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IL NUOVO SUDAFRICA: UN ARCOBALENO DI LINGUE, IN MOVIMENTO. Prima fiera internazionale del libro di Cape Town, Un articolo di Itala Vivan - a cura di Federico la Sala

Un articolo tratto dall’ultimo numero della rivista “Leggendaria” dedicato all’Africa
giovedì 29 giugno 2006 di Federico La Sala
[...] Una volta smantellato l’ordine geopolitico di segregazione spaziale che frantumava il territorio in una dozzina di luoghi “etnici”, le homelands, con i bianchi al centro - collocati in quel che si definiva Repubblica Sudafricana - e i neri alla periferia nelle aree riservate, e tutti, secondo una folle classificazione, rinchiusi nei loro recinti, ecco che le schegge e i brandelli lacerati del territorio sudafricano si ricomposero in un tutto unico aperto a cittadini (...)

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> IL NUOVO SUDAFRICA: UN ARCOBALENO DI LINGUE, IN MOVIMENTO.

lunedì 9 luglio 2007

La Lady bianca contro Mandela "La memoria? Un intralcio"

-Sudafrica, la nuova sfida a 13 anni dalla fine dell’Apartheid
-  Sindaco di Città del Capo Helen Zille all’opposizione dell’Anc del Nobel per la Pace. "Superare il problema delle razze"
-  Guida il partito della borghesia. "Siamo di tutti i colori. Per rilanciare il paese dobbiamo dimenticare l’apartheid"

di Daniele Mastrogiacomo (la Repubblica, 04 LUGLIO 2007)

Città del Capo. Donna, bianca, un passato di sinistra. Helen Zille, 57 anni ben portati, ha tutto ciò che occorre per mettere in crisi il potente African national congress di Nelson Mandela. E’ nata e cresciuta qui, nel Western Cape. Capisce e si fa capire dalla gente, qualità rara per un politico non di colore: parla correttamente l’inglese, l’afrikaans e conosce soprattutto lo xhosa, uno dei dialetti più diffusi. Ha lottato nei gruppi femministi, nei comitati antiapartheid, ha sofferto il dramma dei ghetti, la discriminazione razziale. Negli anni 70, è stata anche una giornalista coraggiosa e ostinata: ha smascherato l’assassinio in carcere di un militante nero, Steve Biko, spacciato dalla polizia per suicidio. Un vero scoop. Impensabile, all’epoca. Un marito, due figli, due lauree, oggi «Lady white», la dama bianca come viene chiamata dai suoi detrattori, incarna a pennello l’icona del nuovo Sudafrica, proiettato verso un futuro che lo indica come paese guida dell’intero Continente. Dal marzo del 2006 occupa la poltrona di sindaco di Città del Capo. Una poltrona importante, l’unica strappata all’Anc. Ma il vero successo, quello che la potrebbe candidare nella corsa alla elezione del nuovo presidente del Sudafrica nel 2009, lo ha conquistato il 6 maggio scorso quando con soli tre voti di scarto ha battuto i suoi concorrenti, un nero e un musulmano, ed è stata proclamata capo della Democratic alliance, il principale partito d’opposizione.

Più che un politico, Helen Zille sembra una manager. Riceve semplici cittadini e importanti uomini d’affari. Risolve casi disperati e chiude accordi miliardari. Visita i quartieri più poveri, ma anche i grandi cantieri che stanno cambiando il centro della città. Parlare con il sindaco di Città del Capo ha un vantaggio: aiuta a orientarsi meglio tra i segnali che tratteggiano il nuovo che avanza in questo paese di 47 milioni di abitanti. Un immenso panorama umano, con una natura incontaminata, attraversata da pascoli sempre verdi, foreste fittissime, montagne che raggiungono i 3 mila metri, fiumi che bagnano valli fertili e coltivate, due oceani, parchi naturali tenuti come goielli e pieni di animali.

Uscito soltanto 15 anni fa da una tra le più brutali discriminazioni razziali, alle prese con l’Aids che, secondo i dati ufficiali, ha contagiato due persone su dieci, il paese che vanta tra i suoi leader ben quattro premi Nobel per la pace vive forse il momento più cruciale della sua storia lunga quasi quattro secoli. Si trova ad un bivio, sta decidendo il suo futuro.

Il sindaco Zille ne è perfettamente consapevole. Ma il fatto che sia una bianca a governare una città dominata dai «coloured» e a guidare un partito accusato di essere «bianco e dei borghesi», non sfugge a chi continua a criticarla. Glielo facciamo notare. La risposta è tagliente, infastidita. «Il colore della pelle c’entra poco o niente», ci dice, mentre osserva su una parete la grande foto di Nelson Mandela appena liberato dopo 27 anni di carcere durante il suo primo comizio pronunciato proprio dal balcone di questo ufficio. «Chi mi ha votato, ha creduto nelle mie idee e nel modo in cui amministro questa città. Io non vedo il tentativo di un ritorno all’apartheid, il bisogno dei bianchi di emergere da un anonimato e di raggrupparsi attorno ad un partito. La Democratic alliance è composta da una maggioranza di neri, di meticci, di indiani. Questo è un paese che ha sofferto, che è rimasto per secoli nell’ombra. Ragionare e agire ancora su base razziale significa chiudersi di nuovo nel ghetto. La memoria è importante. Ma non deve trasformarsi in un’ossessione, perché diventa un blocco, un intralcio».

Città del Capo, rispetto alle altre grandi metropoli sudafricane, come Durban, Porth Elisabeth, East London è sicuramente un caso a parte. Un’isola felice in un paese che lamenta 8 milioni di disoccupati, un alto tasso di criminalità, l’invasione di centinaia di migliaia di rifugiati e emigranti.

Certo, la miseria esiste ancora e si vede. Le grandi periferie disseminate da catapecchie in lamiera, l’una sull’altra, le prese dell’acqua potabile in comune, i muri che le isolano dal resto. L’economia è in ripresa, il rapporto deficit/pil è poco sotto il 10 per cento. Anche se i salari restano molto bassi: è difficile campare con 1400 rand al mese, circa 120 euro. Ma a differenza della maggioranza degli altri paesi di questo Continente, il Sudafrica è riuscito a conservare le infrastrutture lasciate in eredità dal colonialismo e a sfruttarle a proprio vantaggio. Oggi nel paese chiede spazio una nuova classe media, attiva e sempre più ricca, che si è formata con le nuove leve dell’Anc e con cui deve fare i conti la vecchia guardia ancora al potere.

Un compito che non ha assolto invece Robert Mugabe, compagno di lotta di molti dirigenti dell’African national congress, presidente del vicino Zimbabwe. E’ rimasto prigioniero dell’apartheid al contrario. Per compensare i veterani che avevano combattuto 20 anni di guerriglia contro il regime razzista dell’ex Rhodesia di Ian Smith, ha pensato bene, nonostante il responso contrario di un referendum, di requisire le fattorie ai bianchi per regalarle ai neri. Il risultato è stato disastroso. Oggi quello che era considerato il granaio dell’Africa è invaso dalla foresta, la popolazione fa la fame, i prezzi sono alle stelle, manca persino il carburante per far funzionare le centrali elettriche. Per sopravvivere Mugabe deve governare con il pugno di ferro. I vecchi amici dell’Anc lo sostengono, in silenzio. Perché nessun leader africano, tanto meno il presidente Thabo Mbeki, se la sentirebbe di condannare il simbolo della lotta al colonialismo. Meglio tenerlo a galla, con discrezione, per evitare che il flusso di emigranti dallo Zimbabwe, già arrivato a cinque milioni, si trasformi in un fiume umano.

Nelson Mandela ha fatto l’opposto. Ha svolto un ruolo fondamentale nel Sudafrica. «Ma il merito», suggerisce il sindaco Zille, corteggiando i centristi dell’Anc, «resta della classe dirigente che si è formata all’estero e in prigione. Negli anni della segregazione, molti militanti neri sono stati accolti dai paesi del nord Europa, più sensibili ai temi dei diritti umani, anche perché più ricchi, e qui hanno potuto studiare. La stessa cosa è avvenuta in cella. E’ sorta una generazione di amministratori, di economisti, di giuristi, di ingegneri, di medici e di ricercatori che si è messa a disposizione di tutti. Il paese ne ha tratto un enorme beneficio. Deve solo dare nuova prova di maturità».

Oggi più che corrompere, fattore endemico in Africa, si ruba, si rapina, si assale. In Sudafrica, tra le tantissime difficoltà, legate alla mancanza di lavoro e quindi di prospettive, ha finito per prevalere un senso collettivo, l’orgoglio di un popolo che punta al suo riscatto. La lotta contro la discriminazione razziale ha avuto l’effetto di un collante. C’è una grande solidarietà che finisce per allentare la diffidenza che ancora si nota nei locali, nei bar, nelle strade, tra bianchi e neri, tra neri e meticci.

«L’Anc», ricorda il sindaco, «all’inizio, subito dopo la fine dell’apartheid ha svolto un buon lavoro. Ha frenato i particolarismi, ha armonizzato gli squilibri. Ma con il ritiro di Nelson Mandela le cose sono cambiate. Il potere è rimasto saldamente nella mani degli stessi, non c’è stata quella distribuzione delle ricchezze che era stata promessa. Lo denuncia persino il vescovo Desmond Tutu: una voce non certo sospetta».

Per il primo cittadino le vere emergenze del nuovo Sudafrica sono altre. Una forte disoccupazione, soprattutto nelle bidonville abitate dai contadini arrivati in città per sfuggire alla povertà delle campagne, il flusso d’immigrati e poi l’educazione scolastica. «Manca personale specializzato, abbiamo bisogno di tecnici», spiega la Zille, «lo richiede l’enorme sviluppo tecnologico del paese. Oggi ci dobbiamo affidare ai cinesi.

Sono arrivati a frotte. I quali, però, prelevano le materie prime e producono i loro materiali a casa, a prezzi competitivi. In cambio ci realizzano le infrastrutture. Il risultato più evidente è stato il crollo del tessile, settore trainante dell’industria sudafricana. Tutto questo si può evitare: avere dei tecnici, degli specialisti, significa puntare sulla formazione. E qui», aggiunge il nuovo leader del partito di opposizione, «vedo l’altra grande emergenza del momento: la droga. Il nostro paese deve fare i conti con una tossicità spaventosa. Droghe pesanti, come il Tik, la metanfetamina, un mix di cristalli chimici, facile da reperire e soprattutto economica. Questo mi preoccupa. Credo che preoccupi molto meno gli uomini dell’Anc, impegnati a mantenere il potere». Helen Zille conserva lo spirito combattivo che la distinse quando faceva la giornalista per il Rand daily mail. Molti suoi amici dicono che sia cambiata. Lei lo nega, divertita. «Guardo sempre dieci anni avanti», ci spiega quando le chiediamo se sente di aver tradito gli ideali di un tempo. «Voltarsi indietro serve solo a riflettere sugli errori e sui successi. E oggi sono convinta che il Sudafrica, per vincere la sfida del futuro, non può commettere altri errori: bisogna chiudere l’era dell’apartheid». «La battaglia per il riscatto è solo all’inizio», conclude «c’è ancora molto da fare. Ma se la perdiamo, saremo travolti tutti». Fuori, a due chilometri in linea d’aria, decine di gru lavorano giorno e notte. Stanno costruendo uno dei cinque grandi stadi che ospiteranno i prossimi Mondiali di calcio. I primi che si svolgono in Africa. E’ motivo di forte orgoglio, ma è soprattutto una sfida che vale 15 miliardi di dollari e forse, presto, un posto tra i grandi della Terra.


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