Inviare un messaggio

In risposta a:
Fuori dalla "preistoria". Al di là della “concezione edipica del tempo”(Vattimo).

DANTE, VIRGILIO E IL ’CODICE’ DI MELCHISEDECH. DIO è AMORE (Charitas), in ‘volgare’!!! E LE RADICI DELLA TERRA SONO “COSMICOMICHE”! Un’ipotesi di ri-lettura della DIVINA COMMEDIA, e un omaggio a Ennio Flaiano e a Italo Calvino

Con Lutero, oltre. Sacerdotalità e Sovranità - universali.
domenica 24 giugno 2007 di Federico La Sala
[...] Anche il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli sicuramente ricordava: divenuto papa, prenderà il nome di Giovanni XXIII ... e cercherà di correre ai ripari. Una nuova Chiesa, per credenti e non-credenti, che sappia essere finalmente, “Mater et Magistra” ... come la Maria di Gesù e la Beatrice di Dante! “Pacem in terris”: un nuovo Concilio, subito!!! [...]
MELCHISEDECH A SAN GIOVANNI IN FIORE, TRA I LARICI “PISANI”.
AL DI LA’ DELLA TRAGICA (...)

In risposta a:

> EU-ROPA: PER DANTE, LE RADICI SONO COSMICOMICHE !!! Un’ipotesi di ri-lettura della DIVINA COMMEDIA, e un omaggio a Ennio Flaiano e a Italo Calvino

martedì 3 luglio 2007

Come suona l’Eneide nella voce di Sermonti

Sottoposta alla verifica della lettura a alta voce, che ogni traduttore dovrebbe adottare, l’opera di Virgilio esce ora da Rizzoli nella versione di Vittorio Sermonti, divisa in ventiquattro libri per adeguarsi agli spettacoli di un’ora dai quali nasce

di Francesco Stella *

Molte risorse si invocano, a giusto titolo, per il restauro dei beni culturali di tipo artistico e architettonico, cioè per consentire la sopravvivenza e l’accessibilità al pubblico di quadri, statue e cattedrali. Altrettante, forse, dovrebbero esserne messe in campo per il restauro del patrimonio testuale che il tempo ci ha trasmesso in lingue oggi non più usate. Per questo la ritraduzione di un classico dovrebbe essere un’impresa nazionale (nel senso in cui è nazionale una lingua), uno strumento periodico di salvataggio che consente a un testo di appartenere a ogni nuova generazione. Sono le traduzioni che decidono spesso la sorte di un’opera, e la sua influenza sulla produzione futura: il ruolo di molta letteratura nordamericana nell’Italia del dopoguerra sarebbe impensabile senza Vittorini, Pavese e Pivano, e che consistenza avrebbe avuto il mito di Italo Calvino e Umberto Eco nel mondo anglofono senza il lavoro di Weaver?

È per questo che ogni epoca cerca la propria versione di Virgilio, «classico europeo» per eccellenza nell’accezione di Eliot, e quasi sempre più di una. Alle molte che negli ultimi decenni si sono affacciate fra gli scaffali delle librerie italiane, ampiamente beneficate dall’ingente mercato ginnasiale, si aggiunge ora quella di Vittorio Sermonti (Rizzoli), che nelle sue letture pubbliche di Dante è riuscito a trovare una formula magica per comunicare complesse coordinate culturali e sottili strategie testuali a un pubblico crescente ed entusiasta, alternando con dosi attentamente calibrate spiegazione informata e lettura vivace ma non teatrale. Questa sua Eneide, dopo una tournée di recitazioni, trionfa ora nelle librerie con la splendida spiaggia d’acqua che allaga la copertina senza titolo, delegato alla sovraccoperta in plastica trasparente, e già nella grafica annuncia qualcosa di diverso, di aperto, di fresco. Il risvolto spiega, con le parole del neotraduttore, che «la grande poesia è, allo stesso tempo, misteriosa e domestica, misteriosamente domestica, come la conversazione dei grandi che i bambini ascoltano giocando sul tappeto»; ma annuncia minacciosamente che «forse non esiste nulla al mondo che renda il timbro inconfondibile, l’emozione assoluta della poesia come l’Eneide». In realtà, le introduzioni di Sermonti riescono a stemperare il rischio di una retorica «dell’assoluto» presentando i materiali narrativi del testo con una accattivante umiltà e una ironia leggera da smaliziato comunicatore di massa. Certo, chi ha conservato familiarità col latino non potrà non provare ogni volta un brivido alla lettura dell’originale, per quella capacità unicamente virgiliana di scolpire versi morbidi ma definitivi sul tremito di una luce lunare, sulle esitazioni di un uomo o una donna nel decidere il proprio destino, per la sensibilità polifonica con cui fa affiorare nelle pieghe di una epopea imperiale la voce dei «perdenti» che quella missione ha dovuto cancellare dal futuro: le lacrimae rerum di cui è testimone anche il protagonista, il profugo migrante da una città perduta. Il latino di Virgilio, con la semplicità miracolosa della sua sintassi obliqua, è un’esperienza emotiva che non trova confronti e che nessuna traduzione può salvare.

In più, rispetto a qualsiasi altro poeta antico, ogni verso di Virgilio porta in sé le multiple eco del suo inesauribile futuro, le cento volte che è servito ad altri poeti o pittori per dire altre cose: il passo del secondo libro sul pio eroe in fuga da Troia col padre Anchise sulle spalle e il figlio accanto non si può più leggere senza che in mente lampeggino l’affresco di Raffaello delle Stanze Vaticane o il gruppo di Bernini nella Galleria Borghese e le liriche di Caproni sul Passaggio d’Enea nate dal monumento genovese di piazza Bandiera. Così quando si incontra l’agnosco veteris vestigia flammae nella voce della Didone innamorata non si può non riconoscere il turbamento di Dante alla vista di Beatrice in Purgatorio: «conosco i segni dell’antica fiamma».

Per questi e altri motivi la comunicazione di Virgilio non si può trasportare integralmente in altra lingua, anche se c’è chi ha provato a dare uno spessore intertestuale alla sua traduzione, come Scarcia nell’edizione Bur 2006 impreziosita dalla magistrale introduzione di Alessandro Barchiesi. Per questo ogni traduttore riesce a riprodurre di solito un colore dell’originale, rassegnandosi ad oscurare gli altri: c’è chi ha preferito la stilizzazione manieristica, chi la solennità arcaizzante, chi l’adesione piatta a una letteralità interlineare, c’è perfino chi ha dichiarato di voler evitare una traduzione «bella» trasformando con disinvoltura una difficoltà in una civetteria veteroavanguardistica.

Il problema non è tanto la capacità di capire l’originale, che dopo alcuni millenni di esegesi è relativamente accessibile, quanto il possesso pieno e sperimentato di un proprio codice nella lingua d’arrivo. Per questo da Foscolo a Leopardi a Valéry alla Bemporad una tradizione autorevole sostiene che il buon traduttore deve essere anzitutto scrittore in proprio (e Sermonti lo è): l’alternativa è la perdita di identità del testo «nuovo» e la resa a quella lingua deprimente che esiste solo nelle versioni scolastiche e, ahimè, in quelle che si presentano come «filologiche», dove il superbo Pindaro è stato umiliato per sempre con un «ottima è l’acqua» degno di un ristorante termale e in Virgilio l’amazzone Pentesilea è stata giudicata in grado di «scontrarsi a paro con gli uomini», come in un dibattito sulle pari opportunità in un circolo Arci del Chianti. Senza indugiare oltre sull’inesauribile diatriba fra traduzioni naturalizzanti ed estranianti, diciamo subito che Sermonti evita questo rischio. E lo evita perché ricorre, per la sua storia personale e il suo obiettivo ufficiale, a una verifica poco frequentata che ogni traduttore dovrebbe invece adottare per norma: la lettura ad alta voce.

Il testo tradotto deve «suonare», deve poter passare a un pubblico che non legge ma ascolta, deve abitare le orecchie per poter restare nella mente. Il criterio performativo impone la sua scansione anche alla divisione dei libri, che da dodici diventano ventiquattro per poter adeguare la propria misura agli spettacoli di un’ora dai quali nasce questa traduzione. In questo l’operazione ricorda l’Iliade di Baricco, riscritta in lingua recitabile e divisa in capitoli corrispondenti ai personaggi-attori.

E, per «suonare», l’Eneide di Sermonti deve adottare anche un altro criterio abitualmente snobbato dai cosiddetti filologi, ossia un andamento ritmico che mantiene i sei accenti dell’esametro (interpretato come struttura tonica): e trova così audacie felici come quando Didone, ascoltando Enea, longumque bibebat amorem, che Sermonti armonizza «e beveva un lunghissimo amore» concedendosi un superlativo «abusivo» necessario a conservare il ritmo dattilico. La stessa operazione viene compiuta sul lessico, che vuole raggiungere quella dimensione «domestica» cui si accenna nell’introduzione: da qui la benvenuta e ormai famosa rinuncia agli «affinché» o ai «repente», che affliggono le traduzioni scolastiche.

Si generano allora soluzioni nuove come «dilaga» per ruit nox, «non corrotto dagli anni» per integer aevi, «patire lo scacco» per dolere, «raffiche di parole» per adsiduis vocibus. E se in questa tensione attualizzante sfugge qualche forzatura, in tanti altri passi il testo acquisce una naturalezza nuova che probabilmente ne farà la voce italiana di Virgilio dei prossimi anni.


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: