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ECCLESIA DE EUCHARISTIA (Giovanni Paolo II, 2003). Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è morto.

INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA. PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI: UT UNUM SINT. Un omaggio a WOJTYLA: UN CAMPIONE "OLIMPIONICO", GRANDISSIMO. W o ITALY !!! - di Federico La Sala

Il "Dio" dei nostri ’padri’ e delle nostre ’madri’ è il "Dio" dei viventi, non dei morti !!! LA "SACRA FAMIGLIA" DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA E’ ZOPPA E CIECA: IL FIGLIO HA PRESO IL POSTO DEL PADRE DI GESU’ E DEL "PADRE NOSTRO". E’ ORA DI RESTITUIRE "L’ANELLO DEL PESCATORE" A GIUSEPPE, PER AMARE BENE MARIA!!!
domenica 1 maggio 2011
[...] Che Egli viva in eterno, nella verità e nella pace - e nella memoria e nel cuore del nostro tempestoso presente storico, in lotta per portare alla luce una nuova - e più degna di noi stessi e di noi stesse - concezione dell’umano e del divino [...]
“DUE COLOMBI”, “DUE SOLI”. A KAROL J. WOJTYLA - GIOVANNI PAOLO II, in memoriam (03.04.2005)
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro (...)

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> INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA. ---- Le «cinque perle» di Wojtyla nella memoria della Chiesa (di Alberto Melloni).

lunedì 29 marzo 2010

Le «cinque perle» di Wojtyla nella memoria della Chiesa

di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 29 marzo 2010)

Mano a mano che ci si allontana nel tempo, il giudizio storico sul pontificato di Giovanni Paolo II diventa più difficile. Gli infiniti record di quel Papa scolorano, i ricordi si mescolano alle nostalgie di chi li vive e sembrano ugualmente arbitrari bilanci di segno opposto che punteggiano libri basati sulle migliaia di pagine di atti del Papa che forse anche lui ha letto una volta sola in vita sua. Il suo sta dunque diventando un pontificato grigio, da consegnare alla ricerca storica perché ne colga i dettagli e rinunci all’insieme? Il rapidissimo processo di beatificazione, che non ha lavorato a fondo sulle carte, finirà per caramellare il Papa polacco, facendo di quei lunghissimi anni fra il 1978 e il 2005 un ripostiglio dove, insieme al pastorale di Montini che aveva girato il mondo prima di finire chissà dove, si ammasseranno formule, categorie, generalizzazioni di vario segno?

Non necessariamente: a me pare che il tempo abbia già iniziato (e continuerà) a depositare sul tavolo degli storici quello che è «normale» in un papato, mentre consegna alla memoria collettiva quelle che sono le perle del pontificato di Giovanni Paolo II: quei gesti e momenti che non riducono la portata di tanti atti e politiche, non appiattiscono le contraddizioni e gli errori, ma che agiscono dentro la Chiesa al di là delle previsioni degli altri, se non delle sue intenzioni- e alle quali la Chiesa può forse alimentarsi ancora.

Di «perle» mi pare che se ne distinguano bene almeno cinque. La prima è una perla sinodale, quell’assise straordinaria dei vescovi del 1985: nell’anniversario della chiusura del Vaticano II, davanti al tentativo di minimizzare il Concilio e tingerlo di pessimismo, Wojtyla impone la sua formula del Concilio come grazia, «la» grazia del secolo XX, rimettendolo davanti alla Chiesa come la possibilità alla quale (lo si è visto tante volte in questi anni) si deve ricorrere nei momenti di confusione.

La seconda perla, nel 1986, è data dai grandi gesti dell’incontro con l’altro: in aprile alla sinagoga di Roma, dove, allineandosi alla «dottrina giovannea», Giovanni Paolo II ripete la deplorazione conciliare dell’antisemitismo coltivato «da chiunque; ripeto: da chiunque»; e poi in ottobre ad Assisi, dove infrange il tabù di una preghiera contestuale fra uomini di fede che in quel momento ancora non sanno di essere seduti sulla polveriera dei fondamentalismi e dello scontro fra civiltà.

Terza perla nel 2000, il mea culpa pronunciato in San Pietro all’inizio della quaresima: nonostante resistenze autorevoli, nonostante le circonlocuzioni che apparentemente scaricano le colpe sui «figli della Chiesa», il Papa chiama col loro nome violenze, discriminazioni, ingiustizie commesse in nome di una verità astratta e contundente che non assomiglia alla verità mite della fede, impersonata dal volto di Roncalli che sventola nella beatificazione di quel settembre.

La quarta perla arriva nel 2003: dalla finestra del palazzo da cui l’anziano polacco, ormai malato, diventa il capo di una sete di pace globale e tuona contro la cecità di George W. Bush, pronto a quella guerra che incastrerà la superpotenza in un congegno che consuma i soldati e il prestigio americano.

Ultima perla, l’ostensione della morte nel nebbioso clima preconclavario del 2005: in una società che ha sepolto in ospedale la fine dell’esistenza, che ha deciso di farsi rubare il tempo ultimo della tenerezza e del perdono che solo consola, in un mondo che esorcizza la canizie e la calvizie in nome di una estetica del corpo sexy, il Papa impedito perfino alle dimissioni si offre alla comunione col popolo di cui è vescovo in una impietosa ostensione della propria atroce debolezza e della propria vistosa sofferenza.

Perché mai - si dirà - dovrebbero restare queste «perle» e non le bastonate sui teologi, o gli errori tragici e le intuizioni geniali nella nomina dei vescovi e dei cardinali, o l’impotenza davanti al martirio di Romero, o la frenata al dialogo della Dominus Jesus, o l’invettiva antimafia nella Palermo delle stragi, o la predicazione sull’ingerenza umanitaria o la scomunica di Marcel Lefebvre o qualsiasi altra cosa? È solo una discutibile questione di gusti? O la riprova che il papato di Wojtyla è un deposito oggetti smarriti, dove ciascuno sceglie a piacimento cosa prendere e cosa lasciare? A me non sembra.

Le perle di Wojtyla, infatti, sono atti che si stagliano non per una scelta ideologica, ma per la loro narrabilità. Rientrano cioè in quella antica forma di professione di fede che la Bibbia ebraica ha insegnato ai cristiani («lo racconterai») e costituiscono un racconto che, come già accade, discerne, distingue, separa. Di Wojtyla, come di ogni Papa, resterà nella storia tutto - ma nella vita della Chiesa rimarrà ciò che si può raccontare: e in quel racconto, per quanto deformato dal caleidoscopio dell’esistenza, non entra ciò che il Pontefice soggettivamente ritiene più importante e nemmeno ciò che oggettivamente lo è sul piano politico-istituzionale; ma solo una immagine che racconta e che parla di giorni di speranza dentro giorni di desolazione.


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