Il Papa e il pasticcio messicano
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 22 marzo 2012)
Come l’ombra di Banquo nel “Macbeth” lo spettro delle vittime degli abusi sessuali, commessi dal fondatore dei Legionari di Cristo, si erge dinanzi a Benedetto XVI che domani parte per il Messico. Chiedono conto degli insabbiamenti decennali del Vaticano. Chiedono conto delle decisioni prese nella Congregazione per la Dottrina della fede, di cui Joseph Ratzinger era prefetto quando gli abusati chiedevano giustizia e nessuno muoveva foglia.
Prima ancora di prendere l’aereo Benedetto XVI vede avvicinarsi una tempesta dell’opinione pubblica e nuovamente, come tante altre volte, ci si domanda chi consiglia il pontefice e quanto i suoi più stretti collaboratori abbiano il polso della situazione.
PERCHÉ pochi giorni fa era stato proclamato con sicurezza in Vaticano che il pontefice non avrebbe incontrato durante la sua permanenza in Messico nessuna vittima di pedofilia. “Escluso”, era stata la dichiarazione categorica. Un paradosso. Benedetto XVI, che si è incontrato con le vittime di abusi negli Stati Uniti, in Inghilterra, a Malta, in Australia e pochi mesi fa in Germania, avrebbe voltato la testa dall’altra parte in Messico. Proprio dove è sorta la stella del demoniaco fondatore di un potente movimento religioso, Marcial Maciel, abusatore di seminaristi, “bigamo e oltre”, i cui comportamenti un comunicato ufficiale della Santa Sede del 1 maggio 2010 descrisse così: “Gravissime e obiettivamente immorali... si configurano talora in veri delitti e manifestano una vita priva di scrupoli e di autentico sentimento religioso”.
Spiegazione ufficiosa dell’incredibile rimozione dal programma il fatto che l’episcopato locale non aveva proposto un colloquio tra il pontefice e le vittime. Toppa peggio del buco. Ma se qualcuno sperava di poter nascondere il problema, si sbagliava. Le principali riviste messicane sollevano la questione nei loro servizi. “Proceso” pubblica in copertina la foto di Maciel con un titolo a caratteri cubici: “Il Vaticano sapeva tutto”.
E ORA, a poche ore dall’arrivo dell’aereo papale, irrompe sulla scena un manifesto pubblico firmato da Juan Josè Barba, una delle vittime più celebri che per anni bussarono invano alle porte di papa Wojtyla e della Congregazione per la Dottrina della fede, retta dal cardinale Ratzinger. “Santità - scrive Barba - Lei ha detto al giornalista (e biografo) Peter Seewald che solo approssimativamente dal 2000” si ebbero elementi concreti sulle accuse contro il fondatore dei Legionari di Cristo. “Ma noi sin dal 1997, firmando una lettera aperta a Giovanni Paolo II, confidavamo in una risposta che rispettasse la verità, la carità e il diritto a noi dovuto”. Santità, ricorda ancora la vittima Barba, “il 17 ottobre 1998 presentammo domanda canonica (di apertura del processo) a Roma, che fu accettata dalla Sacra Congregazione per la Dottrina della fede, di cui Voi allora eravate a capo”.
È agli atti che all’epoca tutto fu insabbiato. (Ratzinger, così ha fatto intendere una volta il cardinale Schoenborn di Vienna riferendosi ad un’altra vicenda, si scontrò contro il muro di gomma dei più stretti collaboratori di Giovanni Paolo II e non ebbe il coraggio di sollevare il caso). Niente si mosse fino al momento in cui, morente Wojtyla nel 2005, Ratzinger mandò in fretta e furia il suo inviato mons. Scicluna a New York e Città del Messico, dove in poco più di una settimana si registrarono testimonianze disponibili da oltre dieci anni.
Ora la vittima Barba, anche a nome di altri abusati già defunti, chiede conto: “Eravamo costernati pensando come una saggezza così antica come quella della Chiesa potesse essere ingannata così facilmente (dalle false dichiarazioni di Maciel, ndr) e a livelli gerarchici così alti e per tanto tempo e in tanti luoghi nonostante le tante vittime e i tanto insistenti reclami... Però non venimmo ascoltati e non venimmo creduti”.