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Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito. UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA!

UNA MEMORIA DI "VECCHIE" SOLLECITAZIONI. Il cardinale Martini, da Gerusalemme, dalla “città della pace”, lo sollecita ancora!!!
martedì 5 giugno 2007 di Federico La Sala
Foto. Frontespizio dell’opera di Thomas Hobbes Leviatano.
IL NOME DI DIO. L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LEZIONE DI PIETRO: "Ὁμοίως γυναῖκες (...)

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> UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. UNA MEMORIA DI "VECCHIE" SOLLECITAZIONI. Il cardinale Martini, dalla “città della pace”, lo sollecita ancora!!! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA!

domenica 3 giugno 2007

Se Bush fa la bella statuina

di Barbara Spinelli (La Stampa, 3/6/2007)

Nell’intervista a La Stampa di venerdì, George Bush ha illustrato a Maurizio Molinari e ad altri giornalisti europei la sua visione del mondo. Non è molto cambiata da quando scatenò una guerra contro Afghanistan e Iraq, subito dopo l’attentato dell’11 settembre. Quasi sei anni sono passati e l’amministrazione sembra incontaminata dalle azioni che nel frattempo ha commesso. Una storia di stasi in Afghanistan, un’operazione precipitata in conflitto fra sette musulmane in Iraq, una frattura con l’Iran che s’inasprisce senza indebolire Ahmadinejad: il bilancio della strategia Usa è rovinoso, ma Bush quasi pare non rendersene conto. Nelle sue risposte a Molinari si comporta come quelle belle statuine che vincono a condizione di mostrarsi assolutamente immobili, in posa, al momento in cui l’esaminatore si gira e riapre gli occhi.

E cos’altro è Bush quando ripete che «compito degli Stati Uniti è di promuovere la democrazia nel mondo, anche in luoghi che non sembrano troppo ospitali »; che l’America resta minacciata; che «la migliore maniera di difenderla è andare all’attacco (preventivo, ndr) prima che la minaccia si materializzi »; che, di conseguenza, «le decisioni prese in Iraq e Afghanistan sono state giuste». I rovesci vengono occultati, quindi non servono a correggersi. Come diceva il politologo Raymond Aron: «Gli uomini fanno la storia, ma non sanno la storia che fanno». Perfino sul clima la posizione di Bush è nella sostanza impietrita: la Casa Bianca ammette d’un tratto che il male esiste, ma oltre non va. Ogni Stato deve disciplinarsi come crede, ogni cifra vincolante è sgradita, l’Onu non deve interferire. All’ombra di questa immobilità si svolgerà il vertice degli otto industrializzati a Heiligendamm in Germania, dal 6 all’8 giugno.

Un vertice cruciale, perché il clima sarà al suo centro e il clima è oggi il tema che determina la possibilità o non possibilità d’un governo della globalizzazione. Un tema-test, secondo il settimanale Die Zeit: perché per frenare la degenerazione climatica occorre la partecipazione di tutti, specie degli Stati Uniti che assieme a Cina sono i principali produttori di effetto serra: «Il clima conferma la necessità di una parità mondiale di diritti e doveri». Una parità assente, se è vero che il rapporto di forze si riassume oggi nella formula: 20-10-4-1 (ogni americano può produrre annualmente 20 tonnellate di anidride carbonica, ogni europeo 10, ogni cinese 4, ogni africano 1).Le diplomazie d’Europa e America lavorano per restaurare fra loro l’armonia, dopo il cambio politico in Francia e Inghilterra. Ma la Zeit giustamente commenta, incitando Angela Merkel a tener duro sul clima: «L’ armonia transatlantica è importante,manon è più la misuradi tutte le cose». In altre parole: il mondo è cambiato dal 2001. E non è cambiato a causa del dissidio tra America e alcuni europei,madel drastico vanificarsi dell’egemonia globale Usa.

Due guerre potenzialmente fallimentari non sono passate senza incidere radicalmente su tale supremazia, e l’ascesa dell’ Iran di Ahmadinejad è conseguenza di questo. A ciò si aggiungano altri sviluppi. L’Africa sta ritrovando forze e crescita, ma i motori della rinascita non sono gli americani bensì Cina, India, Russia, Brasile: lo scrive sull’International Herald Tribune del 2 giugno Nicky Oppenheimer, presidente dell’azienda sudafricana De Beers. Intanto, a Teheran, i democratici implorano Washington di non intervenire. Se vuol proteggere i democratici e non screditarli l’America stia lontana, scrivono sull’Herald Tribune del 31 maggio il premio Nobel Shirin Ebadi e Muhammad Sahimi («I riformisti non credono che la democrazia possa esser esportata: la sola cosa che Washington possa fare per la democrazia è lasciarli in pace»). Con ciò mettono in causa non solo il potere militare (hard power) ma perfino il soft power ovvero il potere culturale della grande superpotenza unica.

Il disastro non potrebbe esser maggiore, nonostante la bella imperturbabile statuina, e il multipolarismo non è più un’opzione: è una necessità. Lo stesso avviene per il clima. L’avanguardia nella lotta per preservare il pianeta è l’Unione Europea - con i suoi piani obbligatori di riduzione del biossido di carbonio - e gli americani le corrono dietro.

Quando Bush esige che le nazioni libere si raggruppino attorno all’agenda Usa delle libertà dice un anacronismo. Scrive ancora Die Zeit che c’è una singolare coincidenza di opinioni, tra Bush e no-global pronti a manifestare a Heiligendamm e Roma: «Ambedue credono alla leggenda secondo cui la globalizzazione è una gigantesca marcia vittoriosa del capitalismo americano».

In realtà non lo è affatto, sempre che anche l’Europa smetta il gioco delle belle statuine e sia intransigente sul clima. Se l’Europa smette il gioco e medita i fallimenti Usa potrà anche influenzare Medio Oriente, Cina e India, Iran. L’immobilitàUsaimpregna i rapporti del mondo con Washington: su Medio Oriente, energia, clima, terrorismo. Questo significa che su peripezie e scacchi della politicaamericana converrà pensare e discutere, con fredda solidarietà e memoria viva del passato recente. Certo la memoria può intralciare l’agire, ma serve a capire qualcosa di non irrilevante: che certi errori tendono tragicamente a ripetersi, se non riconosciuti come tali.

Il più grande consistette nell’appoggiare Bin Laden, durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan. Il falso alleato si rivolta appena passata l’emergenza, e questa è la lezionenonappresa a Washington. È quel che rischia d’accadere alle statuine: per piegare e provocare l’Iran, Bush tende a gettare se stesso e l’Occidente nella nuova guerra settaria tra sciiti e sunniti, fiancheggiando questi ultimi dopo aver favorito gli sciiti in Iraq. Secondo le indagini del giornalista Seymour Hersch, Bush giunge sino a finanziare l’estremismo sunnita in Libano, in combutta con il premier Siniora (New Yorker, 5 marzo2007). I movimenti Fatah al- Islam e Asbat al-Ansa (legati a Al Qaeda) avrebbero ricevuto aiuti da Beirut e Washington, salvo poi rivoltarsi contro i finanziatori. Nasrallah capo di Hezbollah e Ahmadinejad in Iran sono il bersaglio, ma sistematicamente, ormai, Bush si allea con Satana per combattere il Satana di turno. L’inquietudine di Nasrallah non va sottovalutata. Il timore, che confida a Hersch, è che l’America favorisca spartizioni ed epurazioni etniche diffuse: in Iraq, Siria, Libano.

L’ex responsabile della sicurezza nazionale Brzezinski dice che questa è l’attuale strategia Usa: blame and run, incolpa gli altri e scappa. IncolpaBaghdad, Teheran o l’Europa, pur di ritirarti senzaammettereerroriche son tuoi. L’Europa ha un’occasione non indifferente per farsi valere: prendendo atto che l’egemonia Usa è in frantumi, assumendo proprie responsabilità non solo sul clima ma in Israele e Gaza, in Libano, Afghanistan, Iraq, Iran.

È un peccato che non abbia ancora una costituzione, che le permetta di decidere a maggioranza e di ignorare il veto dei singoli. Questo dà a chiunque - a Usa, Russia - la possibilità di sfruttare le sue divisioni. Per esser precisi, dà a Bush la possibilità di puntare su chi più avversa un’unione politica europea: in Polonia, Repubblica Ceca o Romania. I negoziati bilaterali sullo scudo missilistico vanno in questa direzione, e nella stessa direzione va l’imminente viaggio di Bush in Europa. Il presidente non va a Parigi, Londra, Madrid. Va nella Repubblica Ceca, in Polonia, Albania, Bulgaria: dunque nell’area dove nevroticamente si condensa oggi la fobia antieuropea. Poi va a Roma, il 9 giugno, per vedere il Papa ma anche per verificare, forse, se i governi italiani restano malleabili, impiegabili.

Tale fu il governo Berlusconi, quando Bush l’usò per separare la vecchia Europa dei fondatori dalla nuova, alla vigilia della guerra in Iraq.Ora c’è Prodi a Palazzo Chigi ma le pressioni non mancheranno, soprattutto sull’Afghanistan. Manca poco all’uscita di scena di Bush: il 20 gennaio 2009 avremo un nuovo presidente. Ma il futuro si prepara già oggi. Non solo quello dell’alleanza e solidarietà euro-americana: l’armonia transatlantica, in effetti, ha smesso di esser la misura di tutte le cose. Ma il futuro dei rapporti mondiali, la natura che potrà avere la globalizzazione. Questo si deciderà, tra oggi e il gennaio2009.


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