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ITALIA: 19 luglio 1992 ...

GIOVANNI FALCONE, PAOLO BORSELLINO, ANTONINO CAPONNETTO. UN URLO PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE

giovedì 19 luglio 2007 di Federico La Sala
"C’è un equivoco di fondo.
Si dice che il politico che ha avuto frequentazioni mafiose,
se non viene giudicato colpevole dalla magistratura,
è un uomo onesto.
No!
La magistratura può fare solo accertamenti di carattere giudiziale.
Le istituzioni hanno il dovere di estromettere gli uomini politici vicini alla mafia,
per essere oneste e apparire tali"
(Paolo Borsellino, "Lezione sulla mafia", 1989)
L’ITALIA HA TROVATO IL SUO LOGOPEDISTA "COSTITUZIONALE"!!! CHE PACIFICAZIONE!!! (...)

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> PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE --- Tra mafia e politica un progetto segreto. Secondo l’ultima ricostruzione della Procura di Caltanissetta, la fretta di eliminare Borsellino derivò dal fatto che il giudice era venuto a sapere dei contatti tra lo Stato e la mafia.

venerdì 9 marzo 2012

La trattativa, il pianto. Così Borsellino diventò un ostacolo

Borsellino pianse: tradito da un amico

di Giovanni Bianconi (Corriere della Sera, 09.03.2012)

Secondo l’ultima ricostruzione della Procura di Caltanissetta, la fretta di eliminare Borsellino derivò dal fatto che il giudice era venuto a sapere dei contatti tra lo Stato e la mafia. Due magistrati a lui vicini lo videro piangere poche settimane prima dell’attentato. «Non posso pensare che un amico mi abbia tradito», disse Borsellino.

CALTANISSETTA - La fine adesso è nota: «Sia nel luglio del 1992, sia nell’anno 1993, la strategia di Cosa nostra è stata quella di trattare con lo Stato attraverso l’esecuzione di plurime stragi che hanno trasformato la trattativa in un vero e proprio ricatto alle istituzioni». Ricatto che ha prodotto i suoi effetti: «Alcuni significativi risultati Cosa nostra li ha ottenuti se si considera che l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario (il carcere duro per i mafiosi, ndr) è stato di fatto depotenziato». I detenuti sottoposti al regime restrittivo si ridussero, in poco più di un anno, di circa due terzi. Poi è cominciata una nuova stagione politica.

La premura

Dall’ultima ricostruzione della Procura di Caltanissetta sulla bomba che il 19 luglio 1992 uccise Paolo Borsellino, emerge in maniera nitida come gli attentati mafiosi abbiano accompagnato - parallelamente all’inchiesta milanese Mani Pulite - il trapasso dalla prima alla seconda Repubblica. Attraverso un ricatto che prese le mosse quando si decise di eliminare il nemico giurato Giovanni Falcone non a Roma, con qualche colpo di pistola, ma facendo saltare in aria un pezzo di autostrada a Capaci, in Sicilia, nel regno di Cosa nostra. Nemmeno due mesi dopo l’altro attentato, oggi catalogato come «terroristico»: la morte di Paolo Borsellino che trasforma Palermo in un quartiere di Beirut al tempo della guerra. Eliminazione programmata da tempo, ma anticipata con una «premura incredibile», hanno rivelato alcuni pentiti. Perché erano in gioco altri interessi: «La tempistica della strage è stata certamente influenzata dall’esistenza e dalla evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa nostra», scrivono i pubblici ministeri nell’atto d’accusa che conclude quasi quattro anni di indagini nate dalle rilevazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza.

Le istituzioni coinvolte

La fretta di eliminare Borsellino derivò dal fatto che il magistrato, procuratore aggiunto di Palermo, era venuto a sapere dei contatti tra i carabinieri del Ros, guidati dall’allora colonnello Mario Mori, e l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. Contatti diretti alla cattura dei latitanti, secondo gli investigatori dell’Arma, che però Cosa nostra percepì come occasione per imporre patti e condizioni: «Nella ricostruzione del generale Mori non convince l’ostinata negazione di una trattativa che invece è nelle stesse sue parole descrittive degli incontri con Ciancimino. Per Cosa nostra era certamente una trattativa», accusano i pm nisseni per i quali Mori, il suo superiore generale Subranni e il capitano De Donno che l’accompagnava negli incontri con l’ex sindaco «sono soltanto il livello statuale più basso di questa trattativa. Altri soggetti, politici, vi hanno verosimilmente partecipato anche dopo il 1992. Questa trattativa si svolse a più riprese e iniziò prima della strage di via D’Amelio». È il punto di svolta della nuova indagine. Borsellino scoprì i contatti tra la mafia e altri rappresentanti dello Stato, schierati ufficialmente al suo fianco.

«Tradito da un amico»

Due magistrati, Alessandra Camassa e Massimo Russo, un giorno di fine giugno lo videro piangere. «Essendo un uomo all’antica non l’aveva mai fatto - ha testimoniato Camassa -. Ricordo che Paolo, anche questo era insolito, si distese sul divano, e mentre gli sgorgavano delle lacrime dagli occhi disse: "Non posso pensare che un amico mi abbia tradito"». Non disse chi fosse quell’amico, né accennò a trattative. Ma la vedova del giudice ha raccontato che il marito, legato al generale Subranni, le confidò di essere sconvolto dopo aver saputo di sue presunte collusioni con la mafia. E le aveva testualmente riferito che «c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato».

Borsellino venne a sapere dei contatti tra i carabinieri e Ciancimino il 28 giugno ’92. Glielo disse la sua amica magistrata Liliana Ferraro, non gli ufficiali coi quali stava collaborando. Tre giorni dopo, al Viminale, vide il neo-ministro dell’Interno Nicola Mancino, in un fugace incontro che Mancino continua a non ricordare. Ma quanto riferito dall’ex ministro, secondo la Procura di Caltanissetta, «appare illogico e non verosimile... V’è da chiedersi se il senatore Mancino sia vittima di una grave amnesia, ovvero sia stato indotto a negare un banale scambio di convenevoli per il timore di essere coinvolto, a suo avviso ingiustamente, nelle indagini. Non si può tuttavia negare che residua la possibilità teorica che egli possa aver mentito "perché ha qualcosa da nascondere"».

Ostacolo da eliminare

La conclusione è che pur essendosi raccolti nuovi e importanti elementi circa ombre inquietanti di apparati infedeli dello Stato», non sono state individuate ipotetiche «responsabilità penali». Tuttavia, «in quel momento storico ben era possibile una trattativa con Cosa nostra, e molteplici erano le figure, anche istituzionali, che giocavano partite complesse e spregiudicate con incursioni anche nel campo avverso».

In ogni caso, «si è raggiunta la certezza che Borsellino sapesse delle trattative in corso, e che la sua posizione era, chiaramente, negativa». Di qui la «premura» con cui Totò Riina decise di farlo fuori, giacché «era d’ostacolo alla loro riuscita». L’attentato all’ex ministro democristiano Calogero Mannino fu rinviato, e accelerato quello contro il giudice. Conclusione: «È possibile sia che la decisione di anticipare l’uccisione di Borsellino avesse, da parte di Cosa nostra, lo scopo di punire chi si opponeva alla trattativa, sia anche di riprendere la stessa da posizioni di maggiore vigore».

Dopo la strage di via D’Amelio si apre una nuova fase della trattativa, «in cui a poco a poco Riina da soggetto diventa oggetto della stessa». E si arriva alla cattura del boss, nel gennaio 1993. Da quel momento comincia un tira-e-molla sul 41 bis, inframmezzato dalle stragi sul continente: a Firenze e contro Maurizio Costanzo a maggio, a Roma e Milano a luglio. Proprio mentre i rinnovati vertici dell’amministrazione penitenziaria discutevano su come lanciare «segnali di distensione» sul «carcere duro».

Emergono «riserve» e prese di distanza che, accusano i procuratori, «offrono un quadro desolante del fronte antimafia a meno di un anno dalle stragi del ’92 e contemporaneamente alle nuove stragi continentali». E ancora: «Rimane accertato un quadro certamente fosco di quel periodo della vita democratica di questo Paese... Che poi vi fosse una diffusa "stanchezza" della politica per le iniziative legislative antimafia adottate negli anni 1990-92, purtroppo è parimenti certo. Stanchezza che lambirà, nei mesi successivi, anche il ministero retto dal senatore Mancino». Senza che ciò comporti, ribadiscono i pm fin quasi alla noia, «alcun tipo di responsabilità personale».

Il «frutto avvelenato»

In questo quadro si arriva alla decisione dell’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, tra ottobre e novembre 1993, di non rinnovare oltre 300 decreti di «carcere duro». Decisione presa nel tentativo di «fermare le stragi», che il ministro dice di aver adottato «in assoluta solitudine»: affermazione «in contrasto con tutti gli altri elementi documentali acquisiti al procedimento», visti i documenti dell’amministrazione penitenziaria che da mesi suggerivano scelte di quel tipo.

«C’è da chiedersi se non sia stato il prezzo della trattativa pagato dallo Stato», sottolinea la Procura, e alla domanda «può rispondersi positivamente... La cosiddetta trattativa, iniziata nel 1992, trova compimento e dà il suo frutto avvelenato nel 1993». Ma tutto questo, con la strage di via D’Amelio, non c’entra più. È solo l’estensione di un possibile movente, che continuerà a produrre i suoi effetti anche nei mesi successivi. Quando il giudice Borsellino è morto da tempo. Celebrato e tradito al tempo stesso, accusano i magistrati che a vent’anni dall’eccidio ritengono di aver scoperto un altro pezzo di verità nascosta.

Giovanni Bianconi



-- Tra mafia e politica un progetto segreto

di Francesco La Licata (La Stampa, 09.03.2012)

La nostra storia recente si caratterizza per l’assoluto deficit di verità nelle indagini sui più eclatanti e dolorosi lutti nazionali. Una procura non ha ancora finito di indagare (addirittura con la riesumazione del cadavere) sulla controversa morte (1950) di Salvatore Giuliano, la stessa ha riaperto - dopo averla chiusa con scarsi risultati - l’inchiesta sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro (1970). Ben due uffici giudiziari importanti - Palermo e Caltanissetta - puntano da anni le rispettive lenti di ingrandimento su quel «quadro certamente fosco», per usare le parole degli stessi magistrati indagatori, che è venuto fuori nell’ambito delle vicende dello stragismo mafioso dipanatesi tra il 1989 e il 1994: dall’attentato fallito all’Addaura contro il giudice Giovanni Falcone alle «mattanze» di Roma, Firenze e Milano (1993), passando per gli eccidi di Capaci e via D’Amelio e il torbido assassinio dell’eurodeputato Salvo Lima.

Ieri sono stati inchiodati alle loro responsabilità alcuni dei protagonisti dell’enorme depistaggio costruito per sabotare le inchieste sulla strage che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e ai cinque poliziotti che lo scortavano. Un successo reso possibile dal non preventivato pentimento di Gaspare Spatuzza, inaspettatamente disponibile a rispondere alle domande del procuratore Piero Grasso. Non si potrebbe che essere soddisfatti di un tal traguardo, se non fosse arrivato a vent’anni dalla strage e non si avesse la certezza che tutto quel tempo è stato sprecato ad inseguire false verità e falsi pentiti per precise responsabilità istituzionali degli apparati preposti alle indagini.

Davvero per vent’anni non è stato possibile disvelare la tragica «truffa» inscenata dai falsi collaboratori Scarantino e Candura? Davvero in vent’anni non è venuto in mente a nessuno di verificare le deposizioni dei due che si accusavano del furto della «126 bomba»? E soprattutto: se Spatuzza non si fosse deciso a parlare a che punto sarebbe la «verità» sulle stragi?

Ma queste potrebbero esser considerate recriminazioni sterili e persino ingenerose, specialmente nei confronti di chi ha lavorato per recuperare sul passato. Partiamo, dunque, dalle «novità confortanti», ma ancora debilitate dalle precisazioni dei magistrati che le inquadrano non come un punto d’arrivo ma come un punto di partenza, proprio alla vigilia della sentenza della Cassazione sul sen. Marcello Dell’Utri, coprotagonista del possibile seguito della storia, quella che riguarda le indagini sulla nascita del berlusconismo e della «Seconda Repubblica».

L’inizio, insomma, di una ennesima «telenovela» che si appalesa tra le diversità di vedute di due procure. Da un lato Caltanissetta, più propensa a «chiudere» l’inchiesta nell’ambito di responsabilità criminali dove si intravede la presenza politico-istituzionale ma senza il coinvolgimento e la collusione. Come dire: la politica ha favorito la cosiddetta trattativa ma senza sporcarsi le mani. Dall’altro Palermo che, invece, ha già indagato più di un parlamentare, nella ipotesi accusatoria che descrive la classe dirigente impegnata a fermare l’aggressione di Cosa nostra «in ogni modo» e con l’obiettivo di salvare la pelle a quei politici entrati nel mirino di Totò Riina dopo l’assassinio di Salvo Lima.

E, dunque, sembra trovare credito l’interpretazione che a suo tempo costò, invece, al procuratore Grasso più di una critica, quando sottolineò la coincidenza temporale fra l’inizio della «trattativa» e la sospensione dei progetti omicidiari in danno di alcuni uomini politici, siciliani e non. E sembra sensata l’interpretazione che, ancora Grasso, offre della trattativa tra Stato e mafia. Dice il magistrato che l’elemento di novità della nuove indagini sta nella possibilità di inquadrare i contatti tra politici e mafia non più nella ricerca del semplice scambio di favori per i detenuti, ma in un vero e proprio progetto tenuto in vita per impedire un traumatico cambio epocale negli assetti politico finanziari del Paese, già messi a dura prova dallo tsunami provocato dalle inchieste di Milano sulla corruzione.

Grasso parla di una vera e propria «strategia della tensione che non ha mai abbandonato l’Italia, una sorta di estorsione nei confronti delle istituzioni», perché «in quegli anni c’era il pericolo di mutamenti politici non graditi». Parole gravi, anche per la competenza e la riconosciuta serietà di chi le ha pronunciate. Per questo sarebbe utile che, per una volta, si rinunciasse alle reazioni esagitate, buone solo a confondere perché tutto rimanga immutato, per inaugurare un percorso di serena collaborazione alla ricerca di una verità passata, senza la quale il futuro potrebbe restare incompiuto. E se la magistratura dovesse esser costretta a fermarsi per inadeguatezza della via giudiziaria, dovrebbe essere il Parlamento ad intestarsi il proseguimento della ricerca di ricostruzione di un contesto che fu anche di natura politica.


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