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TERRA!!! TERRA!!! PIANETA TERRA: FILOLOGIA E ’DENDROLOGIA’ (gr.: "déndron" - albero e "lògos" - studio/scienza). L’ALBERO DELLA VITA ...

RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE (2005). Una "memoria" - di Federico La Sala.

(...) il “nuovo mondo” che abbiamo costruito dimostra quanto presto abbiamo dimenticato la ‘lezione’ delle foreste, dei mari, dei deserti, e dei fiumi e delle montagne!!!
domenica 14 aprile 2024
Secondo quanto suggerisce Vitruvio (De architectura, 2,1,3) la struttura del tempio greco trasse la sua origine da primitivi edifici in argilla e travi di legno (Wikipedia)
IL SEGRETO DI ULISSE: "[...] v’è un grande segreto /nel letto lavorato con arte; lo costruii io stesso, non altri./ Nel recinto cresceva un ulivo dalle foglie sottili,/rigoglioso, fiorente: come una colonna era grosso./Intorno ad esso feci il mio talamo [...]"
(Odissea, Libro XXIII, vv. 188-192).
EUROPA. PER IL (...)

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> RIPENSARE L’EUROPA!!! --- Una Ue che non ha più certezze. E i welfare state davanti a una scelta ineludibile. Note di V. Visco e di Hans W. Sinn.

sabato 30 gennaio 2016

Una Ue che non ha più certezze

di Vincenzo Visco (Il Sole-24 Ore, 29.01.2016)

Il 2016 si prospetta come un anno molto complicato per l’Europa che può vedere compromessa la sua stessa esistenza. Le difficoltà economiche permangono e la crescita risulta debole e a rischio; le crisi bancarie in Portogallo, ma soprattutto in Italia, possono far precipitare l’Unione in una crisi anche più grave che nel 2011. Il fatto che si esiti ad affrontarle con misure adeguate alimenta gli istinti speculativi dei mercati. Da questo punto di vista la decisione della Commissione di bloccare la bad bank italiana è semplicemente irresponsabile.

Il rischio che il referendum britannico sulla permanenza nella Comunità possa avere un esito negativo è reale e, al momento attuale, crescente. La eventuale uscita del Regno Unito potrebbe determinare un effetto domino micidiale: la Scozia potrebbe ribadire la sua volontà di restare nella Comunità e quindi dichiarare la propria indipendenza; uscita l’Inghilterra, anche i Paesi del nord avrebbero minori ragioni per una loro permanenza. Le spinte secessionistiche in altri Paesi (Spagna, ma non solo) potrebbero rafforzarsi. Ila Brexit inoltre diventerebbe più probabile se si prospettasse un’altra crisi greca, evento del tutto possibile dal momento che il programma imposto al Paese è apparso fin dall’inizio di difficilissima, se non impossibile, realizzazione e di improbabile successo.

A questa situazione va ancora aggiunta la violazione di fondamentali regole democratiche da parte di alcuni Paesi europei: l’Ungheria di Orban (ormai da diversi anni, senza nessuna reazione da parte della Commissione e dei Paesi leader), e più recentemente la Polonia di Kaczynski, nei confronti della quale le reazioni sembrano esserci e saranno fonte di conflitto. Ambedue i governi, comunque, sono fortemente euroscettici.

Altri Paesi come l’Austria e la Danimarca sono stati indotti dalla pressione delle opinioni pubbliche ad assumere posizioni radicali nella gestione del problema della immigrazione.

In sostanza l’Europa appare sempre più balcanizzata, percorsa da spinte nazionalistiche sempre più forti, e incapace di ogni reazione.

I partiti più radicali di destra e di sinistra conquistano spazio in tutti i Paesi: dalla Francia, dove solo un sistema elettorale che consente di escludere il 25 o più per cento del corpo elettorale, e che comincia giustamente ad essere posto in discussione, ha evitato che si materializzasse il successo del Fronte popolare, alla Spagna (ancora in cerca di un governo), al Portogallo.

All’origine di questo disastro vi sono due fattori principali: la crisi economica e il fenomeno dell’immigrazione. La crisi del 2007 ha avuto dimensioni epocali e, come quella del 1929, rischia di avre conseguenze politiche devastanti in Europa dove la leadership tedesca ha imposto una terapia insensata, ispirata agli interessi di breve periodo della Germania, ma assolutamente iatrogena per tutti gli altri, che ha spinto le economie del continente a divergere sempri di più e a scaricare sui ceti più deboli tutto il costo dell’aggiustamento, creando insicurezza, paura e risentimento, e anche mettendo a rischio la ripresa mondiale affidata solo agli sforzi degli Stati Uniti. La pervicacia con cui il ministero delle Finanze tedesco e la Bundesbank continuano a portare avanti la loro linea incuranti delle macerie materiali e morali che essa ha provocato fa temere che in verità i gruppi dirigenti tedeschi (o una loro parte) abbiano già deciso di considerare chiusa l’esperienza dell’euro se non della stessa Unione.

Per quanto riguarda l’immigrazione la minaccia di una vera e propria invasione dal sud è reale, così come sono fondate le preoccupazioni delle popolazioni europee. Tuttavia il problema non è gestibile con recinzioni e respingimenti. Si tratta infatti di oltre 20 milioni di potenziali migranti, di disperati che dal Medioriente e dall’Africa fuggono da guerre, carestie, desertificazioni, collasso degli Stati, violenze gratuite. Solo un intervento coordinato, non solo dell’Europa, ma della comunità internazionale, orientato sia a ristabilire la pace, sia a fornire generose erogazioni tipo piano Marshall, possono darci la speranza di non essere invasi e travolti in un modo o nell’altro, in tempi non brevissimi.

Stando così le cose, è evidente che ciò che manca è la politica. Sarebbe necessaria una iniziativa di alto livello e ad ampio ragio che fosse in grado di affrontare sia la questione economica che quella dell’immigrazione. È anche evidente che la guida dell’iniziativa non potrebbe che essere degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite, ma gran parte dei costi dovrebbe essere affrontata dall’Europa che sarebbe il beneficiario principale dell’operazione.

Sarebbe quindi opportuno che questi problemi venissero per lo meno posti formalmente sul tappeto nella loro interezza ed esplicitandone il collegamento. Nella situazione attuale le polemiche, le punture di spillo che si scambiano i protagonisti della politica europea servono veramente a poco.


L’ondata migratoria mette sempre più in crisi i sistemi di welfare degli Stati Ue

Se il magnete sociale non funziona

di Hans Werner Sinn (Il Sole-24 Ore, 29.01.2016)

Il conflitto armato che sta destabilizzando alcuni paesi arabi ha messo in moto un’enorme ondata di rifugiati diretti per lo più in Europa. Nella sola Germania nel 2015 ne sono arrivati circa 1,1 milioni. Al contempo, l’adozione del principio di libertà di circolazione all’interno dell’Europa ha innescato flussi migratori inter-europei di massa, che passano inosservati e dei quali per lo più non ci si occupa. Nel 2014 la Germania ha conosciuto un saldo migratorio netto con l’Ue di 304mila persone provenienti da altri paesi dell’Unione, fatto senza precedenti, e questa cifra, probabilmente, è stata assai simile anche nel 2015.

Alcuni stati membri dell’Ue - tra i quali Austria, Ungheria, Slovenia, Spagna, Francia e altri paesi che in un primo tempo si erano mostrati particolarmente accoglienti, come Danimarca e Svezia - hanno reagito sospendendo di fatto gli Accordi di Schengen e ripristinando i controlli alle frontiere. Gli economisti non si stupiscono poi tanto di ciò. Negli anni Novanta, decine di studi accademici avevano affrontato proprio la questione delle migrazioni negli stati che offrono welfare e prestazioni sociali, evocando molti dei problemi che ormai si vanno chiaramente palesando. Io stesso all’epoca ho scritto molto su questo argomento, cercando, per lo più inutilmente, di aumentare la consapevolezza nei confronti di questo problema tra i politici.

In gioco c’è una questione fondamentale. I welfare state sono definiti dal principio di redistribuzione: coloro che godono di entrate superiori alla media pagano più imposte e contributi rispetto a ciò che ricevono indietro sotto forma di servizi pubblici, mentre coloro che hanno entrate inferiori alla media pagano meno di quanto ricevono. Questa redistribuzione, che drena le risorse pubbliche nette per convogliarle verso nuclei famigliari a reddito più basso, costituisce una correzione sensibile all’economia di mercato, una sorta di assicurazione contro le vicissitudini della vita e la dura legge del prezzo della rarità, che caratterizza l’economia di mercato e ha poco a che fare con la giustizia sociale

I welfare state sono essenzialmente incompatibili con la libera circolazione dei popoli tra i paesi se i nuovi arrivati hanno un accesso immediato e totale alle prestazioni sociali nei paesi che li ospitano. Qualora ciò accadesse, i paesi che li accolgono fungono da welfare magnet (calamite sociali), e possono attirare molti più migranti di quanti sarebbe economicamente consigliabile accogliere, perché i nuovi arrivati ricevono, oltre ai salari, una sovvenzione sotto forma di bonifici. Soltanto se i migranti ricevono unicamente i salari ci si può aspettare un’auto-regolamentazione efficiente del fenomeno migratorio.

Il primo ministro britannico David Cameron ha tratto una legittima conclusione da tutto ciò: il fenomeno del magnetismo sociale non porta soltanto a un’inefficiente distribuzione geografica delle persone, ma per di più erode e nuoce anche alle capacità dello stato che eroga prestazioni sociali. Ecco il motivo per il quale Cameron dichiara di avere il diritto di fissare un limite al principio di integrazione, che si dovrebbe applicare perfino per i migranti economici intra-europei. Dice Cameron che anche nel caso in cui i migranti trovassero un lavoro, soltanto dopo quattro anni dovrebbero avere accesso alle prestazioni sociali offerte dal welfare finanziato dalle entrate fiscali. Ora come ora, un periodo sostanziale di attesa è previsto e in vigore unicamente per i cittadini dell’Ue che migrano per motivi di lavoro e che devono risiedere nel Regno Unito cinque anni prima di conquistare il pieno accesso alle prestazioni sociali pubbliche.

La proposta non si tradurrà necessariamente in una maggiore severità nei confronti dei migranti dall’Ue: essa implica semplicemente che, a prescindere dal tipo di aiuto di cui possono aver bisogno nell’arco dei primi quattro anni, essi dovranno riceverlo dal paese di provenienza. Indubbiamente ci sarebbe molto da dire a favore del mantenimento temporaneo del principio dell’addebito delle spese al paese d’origine, e sulla traduzione di questa disposizione nelle regole dell’Ue: il paese d’origine di un migrante dovrebbe continuare a essere responsabile nei suoi confronti e a fornirgli prestazioni sociali per un certo numero di anni, fino a quando non si potrà applicare il principio di integrazione.

È difficile comprendere perché, per esempio, un tedesco che non può lavorare e usufruisce del welfare tedesco debba essere preso in carico dallo stato spagnolo qualora decida di vivere a Maiorca. E sarebbe altrettanto poco plausibile negare a questa stessa persona il diritto di scegliere il luogo nel quale eleggere il proprio domicilio a suo piacimento soltanto per tutelare lo stato spagnolo. Se intendiamo prendere sul serio il principio della libertà di circolazione delle persone, dovremmo deciderci una volta per tutte a immolare la vacca sacra dell’eleggibilità immediata ai sussidi e alle prestazioni sociali elargite dallo stato ospite.

Quanto detto, naturalmente, non vale per i migranti economici provenienti dai paesi extra-Ue, e ancor meno per i rifugiati, perché in generale il principio del paese d’origine in questi casi è inapplicabile. Ma, per le stesse motivazioni sopra evidenziate, questi migranti non possono essere integrati a centinaia di migliaia nel welfare state senza mettere a repentaglio la vivibilità dell’intero sistema.

In conclusione, sarebbe necessario sostituire al sistema dei sussidi di disoccupazione che prevale oggi, applicabile agli aventi diritto quando costoro restano senza posto di lavoro, un sistema che proponga e offra integrazioni salariali e lavoro a favore della comunità. Ciò consentirebbe di abbassare le spese nette delle prestazioni sociali e di ridurre gli incentivi a migrare. Andrea Nahles, ministro del lavoro tedesco, di recente ha suggerito proprio questo, difendendo ciò che i tedeschi chiamano il concetto del “posto di lavoro a un euro”, che in pratica converte il contributo sociale in un salario.

Si tratta di un consiglio sensato in un contesto per altro estremamente caotico. Se si manterrà la libertà di circolazione all’interno dell’Europa - e se proseguiranno gli afflussi di cittadini extra-Ue - i welfare state europei si troveranno davanti a una scelta ineludibile: adattarsi o soccombere.
-  (Traduzione di Anna Bissanti)


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