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RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE (2005). Una "memoria" - di Federico La Sala.

(...) il “nuovo mondo” che abbiamo costruito dimostra quanto presto abbiamo dimenticato la ‘lezione’ delle foreste, dei mari, dei deserti, e dei fiumi e delle montagne!!!
domenica 14 aprile 2024
Secondo quanto suggerisce Vitruvio (De architectura, 2,1,3) la struttura del tempio greco trasse la sua origine da primitivi edifici in argilla e travi di legno (Wikipedia)
IL SEGRETO DI ULISSE: "[...] v’è un grande segreto /nel letto lavorato con arte; lo costruii io stesso, non altri./ Nel recinto cresceva un ulivo dalle foglie sottili,/rigoglioso, fiorente: come una colonna era grosso./Intorno ad esso feci il mio talamo [...]"
(Odissea, Libro XXIII, vv. 188-192).
EUROPA. PER IL (...)

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> RIPENSARE L’EUROPA!!! - “Moniti all’Europa”. Quando Thomas Mann non salvò la democrazia (di Massimo Cacciari).

martedì 14 novembre 2017

Considerazioni di un politico. Quando Thomas Mann non salvò la democrazia

Tornano, con un saggio di Giorgio Napolitano, i “Moniti all’Europa” del grande scrittore tedesco.

Orazioni civili per fermare la caduta di Weimar.

di Massimo Cacciari (la Repubblica, 13 novembre 2017)

Documento storico di eccezionale importanza per la comprensione del “suicidio” politico d’Europa tra le due Guerre, delle ragioni dell’affermazione e del destino del regime nazista, della crisi di civiltà di cui esso fu espressione, ma ancora testimonianza dell’amore consapevole e tormentato di un grande intellettuale europeo per la sua patria, mai tanto amata quanto nell’angoscia di doverla abbandonare e, anzi, nel doverne auspicare la tragica disfatta.

Tutto questo significano i discorsi e i saggi politici di Thomas Mann, che Mondadori presentò ai lettori italiani nel 1947, con il titolo “Moniti all’Europa”, e che ora riedita con una introduzione di Giorgio Napolitano, che è un monito per noi, per il nostro presente, e, a sua volta, testimonianza di una straordinaria esperienza culturale, politica e umana, segnata da drammatici interrogativi e amare inquietudini. Questo “dialogo” tra due coscienze apparentemente lontanissime, ma in realtà e nel profondo amiche sia nel disincanto che nella speranza sul futuro d’Europa, rende il libro davvero necessario.

Nessuno potrà mai comprendere il dramma del dopoguerra tedesco e la crisi della Repubblica di Weimar, già immanente all’atto della sua fondazione, se non mediterà sul grande discorso Della repubblica tedesca tenuto da Mann a Berlino nell’ottobre del 1922. Gli sta alla pari forse soltanto quello di Max Weber agli studenti di Monaco durante la rivoluzione del ’18. È l’appello alla ragione, al realismo politico, alla sobrietà del discorso contro l’attivismo tumultuoso e impaziente; è l’appello alla forma contro l’impeto della vita che vorrebbe non riconoscere altro ordine, altro limite che quelli dell’espressione della propria potenza. In Weber parla la responsabilità politica, della politica come alta vocazione.

In Mann, che è trascinato nell’agone politico dalla guerra, che è costretto alla politica dalle tragedie dell’epoca, parla quella che per lui è la fondamentale tradizione, l’eredità del pensiero tedesco, la cui catastrofe coinciderebbe con la rovina della stessa Germania. Di fronte a entrambi i giovani - giovani che non li comprendono, estranei al loro linguaggio.

Il discorso di Mann è continuamente interrotto. A leggerlo si rivive un autentico dialogo tragico. Quale sofferenza maggiore di quella di uno scrittore, di un poeta che si ritiene e si vuole profonda espressione della propria terra, il quale si scopre senza figli, vede sterile la propria arte, e proprio a conclusione di un immane conflitto in cui egli si era schierato per la vittoria tedesca in quanto vittoria dello spirito e della cultura contro le potenze impersonali, sradicate, puramente tecnico- economiche della civilizzazione? Eppure dalla sofferenza occorre imparare. La prospettiva delle Considerazioni di un impolitico del 1918, le idee anti-politiche e anti-democratiche di quell’opera, alimenterebbero ora soltanto spiriti reazionari, nazionalismi esasperati e impotenti. Tuttavia Mann non abiura, «io non revoco niente. Non ritratto nulla di essenziale».

Questo punto è di fondamentale importanza. Esso segna la grande differenza del poeta tedesco con un altro intellettuale europeo che per tanti versi potrebbe apparirgli affine (e tale affinità certamente avverte Giorgio Napolitano), Benedetto Croce. Croce è del tutto estraneo alla temperie ideologica delle Considerazioni. Mann “emerge” dal loro crogiuolo infuocato e continua a portarne in sé tutti i “veleni”. Mann si è formato in Schopenhauer, in Nietzsche, in Wagner; il suo Goethe era il Goethe di costoro. Non li potrà mai abbandonare, ma re-interpretare e rivivere soltanto. Croce sembra invece ignorare la radicalità della crisi del pensiero europeo a cavallo del secolo; per lui non si tratta che di un tragico intervallo irrazionalistico in quella storia dell’affermazione dell’idea di libertà che è «la luce e l’anima dell’Occidente»( Mann).

Mann ne riconosce, invece, la necessità storica; le voci che l’hanno agitata né possono né debbono venire dimenticate. Esse esprimono una verità - ma questa deve essere diversamente ascoltata. È l’impervia impresa che egli tenta nel discorso Della repubblica tedesca di fronte a vecchi maestri e politici dotati di antica temperanza e misura, come “babbo” Ebert e Gerhart Hauptmann, ”il poeta pietoso”, e ai continui segni di disapprovazione della gioventù studentesca. Forse che Romantico significa semplicemente simpatia per la notte e la morte, per l’aorgico e il dionisiaco?

Non sono forse i suoi grandi poeti, invece, a esaltare la personalità della propria patria in quanto partecipe del “grande Stato” formato dall’intera umanità? Sono certi questi giovani, entusiasti fino al fanatismo, che Illuminismo e Romantico siano assolutamente opposti? Che Novalis nulla abbia a che fare con l’intelletto e la repubblica? Non è rintracciabile il germe di un’idea tedesca di repubblica negli stessi Maestri cantori? Grande retorica manniana, sul filo del paradosso, condotta con la penetrazione sim-patatetica di cui solo la più disperata speranza è capace. Coniugare Novalis con Walt Whitman - quale triplo salto mortale! Eppure sì, è necessario tentarlo. Necessario cantare Deutschland über Alles nella stessa tonalità con cui Whitman aveva cantato la democrazia americana.

La democrazia non può ridursi a una carta costituzionale vissuta come mera convenzione, a un ordinamento senz’anima. Se non ha chi la canta, anche in terra europea, se non saprà essere anche fede, non potrà resistere all’assalto dei suoi nemici. Herder ha insegnato a Goethe che ogni grande poesia è sempre il risultato di uno spirito nazionale; oggi è necessario che essa sia il riflesso dello spirito dell’idea repubblicana- democratica.

Idea che significa responsabilità personale, comprendere che lo Stato è ora nelle nostre mani, l’opposto di un’uguaglianza livellatrice. Soltanto nell’affermazione di questa idea si impedirà la liquefazione della eredità goethiana e dell’intera civiltà europea. La “rivoluzione” democratica tedesca appare perciò a Mann conservatrice: «In realtà io sono un conservatore ».

Repubblica e democrazia formano un tutt’uno nel contenere le potenze distruttive che la guerra ha scatenato. Anti-cristiche anche? Sì, tali appariranno palesemente nella figura di Hitler. Esse mirano a cancellare l’Europa o cristianità. L’idea democratica è in sé rivoluzionaria - come appunto la concepisce Whitman: una rivoluzione permanente volta al culto della persona umana e della pace - e nello stesso tempo profondamente conservatrice.

Questo spirito informa di sé la proposta politica manniana. E qui il monito del poeta si incontra con la dolorosa esperienza del politico di vocazione che oggi ce la introduce, il presidente Napolitano. La salvezza della Repubblica di Weimar, e cioè almeno il freno, il contenimento della reazione, sarà perseguibile soltanto se le forze dei partiti borghesi-liberali e quelle del partito socialdemocratico sapranno trovare un’intesa, e cioè comprendere la loro complementarietà.

La borghesia è dominata da una paura: il comunismo. Questa paura la spinge, nelle mani di una destra nazionalistica, razzista, autoritaria, e cioè al suicidio. Cos’è in realtà oggi il marxismo? Riformismo soltanto: proteggere e migliorare il tenore di vita delle classi lavoratrici; custodire la forma democratica; politica estera di pace. Sono questi obbiettivi estranei allo spirito della borghesia?

Il mio è un angosciato monologo alla borghesia tedesca, scrive Mann; io “figlio della borghesia” mi rivolgo a voi perché non spezziate il filo dell’alleanza possibile perseguita da politici come il cancelliere Stresemann, fondata su valori di libertà, giustizia, cultura, fede nel progresso, che sono i vostri - e che Mann ritroverà nell’esilio americano incarnati da Roosevelt. Napolitano sottolinea questi passaggi con interiore partecipazione.

L’alleanza tra cultura borghese e socialdemocrazia non ha rappresentato la ragione più profonda anche della sua esperienza politica? Non ha cercato per tutta la vita di liberare la borghesia dallo spauracchio del comunismo? E tuttavia “comunista” si chiamava il suo partito. Cosa significa una tale astuzia del destino? Forse è Mann, ma il Mann delle Considerazioni, a farcelo capire: l’epoca borghese e il suo mondo sono finiti per sempre con la Grande Guerra. La svolta è decisiva e irreversibile. Il romanzo giovanile, I Buddenbrook, ne rappresentano l’epitaffio.

Il capitalismo contemporaneo non è borghese, il suo sempre-più e sempre-oltre manca della misura, del Takt, della cultura che appartenevano all’illuminismo dei Diderot come al romanticismo dei Novalis. Un’epoca semi-barbara si spalanca, masslose la chiamava Nietzsche, per la quale il “grande Stato” che l’umanità costituisce non è che il mercato aperto dello scambio, insofferente di confini quanto di regole, e universale è davvero soltanto la potenza del denaro.

Come potrà esservi una politica «nella pienezza del suo significato e della sua efficacia» in una tale situazione storica? Questa la domanda che Napolitano si rivolge alla fine del suo saggio. Quando la politica perde la sua dimensione ideale e spirituale si fa per forza «di corto termine e respiro», e per ciò stesso impotente, come lo fu a Weimar nel costruire una solida repubblica democratica, cosi ora nel realizzare quella vera unità politica europea, di cui la Germania sia pilastro essenziale, che rappresentava l’incrollabile speranza di Mann.

Ma quella dimensione ideale e spirituale si identificava per lui con lo spirito della borghesia. Ha sperato Napolitano che la socialdemocrazia stessa potesse diventarne l’erede? Lo spera ancora dinanzi alla crisi che in tutta Europa sembra metterne in discussione la stessa esistenza? Sono domande che si addicono soltanto ai protagonisti massimi di una stagione storica, che forse soltanto loro sono oggi capaci di cogliere.


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