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I soggetti sono due, e tutto è da ripensare ....

DONNE E UOMINI. Il riconoscimento dell’altra metà del cielo e la difesa della modernità, nella ricerca e nella riflessione di ALAIN TOURAINE

(...) il mio libro incita ad andare oltre, non a combattere un dominio in nome di una verità oggettiva o di una volontà collettiva, ma dare per scopo all’azione collettiva la proclamazione della libertà di soggetti creatori e liberatori di se stessi.
sabato 21 ottobre 2006 di Federico La Sala
Alain Touraine è un sociologo militante: Con le Monde des Femmes (Fayard, pagg. 246 Euro 19,00) dice di questo libro: "Da uomo, non avrei mai osato scrivere un libro che tratta direttamente delle donne, se non per mostrare che esse creano una nuova cultura e segnalarne la natura storica e sociale, questo libro è rivolto a quegli uomini che ignorano l’esistenza di donne che si autodefiniscono e che si legittimano tra loro".
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN (...)

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venerdì 3 novembre 2006

Mappe in movimento

Dal lavoro alla cultura, dagli uomini alle donne, attori e conflitti delle società a economia globale. Un incontro con Alain Touraine

di Duccio Zola (il manifesto, 02.11.2006)

Nel 1955, esce in Francia un libro destinato a diventare una pietra miliare della sociologia del lavoro, L’evoluzione del lavoro operaio alla Renault (Rosenberg & Sellier). Lo scrive un giovane ricercatore francese destinato a diventare uno dei più importanti sociologi contemporanei. Oggi, a ottantuno anni, Alain Touraine, direttore di studi dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, conserva intatta la profondità di analisi e la forza polemica che lo accompagnano da più di mezzo secolo. Le sue ricerche coprono tutto l’arco del pensiero sociologico, dal lavoro alla conoscenza, dal mutamento ai movimenti sociali. Nel mezzo, una riflessione trasversale sul soggetto nella modernità, sull’azione collettiva come elemento conflittuale di auto-trasformazione della società, sulla natura della società postindustriale. Tra le sue innumerevoli opere ricordiamo La coscienza operaia (Franco Angeli), La società postindustriale e La produzione della società (Il Mulino), Per la sociologia (Einaudi), Il ritorno dell’attore sociale (Editori Riuniti), Critica della modernità, Libertà, uguaglianza, diversità, Come liberarsi del liberismo (tutti editi dal Saggiatore). Il suo ultimo libro, Le Monde des Femmes, è uscito in Francia a marzo per Fayard. Lo abbiamo incontrato a Cortona, dove ha tenuto la lezione inaugurale del recente convegno su «Cultural Conflicts, Social Movements and New Rights: a European Challenge» organizzato dalla Fondazione Feltrinelli.

Da trenta anni lei studia come cambia l’azione collettiva rispetto alle trasformazioni della società postindustriale. Quali sono le caratteristiche che contraddistinguono i movimenti sociali contemporanei?

Partiamo dalla mia definizione di movimento sociale, un conflitto tra attori sociali organizzati sull’utilizzazione di risorse simboliche o materiali - modi di produzione, categorie di analisi e di rappresentazione, norme di comportamento - che entrambi gli attori valorizzano. Questa definizione comprende il riferimento da parte dei due avversari agli stessi valori culturali. L’esempio che porto più spesso è quello del conflitto tra datori di lavoro e salariati per l’utilizzo dei beni prodotti in una società industriale, i cui grandi valori - razionalizzazione, lavoro, progresso, differimento della gratificazione - sono condivisi dalle due parti. Oggi però viene a mancare proprio questa posta in gioco comune tra i contendenti, perché il contesto culturale della globalizzazione, è caratterizzato da una «caduta del sociale», cioè da un indebolimento, e talvolta da una scomparsa, delle mediazioni e delle appartenenze sociali. Ecco da dove viene la crisi della famiglia, della scuola o della religione. In questo quadro, si frantuma il modello della società industriale in cui la conflittualità tra classi socio-economiche occupava il posto centrale, e per i movimenti collettivi di oggi si pone il problema di trovare un terreno comune dove possa svilupparsi il conflitto. Il rischio, altrimenti, è lo scontro tra posizioni opposte, come quelle di chi chiede una completa integrazione degli immigrati, e quelle di chi difende l’affermazione di un’identità comunitaria. E’ chiaro che non c’è scelta possibile fra una disintegrazione carica di violenza e un’integrazione che equivarrebbe a una totale assimilazione. Allo stesso modo, non è concepibile una società formata solo da una rete di attori locali, ma neanche la creazione di una società mondiale. In entrambi i casi, la contraddizione prende il posto del conflitto e le parti restano rinchiuse in un «tutto o niente» che le condanna all’immobilità.

Quale deve essere allora il terreno di azione e di conflitto dei movimenti se vogliono essere all’altezza dei problemi posti dalla globalizzazione, e quali attori collettivi sono in grado di portarlo alla luce?

Oggi sono possibili diversi tipi di azione collettiva che si sovrappongono o prendono il posto dei movimenti sociali «classici», come quello operaio. Da una parte ci sono quei movimenti che agiscono nel segno dell’«ambivalenza». Il concetto di ambivalenza è centrale per definire il modello dei rapporti e dei conflitti nella nostra società, perché implica la ricerca di una combinazione di esigenze opposte. Questo porta a una parziale frustrazione dovuta alla limitazione delle soddisfazioni che si possono ottenere da entrambe le parti.

Riprendendo l’esempio dell’immigrazione, l’unica soluzione sta nel combinare il meglio possibile autonomia e integrazione, cioè il riconoscimento dell’altro, della sua identità, e la ricerca degli elementi comuni a tutte le rivendicazioni. Questa soluzione è positiva solo se tiene in vita il conflitto, se la tensione tra i due orientamenti resta forte ed entrambi gli avversari sono in parte feriti. Non è certo uno strumento di pace sociale, ma questa è oggi una maniera di contribuire alla formazione dei movimenti sociali, oltre quelli classici.

Poi c’è il movimento che più mi interessa, quello delle donne. Esso porta a una radicale trasformazione del campo culturale, una vera e propria creazione del contesto conflittuale, che viene così sottratto ai gruppi dominanti: le donne, come attrici collettive, creano la posta in gioco e il campo culturale del conflitto con altri attori sociali. Di fronte alla globalizzazione, che per me è capitalismo estremo, separazione dell’economia da ogni forma di controllo sociale, le donne affermano positivamente la propria identità e le proprie rivendicazioni. In altre parole, costruiscono sé stesse, riparano ciò che è stato smembrato dalla globalizzazione, dall’esposizione alla deriva delle forze del mercato. Ho lavorato con molte donne francesi e musulmane, tutte hanno una coscienza positiva della loro identità, si definiscono donne e non vittime anche se molte hanno subito violenze o ingiustizie.

Se la globalizzazione ci priva delle appartenenze e delle mediazioni sociali e ci lascia in balia di un mercato senza regole, come possono prodursi e svilupparsi le lotte collettive?

Prima di tutto occorre definire il campo in cui si producono i più grandi cambiamenti e i conflitti più gravi. In una società industriale questo campo era il lavoro. Oggi i problemi culturali stanno diventando centrali. Il lavoro prende una forma negativa, segnala una perdita di senso. In altre parole, il lavoro non è più la categoria principale, mentre è il non lavoro ad acquistare un’importanza sociale e politica considerevole. Questo si deve al fatto che la modernità produce un processo di individuazione sempre più marcato, cioè la possibilità di ogni individuo di non lasciarsi più definire da categorie ascrittive, come l’appartenenza di classe. L’individuazione si concretizza nella presa di coscienza di un individuo che vuole essere tale e ne reclama il diritto. Il concetto di individualismo, che storicamente appartiene al vocabolario della destra, acquista nella mia concezione un significato e un valore di sinistra. Il punto da sottolineare è che questi diritti individuali, si ottengono solo con le lotte collettive: diritti individuali e movimenti sociali rappresentano due facce della stessa medaglia. Inoltre le lotte per il riconoscimento dei diritti conferiscono una dimensione universalista, estendibile a tutti, all’azione collettiva. Ogni movimento sociale appare come rivendicazione di diritti politici, sociali o culturali che devono essere conquistati da tutti. Questo richiamo sta al centro delle dichiarazioni francese e americana della fine del XVIII secolo.


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