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Palestina, Israele e la rinascita della lingua ebraica....

ELIEZER BEN-YEHUDA. “Tante parole nuove dovranno essere inventate, e quando l’Ebraico non basterà, la lingua araba, sorella della nostra, ci fornirà i suoi suggerimenti. Che cos’è infatti un amico, se non quello che ti offre la parola mancante?” Memoria di ELIEZER BEN-YEHUDA - di Massimo Leone.

giovedì 29 giugno 2006 di Federico La Sala
Alla lingua ebraica
Memoria di Eliezer Ben-Yehuda
di Massimo Leone*
La mia ombra si proietta nel cerchio chiaro di una lampada, mentre siedo, la nuca irrigidita, ad una delle scrivanie di questa biblioteca. Sono qui dentro da undici ore, chino sul mio lavoro. La vista mi si annebbia e gli occhi sono ormai due piccoli bracieri, la schiena mi si incurva e gambe e braccia ormai mi dolgono. Respiro affannosamente, qualche piccola macchia rossa si nasconde minacciosa nel mio fazzoletto. Ho (...)

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> Memoria di BEN YEHUDA .... Con i rabbini a raccogliere olive per i palestinesi (di Arturo Marzano)

lunedì 2 gennaio 2012

Con i rabbini a raccogliere olive per i palestinesi

di Arturo Marzano (l’Unità, 2 gennaio 2012)

Da ebreo, rabbino, israeliano, sionista non è facile per me dirvi queste cose, criticare Israele, il paese che amo e in cui ho scelto di vivere. Però - come diceva il mio allenatore di football quando ero adolescente negli Stati Uniti - gridi quando ti sta a cuore, gridi perché credi che possa fare la differenza». A dirlo è Arik Ascherman,uno dei membri dell’organizzazione israeliana per i diritti umani Rabbis for Human Rights (Rabbini per i diritti umani). Ha 52 anni, è emigrato in Israele dalla Pennsylvania. Da anni si occupa del programma che l’organizzazione porta avanti nei Territori Occupati Palestinesi a difesa degli agricoltori palestinesi che coltivano ulivi.

È il venerdì mattina di qualche settimana fa, sono le otto e mezzo. Arik guida un gruppo di 8 ebrei americani che attualmente si trovano a Gerusalemme. La maggior parte di loro studia per diventare rabbini. Sono riformati, conservativi e ricostruzionisti, a dimostrazione della grande pluralità dell’ebraismo americano. Hanno deciso di andare a raccogliere le olive con alcuni contadini palestinesi a Sinjil, nel nord della Cisgiordania. Come molti altri villaggi palestinesi, anche Sinjil è stretto tra una serie di insediamenti israeliani. Uno di questi è Shilo. Un nome centrale per l’ebraismo. È a Shilo che, secondo la tradizione, era conservata l’Arca dell’Alleanza prima che fosse costruito il Primo Tempio a Gerusalemme.

Marisa Elana è del Connecticut. Anche lei studia per diventare rabbino. «Nella Torah - dice appena l’autobus lascia Gerusalemme per dirigersi verso Sinjil - c’è scritto chiaramente: è vietato tagliare o sradicare gli alberi del nemico, anche se si è in guerra. Purtroppo, i coloni israeliani se ne sono dimenticati. Sono centinaia gli ulivi che vengono incendiati, tagliati, avvelenati. E sono tanti gli agricoltori palestinesi attaccati mentre raccolgonole olive. Sono venuta qui per proteggerli dagli attacchi dei coloni israeliani. Solo una minoranza di loro si comporta così, ma il clima che si respira negli ultimi anni è sempre più pesante. La mia presenza serve da deterrente, per evitare che accadano episodi del genere. C’è anche un’altra ragione, però, che mi spinge ad essere qui. I palestinesi di molti villaggi della Cisgiordania conoscono solo coloni e i soldati. Non hanno quasi nessun altro contatto con gli israeliani. Io voglio mostrare loro un altro Israele, un altro ebraismo. È importante che sappiano che l’ebraismo, quello in cui credo, difende gli oppressi, si batte per i diritti umani, la pace, la giustizia».

Sinjil dista da Gerusalemme solo 39 chilometri. Poco più di mezz’ora di autobus. Alle dieci, il gruppo è già al lavoro. Si stendono grandi teli sotto gli alberi, per raccogliere le olive sfilate dai rami e lasciate cadere. Alcuni si arrampicano. Altri prendono delle scale. «È la prima volta che raccolgo le olive. Non credevo fosse così», dice Sam, di Indianapolis. Sua moglie, Rachel, studia per diventare rabbino. Anche lei fa parte del gruppo. «So poco del conflitto. Prima di venire in Israele credevo di avere le idee molto chiare: Israele aveva ragione e i palestinesi torto. Ora mi rendo conto della complessità del conflitto. Sono qui per capire un po’ di più, per vedere come stanno le cose dall’altra parte».

Il sole in Medio Oriente è sempre forte, anche adesso. Fa caldo e l’ombra degli ulivi è rinfrescante. È lì che Kamal distribuisce il the. Bicchierini di vetro, come si usa in Palestina. «Questa terra è nostra da generazioni. La coltivava già il nonno di mio nonno» racconta. Ha47 anni. Non se la ricorda la Guerra dei Sei Giorni, perché aveva solo tre anni. Ma l’occupazione la conosce bene. È tutta la vita che ci convive. «Ho lavorato a Gerusalemme per 18anni, prima della Seconda Intifada. Ho vari amici israeliani. Ma solo pochi vengono a darci una mano. Arik è tra questi. È sempre in prima linea, a difenderci dagli attacchi dei coloni, a sostenere le battaglie legali che facciamo contro gli insediamenti limitrofi, costruiti su parte delle nostre terre».

Rabbis for Human Rights, infatti, non organizza solo gruppi che scortano i contadini palestinesi durante la raccolta delle olive. Fa consulenza legale, sostiene i beduini del Negev, aiuta i più poveri tra i nuovi immigrati in Israele, principalmente etiopi. Insieme all’associazione gemella Rabbis for Human Rights North America, organizza campagne di informazione negli Stati Uniti e in Canada. E per loro che Joshua Bloom lavora, a New York. È in Israele per un mese, per guidare un gruppo di 19 americani, rabbini e non. «È importante che gli ebrei americani abbiano una visione meno ideologica del conflitto. Rabbis for Human Rights non fa politica, non intende presentare soluzioni al conflitto. Però, si batte per il rispetto dei diritti umani nei Territori Occupati e organizza dei tour per far capire all’estero che cosa realmente accade in Israele e in Palestina».

«Il nostro lavoro ha radici antiche», dice Arik mentre l’autobus torna a Gerusalemme. «Abramo intercede presso Dio per garantire la salvezza degli abitanti di Sodoma che nemmeno conosce. Sarebbe troppo facile se noi lottassimo solo per i diritti dei nostri familiari, dei nostri amici. Dobbiamo lottare per i diritti di chi non conosciamo, persino dei nostri nemici, perché questo significa essere ebrei».

Sono quasi le tre di pomeriggio. Sta per entrare il sabato ebraico. Ci si deve preparare per accoglierlo. Anche riflettendo su quanto Arik ha appena detto.


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