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AXUM. SCOPERTO IL PALAZZO DELLA REGINA DI SABA. Lo rende noto un comunicato dell’Università di Amburgo.

venerdì 9 maggio 2008
ARCHEOLOGIA: SCOPERTO IL PALAZZO DELLA REGINA DI SABA
BERLINO - Una equipe di archeologi tedeschi ha dichiarato di aver scoperto i resti del palazzo della leggendaria regina di Saba ad Axum, in Etiopia. Lo rende noto un comunicato dell’Università di Amburgo.
I resti del palazzo, risalente al X (...)

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> AXUM. --- Nel giorno del Timkat, l’epifania ortodossa, la più importante festa dell’Etiopia, sfila Sfila coperta l’Arca dell’Alleanza (di M. Alberizzi) - la leggenda della Regina di saba (di Armando Torno) - Una mostra a Ca’ Foscari: Il tesoro d’Etiopia (di Martina Zambon).

mercoledì 11 marzo 2009


-  La religiosità.

-  I culti ortodossi da Addis Abeba ai villaggi nel Nord del Paese

-  Axum, riti come duemila anni fa. Sfila coperta l’Arca dell’Alleanza

-  Nel giorno del Timkat, l’orgoglio di una nazione attorniata dall’Islam

-  di Massimo Alberizzi (Corriere della Sera, 11.03.2009)

Il giorno del Timkat - l’epifania ortodossa, la più importante festa dell’Etiopia, che cade il 19 gennaio - Lalibela, la città santa, è attraversata da processioni sacre. Una folla imponente si concentra per le strade e le piazze e si ammassa attorno alle 13 chiese scavate nella roccia, l’ottava meraviglia del mondo. Nelle intenzioni di chi l’ha fondata, Lalibela era la Nuova Gerusalemme, costruita per rispondere alla conquista della Terra Santa da parte dei musulmani nel 1187. I cortei guidati dai sacerdoti con tonache, copricapi e ombrelli parasole multicolori, si snodano tra canti e balli religiosi, nuvole di incenso aspro e pungente. Il rito è emozionante e i partecipanti sono colti da una sorta di ispirazione divina. I movimenti sono lenti e sembrano studiati, come prevede una liturgia millenaria costruita per arrivare al cuore dei fedeli.

Gli uomini sfilano in gruppi diversi da quelli delle donne, che si muovono nei tradizionali vestiti bianchi parlando e cantando in quello che forse è l’unico vero giorno di libertà ogni anno.

Il culmine arriva nel momento in cui una copia dell’Arca dell’Alleanza portata a braccia in giro per la città, ritorna al suo posto in una delle chiese e centinaia di persone si immergono nelle vasche piene d’acqua a simbolizzare un nuovo battesimo. Le chiese monolitiche di Lâlibalâ sono scavate nella roccia e sono state costruite tra il 12˚ e il 13˚ secolo da centinaia di operai (o forse schiavi) armati di scalpello . L’interno è un sfavillio di affreschi, sculture e icone nel tipico stile ortodosso etiopico. La più grande è Bete Medhane Alem e la più antica Bete Maryam.

Grande sacralità si respira anche ad Axum, la capitale dell’antico regno della mitica regina di Saba. Il complesso della cattedrale di Santa Maria di Sion contiene una speciale cappella dove è conservata l’Arca dell’Alleanza uno dei grandi misteri dell’antichità. Costruita da Mosè su ordine diretto di Dio in legno d’acacia e laminata dentro e fuori d’oro, conteneva le tavole dei comandamenti. Ma era anche un’arma potentissima che re Salomone regalò alla regina di Saba nel viaggio di ritorno dalla Palestina ad Axum. Chi la toccava rimaneva fulminato. Quando nel 331 dopo Cristo l’ebraico regno axumita si convertì al cristianesimo, l’Arca divenne il simbolo più importante per la gerarchia religiosa ortodossa. Nessuno l’ha mai vista tranne un sacerdote che fa la guardia all’edificio dove è depositata. Viene portata in processione una volta l’anno ma diligentemente avvolta in una coperta che la nasconde agli occhi della folla enorme che accorre da ogni parte del Paese per onorarla.


La leggenda.

-   Una storia affascinante di religioni e migrazioni nel personaggio biblico
-  alla base della fondazione del regno

Bruna e sensuale, la regina di Saba stregò anche Stalin

di Armando Torno (Corriere della Sera, 11.03.2009)

Una e trina. Si definisce «nigra» nel Cantico dei Cantici. Ma per gli studiosi le donne evocate dal testo sono tre: la sposa, la femmina libera e la prostituta

Che relazione c’è tra la Regina di Saba e l’Etiopia? E quale rapporto ci fu tra questa donna che ha suscitato meraviglia nei secoli - anche Händel ne fu magato - e quella che corre in cerca d’amore nel Cantico dei Cantici? Ogni risposta deve cominciare da un semplice passo del piccolo libro sapienziale.

Diremo innanzitutto che Gerolamo, nella sua versione latina della Bibbia, la celebre Vulgata, rende il versetto 1,5 del Cantico con queste parole: «Nigra sum sed formosa/ filiae Ierusalem/ sicut tabernacula Cedar/ sicut pelles Salma». L’attuale traduzione italiana utilizzata dalla Chiesa Cattolica (Cei, 2008) è la seguente: «Bruna sono ma bella/ o figlie di Gerusalemme/ come le tende di Kedar / come le cortine di Salomone».

Il latino nigra, l’attuale bruna, equivale all’ebraico šehôrâ, ovvero nera (femminile di šahor). Apparentemente è un termine facile, in realtà cela significati a cominciare dalle sequenza consonantica šhr: in essa si possono trovare le ragioni del «desiderare ardentemente», del «ricercare», o di «essere nero». L’esegesi spiega il passo ricordando che la carnagione scura - l’aveva anche la sposa egiziana del Salomone storico - è tuttavia tipica di una ragazza abbronzata a causa dei lavori agricoli. Del resto, non pochi antichi poeti arabi amano opporre il colore chiaro delle giovani nobili (nel Cantico sono le Figlie di Gerusalemme) a quello di schiave e serve che svolgono lavori al sole. Ma c’è qualcosa da aggiungere: la radice šhr diventa in taluni passi del piccolo libro biblico - per esempio in 3,1 e 5,6: «L’ho cercato, ma non l’ho trovato» - un sinonimo intensivo di un’altra sequenza consonantica, bqš, che nel Cantico appare e scompare indicando l’inquietudine d’amore della donna. Gerolamo, sempre meraviglioso nelle sue soluzioni, sceglie «formosa», placando la sete di sensualità imprigionata nel soffio impronunciabile.

Fermiamoci qui, ché si potrebbe continuare all’infinito, per sottolineare che le donne del breve poemetto non sono una ma tre (è la tesi di Giovanni Garbini: Cantico dei Cantici, Paideia 1992). Si vedono e si nascondono nella corsa d’amore la sposa, la donna libera e la prostituta. Per questo nel rincorrersi dei giochi tra sillabe e sentimenti è lecito evocare la Regina di Saba che giunge a Gerusalemme per mettere alla prova la saggezza di Salomone e rimane incantata dalla sua sapienza. È una visita attuata senza badare a spese.

Si legge nel Primo libro dei Re: «Ella diede al monarca centoventi talenti d’oro, aromi in gran quantità e pietre preziose» (10,10). La regina senza nome - la leggenda musulmana la chiama Balkis e quella etiope Makeda; Saba non è una località ma una popolazione: la parola è la trascrizione greca di Sheba - intraprende il suo viaggio per stipulare un accordo commerciale, giacché il re controllava le vie di comunicazione e quindi poteva danneggiare gli affari dei Sabei che, tra l’altro, riscuotevano gabelle dalle carovane di passaggio.

Il regno di Saba si estendeva nell’Arabia meridionale, in coincidenza con l’attuale Yemen. Ha una storia fascinosa, della quale fanno parte anche migrazioni in Etiopia (le vicende, con ricca iconografia, sono ricostruite da Giovanni Garbini e Bruno Chiesa nel volume I primi Arabi, Jaca Book 2007). Del resto, il Paese che sorge sull’altra riva del mar Rosso, proprio l’Etiopia, rivendica il figlio nato dal leggendario amore che si accese tra la regina e Salomone. Lo chiamarono Menelik ed è l’antenato degli imperatori etiopi. Il monarca di questa terra vanta tra i suoi titoli «Leone vittorioso della tribù di Giuda». Non a caso il suo emblema è una stella a sei punte che evoca quella di Davide. La Regina di Saba diventò un’icona per le onorificenze dell’Etiopia: nella tesoreria del Museo Statale di Storia, che si affaccia sulla piazza Rossa a Mosca, è conservata una grande medaglia che il Negus mise sul petto a Stalin (l’onore toccò anche ad Eisenhower).

Morale del racconto. La donna - le rappresenta tutte - del Cantico è scura, come la Regina di Saba, come le etiopi. È sensuale, come prova la radice ebraica accennata. Senz’altro volle conoscere la carne, oltre alla sapienza di Salomone, e se ciò accadde nessuno ci impedisce di credere che il continuo amplesso evocato dal poemetto sia metafora del viaggio d’amore della Regina. Difficile dire se Stalin pensasse a lei, dopo aver ricevuto la medaglia, ma in nessuna foto la mostra. Aveva letto troppo attentamente Machiavelli per concedersi questo lusso biblico.

Ma la sacralità nell’Etiopia settentrionale si respira in ogni villaggio. Nonostante sia praticamente circondato da Paesi musulmani l’antica Abissinia ha mantenuto una cristianità profonda, fatta di riti antichissimi. L’influenza islamica però si sente, ad esempio, nel dover togliersi le scarpe quando si entra in una chiesa, esattamente come si fa per le moschee. Molti dei monasteri ortodossi sono vietati alle donne, come quello di Debre Damo il più antico dell’Etiopia. Situato sul cucuzzolo di una montagna, si raggiunge infilandosi in una cesta che viene tirata su dai sacerdoti con una fune. Si sale gratis, ma se poi non si dà una consistente mancia i santi signori non ti fanno più scendere. Il monastero contiene un’incredibile collezione di più di mille testi sacri scritti e decorati a mano e frammenti di antichi manoscritti.

Decine e decine di chiese e monasteri, alcuni dei quali edificati nel 13˚ secolo ma quasi tutti vietati alle donne, si nascondono nelle 37 isole e sulle rive del lago Tana. Forse il luogo di culto più spettacolare è quello di Ura Kidane Mehret.

Ad Addis Abeba, la capitale dell’Etiopia, si può ammirare un piccolo gioiello, la cattedrale di San Giorgio, curiosa per la sua forma ottagonale. È molto più giovane di tutti i tesori del Paese, costruita dopo la battaglia di Adua del 1896 dai prigionieri di guerra italiani. Spettacolari le vetrate con immagini sacre. Qui furono incoronati gli imperatori Zewditu nel 1917 e Hailè Selassie nel 1930. Anche loro con un rito sacro.



-  Una mostra a Cà Foscari

-  I legami Già nel ’400 la Serenissima aveva rapporti con il Corno d’Africa
-  L’influenza Uno sviluppo artistico segnato dai pittori inviati dai Dogi

Il tesoro d’Etiopia

Venezia riscopre l’Impero del Leone con l’arte della Chiesa delle Origini

di Martina Zambon (Corriere della Sera 11.03.2009)

Esistono mostre atipiche. Come questa che sceglie un versetto del Cantico dei Cantici come titolo, «Nigra sum sed formosa» per invocare la maestosa figura della Regina di Saba, mostra nata e cresciuta all’interno di un ateneo con la collaborazione, però, di una banca. Un tema «di nicchia», l’arte sacra della cristiana Etiopia, presentato da un ologramma come guida, un iPod touch per orientarsi fra manoscritti, reportage filmati, antichi oggetti liturgici.

Un viaggio possibile, forse, solo a Venezia, porta misteriosa fra Occidente e Oriente, fra Europa e Africa. Cinque secoli prima che Picasso «scoprisse» lo spigoloso carisma dell’arte africana dipingendo le sue «Demoiselles d’Avignon», il sodalizio commerciale e culturale fra Venezia e l’Etiopia scintillante di icone e croci astili era già consolidato. Ed ecco la prima grande mostra italiana dedicata all’arte millenaria dell’Etiopia. La scelta di ospitarla a Venezia è sembrata naturale, già nel ’400 la Serenissima instaurò un rapporto molto solido con il regno che dominava il Corno d’Africa. Tanto da inviare laggiù i suoi pittori che avrebbero impresso un’impronta indelebile allo sviluppo artistico etiope.

L’Etiopia, in cui ancora oggi sussiste una sorta di chiesa delle Origini, degli Apostoli, costituisce un unicum visto che, rapidamente, l’impero del Leone si trovò circondato da popoli islamici. L’esposizione racconta questa storia affascinante a partire dai suoi protagonisti: la Regina di Saba; il re Lalibela (sec. XII-XIII), da cui prende nome la città santa costruita sulle montagne del Lasta, la «Nuova Gerusalemme». E poi ancora, il re Zar’a Yâ’qob che, nel XV secolo, aprì decisamente alle presenze occidentali; il pittore veneziano Nicolò Brancaleon, detto Marqorêwos (Mercurio), documentato alla corte dei re Eskender e Lebna Dengel fra XV e XVI secolo.

Ad accompagnare i visitatori nella mostra allestita a Ca’ Foscari sarà il professor Stanislaw Chojnacki, patriarca degli studi moderni sull’arte etiopica, o meglio, sarà il suo ologramma a grandezza naturale. Il filo narrativo parte dal piano terra che avviluppa il visitatore con fotografie, filmati e colonna sonora per arrivare alle acqueforti di Lino Bianchi Barriviera sulle chiese rupestri fatte erigere dal re Lâlibalâ. Scorci e decorazioni di questi edifici sono proiettati sulle pareti delle sale adiacenti al salone d’ingresso, sul cui soffitto, invece, viene proiettato una sorta di rotolo magico. Nella sala di collegamento al piano superiore si incontrano le vetrine con croci astili di squisita fattura. Protagonista indiscusso del secondo salone è il Mappamondo di Fra Mauro, capolavoro cartografico della Biblioteca Marciana, concesso, per la prima volta in prestito esterno.

Dalla cartografia ai libri, il secondo salone si impreziosisce con codici miniati e rotoli magici. Quattro sale contigue allineano decine di icone, per lo più inedite, dal XV al XIX secolo. Un’intera sala è, invece, dedicata a Nikolaus Brancaleon, il pittore veneziano inviato dal doge in Etiopia nell’ultimo scorcio del ’400. In mostra il bellissimo dittico del Museo etnologico di Zurigo attribuito alla sua bottega.

Prestiti internazionali prestigiosi resi possibili dalla curatela dei professori Giuseppe Barbieri dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, Gianfranco Fiaccadori della Statale di Milano, dell’architetto Mario Di Salvo, direttore della Fondazione Montandon di Sierre (Canton Vallese) per una mostra promossa da Università Ca’ Foscari di Venezia, Regione Veneto e Banca Popolare FriulAdria-Crédit Agricole che, dopo eventi come Pordenonelegge e altre esposizioni d’arte, si propone come partner continuativo per la fruizione dell’arte secondo un taglio innovativo, quello della multimedialità d’avanguardia.


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