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"IN HOC SIGNO VINCES". IL SOGNO COSTANTINIANO DI BENEDETTO XVI E L’ETÀ DELLO SPIRITO. INDIETRO NON SI TORNA

mercoledì 29 ottobre 2008
CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE (...) DEUS CHARITAS EST (...) ET NOS CREDIDIMUS CHARITATI
(1Gv., 4. 1-16).
CARISSIMI, NON PRESTATE FEDE A OGNI SPIRITO (...) DIO E’ AMORE
(...) E NOI ABBIAMO CREDUTO ALL’AMORE (1 Gv., 4. 1-16)
 (...)

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> "IN HOC SIGNO VINCES". ---- Costantino, santo tiranno (di Marco Rizzi)

domenica 18 marzo 2012

Costantino, santo tiranno

di Marco Rizzi (Corriere della Sera / La Lettura, 18 marzo 2012)

Un giorno d’autunno di millesettecento anni fa, un generale stupì i suoi soldati (e ancor più i nemici) guidandoli in combattimento sotto una nuova bandiera, che gli era apparsa in visione e gli avrebbe garantito la vittoria. La nuova insegna riportava il nome di un’altrettanto nuova divinità, Cristo. O almeno questo è quanto verrà accreditato dagli scrittori cristiani, che a partire dagli anni immediatamente successivi intorno alla figura di quel generale, Costantino, e alla sua conversione, costruiranno un vero e proprio mito destinato a durare per secoli e a ispirare artisti del calibro di Piero della Francesca e Raffaello.

A partire dal XIX secolo, la storiografia moderna ha iniziato a interrogarsi sulla veridicità dell’episodio e - soprattutto - sulla sincerità del sentimento religioso di colui che è passato alla storia come il fondatore dell’impero cristiano. In particolare, si è mostrato come un panegirico pagano riporti un episodio affine, nel quale ad apparire a Costantino sarebbe stato Apollo, manifestazione di quella divinità solare che aveva assunto un ruolo dominante nel pantheon tardoantico e cui sembrava rivolgere le sue preghiere, sino a quel momento, anche il futuro imperatore.

La battaglia di Ponte Milvio, presso Roma, segnò comunque una svolta nell’ascesa al potere di Costantino, allora quarantenne. Era figlio di Elena, donna di umili origini, e di Costanzo Cloro, un brillante generale, associato verso la fine del III secolo al sommo potere da Diocleziano, che aveva appena suddiviso l’impero tra due Augusti e due Cesari. Il complicato sistema istituzionale mirava a controllare meglio un territorio sconfinato e a impedire, grazie al bilanciamento dei poteri, le ricorrenti rivolte degli eserciti e le usurpazioni del trono.

Cresciuto alla sua corte, dopo l’abdicazione di Diocleziano Costantino si recò dal padre in Inghilterra e qui, alla morte di Costanzo Cloro nel 306, fu puntualmente acclamato imperatore dalle legioni. L’equilibrio tetrarchico sembrò reggere ancora per qualche tempo, grazie al matrimonio di Costantino con Fausta, figlia di Massimiano, Augusto d’Occidente.

Nel 310, Costantino ruppe con il suocero e lo sconfisse a Marsiglia; nel 312 passò in Italia e, dopo la vittoria di Ponte Milvio di cui si è detto, si incontrò a Milano con Licinio, che aveva assunto il controllo dell’Oriente. I due, rimasti i soli detentori del potere, dichiararono la libertà per ogni culto, incluso quello cristiano, con il cosiddetto editto di Milano del 313.

Anche in questo caso, l’equilibrio non durò a lungo e, dopo un decennio di conflitti, Licinio fu costretto ad abdicare nel 324. Una volta consolidato il suo potere con i metodi alquanto spicci dell’epoca (fece uccidere Licinio, Fausta e il proprio figlio primogenito Crispo, nato da un’altra relazione), il rude soldato si rivelò un notevole riformatore: Costantino accentrò la burocrazia civile e la distinse da quella militare, assegnò funzioni precise al consiglio di gabinetto, ristrutturò l’esercito, privilegiando una strategia di movimento rispetto allo stanziamento di truppe ai confini dell’impero, riformò la moneta per contenerne la svalutazione e cercò di vincolare ai loro obblighi economici e civili tanto i contadini e gli artigiani, quanto i maggiorenti delle città, che tendevano a sottrarsi ai gravosi e dispendiosi incarichi amministrativi.

In questo quadro si colloca la svolta nel rapporto tra l’impero e il cristianesimo; già in precedenza, esso aveva goduto di lunghi periodi di tranquillità, se non di grande vicinanza al potere, come con Alessandro Severo all’inizio del II secolo o con Filippo l’Arabo, verso la metà. In questo modo, i cristiani avevano potuto consolidare la propria presenza nella società antica, sviluppando una fitta rete organizzativa e di reciproca assistenza, accompagnata da una notevole attività intellettuale che sfidava, e al tempo stesso affascinava, le élite tradizionali.

I cristiani erano giunti a costituire all’incirca un decimo della popolazione, concentrandosi nelle città e stabilendo solidi contatti tra le Chiese delle diverse regioni dell’impero. Soprattutto, avevano costruito un peculiare assetto istituzionale, incentrato sulla figura del vescovo, scelto dall’assemblea dei fedeli o da una cerchiapiù ristretta di anziani, i presbiteri, secondo il modello delle sinagoghe ebraiche. Il vescovo cristiano, però, assommava in sé non solo funzioni di tipo religioso-sacerdotale, bensì anche di gestione e di controllo delle risorse della comunità, su cui esercitava un controllo di tipo disciplinare.

Nel progressivo venir meno del senso civico delle tradizionali élite locali, l’emergere della nuova figura del vescovo quale leader legato alla comunità, dotato di risorse economiche e simboliche, dovette costituire agli occhi di Costantino una straordinaria opportunità per accompagnare al disegno di riforma e accentramento del potere politico-militare un movimento di segno opposto, che potesse radicare il suo nome e la sua azione nei gangli vitali dell’impero, le città.

Ricevendo sontuosamente i vescovi provenienti da tutte le province per il Concilio di Nicea del 325, Costantino non esitò a chiamarli «amici», un termine chiave del lessico politico antico, e li accolse come suoi pari a banchetto nel palazzo, proclamandosi enigmaticamente «vescovo di quelli che sono fuori».

Da qui deriva il sistematico appoggio non astrattamente alla Chiesa, bensì assai concretamente ai suoi vescovi, per mezzo di dotazioni economiche, concessione di privilegi, assegnazione di funzioni pubbliche quali la possibilità di emettere sentenze con valore civile in varie materie, sottraendole ai magistrati ordinari, spesso corrotti. Soprattutto, Costantino promosse una campagna di edificazione di chiese, che ebbe il suo culmine nella costruzione del complesso basilicale del Santo Sepolcro, a Gerusalemme, dove si era recata in pellegrinaggio la madre Elena che, secondo la leggenda, avrebbe ritrovato sul Golgota il legno e i chiodi della croce di Cristo. In cambio di tutto ciò, Costantino avrebbe voluto che i vescovi conservassero tra loro la massima concordia, al di là dei conflitti dottrinali che endemicamente percorrevano la Chiesa; un desiderio, però, destinato a restare frustrato.

L’impresa che ne riassume la grandezza e le contraddizioni è l’edificazione della città che porta il suo nome, Costantinopoli: pensata per soppiantare l’antica, la «nuova Roma» fu consacrata nel 330, sette anni prima della sua morte, con un curioso sincretismo di cerimonie tradizionali e di riti cristiani.

Del resto, Costantino non aveva mai del tutto rinunciato a titoli e funzioni proprie del passato pagano; e prudentemente si fece battezzare solo sul letto di morte, probabilmente senza capire appieno a quale partito teologico appartenesse il vescovo che gli impartiva il sacramento (in ogni caso, non era in linea con la posizione ortodossa, che si sarebbe definitivamente affermata solo nei decenni successivi). Fu sepolto accanto a dodici tombe vuote che rappresentavano quelle degli apostoli, e ancora oggi la Chiesa ortodossa lo venera come santo.


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