito dell’impresa che ha condotto alla pubblicazione delle sbobinature dei corsi tenuti al Collège de France. La sua, tuttavia, non è una voce che riporta all’insegnamento vivo di Foucault giudicando quanto vi si sia rimasti «fedeli». Offre piuttosto indicazioni di metodo che vengono incontro anche alla frequente delusione di chi, confidando fin troppo nell’immagine della «cassetta degli attrezzi», cerca di applicare al presente le intuizioni di Foucault nella speranza di trovarvi indicazioni concrete sulle pratiche di resistenza e di militanza, dunque su una prassi politica che, essendo tutta da reinventare, troverebbe nei suoi scritti un suo primo, foss’anche provvisorio abbecedario. Foucault però, osserva Fontana, non ha «prodotto ’saperi’», non ha elaborato concetti universali, «categorie astratte e forme trascendenti o trascendentali» da applicare. Il suo, semmai, è un pensiero «enigmatico» e «ambiguo», che non si lascia ricondurre a precetti generali ma obbedisce a una forza dispersiva irriducibile a un catalogo ordinato di strumenti.

La via da lui indicata è quella della sfida critica nei confronti dei saperi consolidati. Lasciate perdere perciò, consiglia Fontana, «esegesi e commenti», e «fate funzionare le macchine analitiche nel reale» senza trasformare l’esempio delle sue ricerche in un corpus di dottrine. Solo così, avverte ancora, si può intendere la relazione viva che intercorre tra i libri di Foucault, i suoi corsi, le interviste e gli interventi sparsi che Deleuze definiva «linee di attualizzazione» della sua filosofia. La tentazione ermeneutica che mira a intendere anche la lezione orale di Foucault come un testo scritto, insomma, dovrebbe essere rovesciata fino a leggere anche nei suoi libri non la fissazione di un programma, ma una prestazione critica in atto.

Le parole di Fontana spingono lo sguardo sul ruolo che Foucault assegnava alla storia come cardine del suo progetto di filosofia critica. È questo, sia pure in una modulazione differente, ciò che preoccupa anche Paul Veyne nel libro Foucault. Sa pensée, sa personne, pubblicato di recente in Francia dall’editore Albin Michel (pp. 216, euro 16). Veyne, che di Foucault è stato collega al Collège de France, amico e «consulente» per i problemi riguardanti la storia antica al centro degli ultimi scritti foucaultiani - ma idee e analisi, scrive, erano come l’arco di Ulisse «che lui solo aveva la forza di tendere», mentre «il mio ruolo» si riduceva «a confermare le sue informazioni e a dargli conforto» -, vede appunto nella forza esplicativa attribuita al gioco delle singolarità storiche e nel rifiuto di sottometterle a principi generali la novità rivoluzionaria del pensiero di Foucault. Tramite l’ancoraggio ai temi concreti della ricerca egli metteva in questione i presupposti più radicati della metodologia storica, in primo luogo il totem della relazione causa-effetto, e contemporaneamente strappava ai filosofi la maschera di protezione formata dal ricorso a categorie universali.

La storia si presentava così, agli occhi di Foucault, come un crogiuolo di differenze e la filosofia come un’esperienza del dettaglio il cui empirismo radicale, sostiene Veyne, sfiora lo scetticismo senza però scivolare nel nichilismo. A trattenerlo su questa soglia è la constatazione dell’esistenza della libertà: libertà di avere convinzioni, speranze, indignazioni, libertà di ribellarsi.

Neppure l’esercizio della libertà, però, doveva essere ricondotto a principi generali: «non utilizzate il pensiero per dare valore di verità a una pratica politica», aveva scritto nel 1977. Compito di uno «storico foucaltiano», oggi, è dunque per Veyne riconoscere il peso delle singolarità al di sotto dei tessuti unitari che continuiamo a stendere su di esse, rintracciare discontinuità e differenze laddove tendiamo a vedere continuità e somiglianze.

Il Foucault raccontato da Veyne è dunque un «antropologo empirico» più vicino a Montaigne e a Nietzsche che a Heidegger, un «antropologo» per il quale ogni storia realmente critica, e ogni filosofia ancorata sulla storia, dovrà infine essere una «storia della verità», ovvero dei modi in cui ogni epoca ha prodotto i propri parametri di verità senza cessare di variarli: «ontologicamente parlando», conclude Veyne, «non esistono che variazioni», mentre la dimensione metastorica «non è che un nome privo di senso».

Sarebbe difficile ad ogni modo, e non solo per uno spirito sofistico, negare che le indicazioni di Foucault sul modo di intendere una filosofia, usandola più che interpretandola, o sulla maniera di fare storia, indagando le singolarità e le variazioni piuttosto che le continuità, non siano filosofemi di carattere generale e non sottintendano in alcun modo una dottrina.

Certo, come ha riconosciuto Daniel Defert, Foucault ha esplicitato raramente i grandi temi della sua filosofia, lasciando di fatto ai suoi commentatori quello che Veyne definisce un «temibile compito». Fra la prosecuzione delle sue ricerche sul terreno concreto delle analisi storiche e l’interpretazione dei suoi scritti non c’è, allora, solo quella profonda distanza che appariva a prima vista, ma anche un rapporto di complementarità. E che le interviste, le conferenze e le lezioni di Foucault vengano trattate, oggi, a tutti gli effetti come «testi» dipende in gran parte proprio dal fatto che in esse egli ha evocato i principi della sua filosofia più spesso, e più esplicitamente, di quanto non abbia fatto nei libri pubblicati.

Un esempio del rapporto complementare fra uso e interpretazione del dettato foucaltiano viene da quei contributi che, nel volume Foucault, oggi, prendono in considerazione il tema della biopolitica, l’attrezzo senza dubbio più diffuso, riprodotto e imitato fra quelli che riempiono la famosa cassetta. Dai saggi di Roberto Esposito, Ottavio Marzocca e Judith Revel emerge come una corretta ricostruzione del pensiero di Foucault serva non tanto a definire un gradiente di fedeltà letterale, quanto piuttosto a delineare un orientamento politico. Particolarmente chiare, in questo senso, le puntualizzazioni di Revel: la dimensione biopolitica non funziona per Foucault come una chiave universale per comprendere l’attualità e non indica neppure uno strato di roccia comune a tutti, la vita biologica della specie, sul quale edificare il proprio sé, la propria singolarità. Ciò che è comune, semmai, dev’essere costruito per Foucault a partire dalla proliferazione delle differenze che si oppongono al riduzionismo biologista: è la costruzione di una pluralità di «modi di vita», intesi come nuclei di resistenza alle forme di assoggettamento dei dispositivi biopolitici, a rappresentare per Foucault la posta in gioco politica di quella che, soprattutto negli ultimi scritti, egli ha insistentemente definito un’«etica». Questa non lascia intravedere il movimento di un ritiro verso la cerchia delle relazioni private, come pure viene spesso sostenuto, ma la produzione di uno spazio comune a partire da un soggetto non invischiato nelle definizioni identitarie, bensì concepito come «forza creatrice».

Un interrogativo sulla democrazia

La dimensione del «noi», scriveva Foucault, non è qualcosa che ci sia stato assegnato preliminarmente, per natura, ma un obiettivo da problematizzare di continuo per renderne possibile la «futura costruzione». E la biopolitica non è il margine entro cui sono confinate le nostre pratiche politiche, ma il limite che occorre oltrepassare per assumere, nei confronti del potere, un atteggiamento «affermativo» e non solo «difensivo».

Il rapporto fra la costruzione del «sé» e del «noi», fra la costituzione autonoma della propria soggettività e la relazione con l’altro, è al centro anche del volume che Vincenzo Sorrentino ha intitolato Il pensiero politico di Foucault (Meltemi, pp. 309, euro 25) e che ricostruisce un intero percorso filosofico a partire dai suoi esiti finali.

Un lavoro di interpretazione, quello di Sorrentino, ma guidato da una interrogazione sulla democrazia che negli scritti di Foucault assegna esemplarità etica anche a figure antiche, come quella greca della parresia: il «parlar franco» del filosofo di fronte al potere, il coraggio della verità che a rischio della vita afferma il diritto della critica come principio di una pratica di libertà. Di qui, secondo Sorrentino, è possibile delineare la visione che l’ultimo Foucault profila dell’individualità, assai diversa da quella atomistica della cultura dominante, e sciogliere dalle ambiguità per quanto possibile la sua filosofia politica, aprendola a usi e prosecuzioni non impugnabili a piacere da ogni parte.

SCRITTI SULL’ARTE Oggetti di uno sguardo non estetico bensì strategico

Gli scritti di Foucault dedicati alla letteratura, quasi tutti degli anni Sessanta, godono oggi di minore attenzione rispetto al resto della sua opera. Un libro di Miriam Iacomini appena uscito per Quodlibet, «Le parole e le immagini» (pp. 286, euro 24), li riconduce in primo piano mettendoli in parallelo con le pagine di Foucault sulla pittura: su Bosch, Goya e Van Gogh in «Storia della follia», su Velazquez in «Le parole e le cose», su Manet in una conferenza pronunciata a Tunisi e su Magritte nel saggio «Questa non è una pipa».

L’arte, in Foucault, è oggetto non di uno sguardo estetico, ma strategico. L’immagine pittorica in particolare, scrive Iacomini, si rivela per lui capace di far emergere alla visibilità le coordinate ontologiche di un’epoca. Per forza esplicativa può essere ricondotta a quel «rapporto sagittale con la propria attualità» che Foucault riferiva a Kant, alla novità di un testo - «Che cos’è Illuminismo?» - nel quale in gioco era appunto una domanda su «ciò che sta succedendo adesso».

Non solo la pittura, ma anche le immagini su cui Foucault lavora per mettere in risalto la discontinuità dei processi storici - la cura settecentesca per l’isteria all’inizio di «Nascita della clinica», il supplizio di Damiens con cui si apre «Sorvegliare e punire» - hanno quell’evidenza «sagittale» che mostra gli strati archeologici su cui è edificato il nostro presente. L’analisi del «calligramma» di Magritte è utilizzata da Iacomini come passaggio per giungere dalla pittura agli scritti di Foucault sulla letteratura, visti come un impulso che alimenta, e in parte orienta, la sua metodologia di lavoro.

La relazione fra gli studi letterari e la fase estrema della filosofia di Foucault è stata già più volte sottolineata, ma Iacomini ne effettua una ricognizione ad ampio raggio facendone risaltare l’irruzione anche in pagine trascurate dei suoi testi maggiori. La funzione di sostegno che garantivano all’elaborazione teorica impedisce forse ai suoi studi su pittura e letteratura di aprire linee di ricerca oggi ulteriormente percorribili. Ma proprio perché compongono l’idioma di Foucault mostrano di essere indizi molto fecondi per una genealogia del suo pensiero.


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