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Lo storico della filosofia Franco Volpi in coma. Gravissime le sue condizioni.

martedì 14 aprile 2009
FILOSOFO FRANCO VOLPI IN COMA PER INCIDENTE *
VICENZA - Lo storico della filosofia Franco Volpi lotta fra la vita e la morte nel reparto Rianimazione dell’ospedale di Vicenza in seguito a un incidente stradale di cui è rimasto vittima ieri mentre era in sella alla sua bicicletta.
L’incidente (...)

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>LA SELVAGGIA CHIAREZZA. SCRITTI SU HEIDEGGER. Gli scritti di Franco Volpi che delucidano il percorso del filosofo tedesco (art. di Franca D’Agostini - di Antonio Gnoli) -

sabato 12 novembre 2011


-  Così naufragò il grande bastimento di Heidegger
-  Volpi «La selvaggia chiarezza»: gli scritti che delucidano il percorso del filosofo tedesco
-  "La radicalità filosofica diventa vaniloquio, rifiuto della razionalità, visione catastrofica mal argomentata"

-  Franco Volpi LA SELVAGGIA CHIAREZZA. SCRITTI SU HEIDEGGER Adelphi, pp. 336, 16
-  Franco Volpi Il filosofo è scomparso nel 2009

-  di Franca D’Agostini (La Stampa TuttoLibri, 12.11.2011)

La selvaggia chiarezza, raccolta degli scritti su Heidegger di Franco Volpi, curata da Antonio Gnoli, è un libro importante per più ragioni, ma anzitutto perché mette in luce una questione cruciale, a cui dovrebbero essere interessati non soltanto gli heideggeriani, ma anche i filosofi analitici, e chiunque lavori in filosofia con la coscienza critica di quel che sta facendo, può fare e vuole fare. La questione è ben espressa nel titolo doppio dell’ultima importante opera di Heidegger, a cui è dedicato l’ultimo scritto della raccolta: Dall’evento. Contributi alla filosofia. Perché mai Heidegger adottò il doppio titolo? Perché non limitarsi al suggestivo Vom Ereignis o al minimalista Beiträge zur Philosophie? La diagnosi di Volpi, espressa con la pacatezza elegante e profonda che gli era caratteristica, è che Heidegger intendeva «tenere distinta la superficie, la facciata pubblica, da ciò che vi si nasconde». In altri termini: la filosofia è la domanda, la facciata pubblica, l’evidenza che ci interroga, e «dall’evento» è la risposta.

La questione cruciale è dunque chiara, e accompagna tutta l’opera di Heidegger, direi di più: accompagna quasi tutta la filosofia del Novecento. Si tratta del senso e del destino della filosofia, disciplina accademica, sapere istituito insieme agli altri, ma il cui stesso nome è improprio, implicando con il fileo una passione imbarazzante, e con la sofia una pratica di pensiero ed esercizio di vita tipicamente pre-scientifico e pre-accademico. Per di più, essendo la filosofia tecnicamente legata all’ esplorazione di concetti vasti e linguisticamente complessi, come essere, verità, giustizia, bellezza, ecc., diventa difficile pensarla in un’epoca in cui concetti di questo genere nella cultura comune, nella scienza, e nella vita pubblica, sembrano essere ormai «gli ultimi fumi della svaporante realtà», come scriveva Nietzsche.

In questa prospettiva si apre un modo di leggere Heidegger, ma più in generale la filosofia contemporanea, che ha orientato il lavoro di Volpi, un filosofo sottile e uno storico della filosofia, oltre che traduttore e interprete di Heidegger, purtroppo prematuramente scomparso. Chi è infatti Heidegger, per noi? L’ambiguo pensatore quasi-nazista; l’oscuro rimescolatore di carte concettuali, creatore di etimologie lambiccate e sbrigative analogie, interprete confuso e confondente dei grandi filosofi, maestro di tutti gli impasticciatori di professione che in suo nome e lanciando a casaccio le sue parole d’ordine hanno gettato nel fango e nella disperazione la grande tradizione della filosofia tedesca. Ma Heidegger, come Volpi ci insegna, è stato anche un pensatore «onesto», profondamente onesto nei confronti della filosofia. Anzi proprio tutte le sue bizzarrie espressive e i suoi argomenti imperfetti sono la testimonianza di un problema avvertito autenticamente. Non per nulla un periodo di crisi sopraggiunge per Heidegger negli anni 1936-46, quando medita il suicidio. Al centro della crisi, ricorda Gnoli nell’introduzione, non è tanto l’esperienza del nazismo ma il confronto con Nietzsche, che culmina con il Nietzsche , l’opera del 1961.

Trascurare il nazismo per preoccuparsi della filosofia fu la speciale insensatezza del lavoro heideggeriano. La prima grande opera di Heidegger, Essere e tempo (1927), si era interrotta «per il venir meno del linguaggio». L’operazione di «dire l’essere dal punto di vista dell’essere» risultava fallimentare, visto che comunque nel dire usiamo il linguaggio della tradizione filosofica, ed è quel linguaggio che secondo l’autore consegna l’essere all’oblio.

Di qui in avanti, Heidegger tenta nuove vie: «oltrepassare la metafisica»; abbandonare «il soggetto»; abbandonare «la filosofia» stessa; cercare una nuova lingua per il pensiero, una lingua «poetante», o «meditante». O anche: cogliere l’essere come evento della «provenienza», di cui il von è espressione. Ma a mano a mano la radicalità filosofica di Heidegger diventa vaniloquio, rifiuto della razionalità, visione catastrofica mal argomentata. E in ultimo, spiega Volpi, il «grande bastimento» del pensiero heideggeriano s’inclina, irreparabilmente, e va incontro a un clamoroso naufragio.


-  Spiegare Heidegger (finalmente)
-  Quei saggi che svelano il filosofo esoterico

-  Una raccolta di testi di Franco Volpi sul pensatore tedesco permettono di chiarire le sue idee e i suoi concetti
-  Troppo spesso si è giocato a ricalcare i termini tedeschi: un vezzo che ha impedito a tanti di leggerlo davvero
-  Le tormentate vicende esistenziali aiutano a capire un personaggio difficile e sfuggente

-  di Antonio Gnoli (la Repubblica, 12.11.2011)

Tradurre Heidegger, per Volpi, ha significato inoltrarsi nel vasto territorio della filosofia che il "mago di Messkirch" aveva percorso e mutato. Senza tuttavia dimenticare che, malgrado le novità radicali che gli si presentavano, l’obiettivo era mettere il lettore in grado di leggere quei testi e orientarsi. Per questo Volpi non ha mai ceduto al vezzo del gergo esoterico, tipico di quegli heideggeriani il cui operato, «per aver troppo giocato a ricalcare i termini tedeschi, risulta alla fine comprensibile solo a chi già conosce il tedesco». Lezione di umiltà basata su poche ma efficaci regole: fedeltà, leggibilità, comprensibilità del testo tradotto. Favorita, quest’ultima, per alcune opere particolarmente complesse, dallo strumento dei glossari. Attraverso di essi Volpi spiegava - con grande chiarezza - l’uso e il significato, spesso complicato e oscuro, del vocabolario heideggeriano. Proprio perché consapevole che non si dava la traduzione perfetta, egli cercò di arricchire l’apparato filologico e farne un mezzo indispensabile per chiunque si accostasse al testo tradotto.

Dopo Essere e tempo - opera del 1927 per molti versi innovativa, ma nella quale è ancora visibile lo sforzo dell’analitica esistenziale di trovare un fondamento all’agire pratico -, matura l’idea che il pensiero debba separarsi dai tradizionali linguaggi filosofici. Troppo condizionata dalle teorie della conoscenza, la filosofia è incapace di fornire una convincente giustificazione al proprio ruolo. Occorreva, perciò, cercare altrove le risposte a quella crisi che si era manifestata fin quasi dai suoi albori. Fin da quando - come fa notare Volpi - si assiste in Platone a un mutamento del concetto di verità: da evento o, meglio, apertura o non latenza dell’Essere a mero valore conoscitivo. È contro una tale regressione, di cui la metafisica si sarebbe resa colpevole, che Heidegger tentò - soprattutto a partire dai Contributi - di dare una risposta all’altezza della drammaticità concettuale che stava vivendo. Ne uscirono, come Volpi sperimentò, pagine tormentatissime e oscure. Per Volpi poco si capirebbe di quell’opera se non si tenesse conto anche dello scacco speculativo che il filosofo si era trovato a vivere. La baldanza con cui, solo un paio di anni prima, aveva ordito il discorso del rettorato (tenuto il 27 maggio 1933) lasciò lo spazio ai dubbi, alle incertezze, alle miserie del proprio tempo. A un tratto avvertì che la filosofia, la cui missione - secondo appunto le linee disegnate dall’Autoaffermazione dell’università tedesca - sarebbe dovuta essere quella di illuminare il cammino della nazione, scoprire le virtù originarie di un popolo, sollevare il potere dalle mediocri incombenze, non possedeva né la forza né la lingua per assolvere a tali compiti.

Con Essere e tempo Heidegger si era inoltrato a fari spenti nella notte novecentesca. Aveva combattuto una strenua battaglia contro le grandi macchine del pensiero confidando nella selvaggia chiarezza del suo talento filosofico. Si sentiva un uomo in guerra con il vecchio mondo. Si considerava il nuovo. E quando il nuovo non produsse ciò che si attendeva, quell’uomo complicato, impenetrabile, tagliente all’improvviso smarrì ogni certezza.

A questo punto della vita di Heidegger si affacciò in Volpi il bisogno di una istruttoria psichica che chiarisse il senso di un decennio drammatico (dal 1936 al 1946) nel quale il filosofo -secondo la testimonianza privata riferita da Otto Pöggeler allo stesso Volpi - pensò perfino al suicidio. Cosa accadde di tanto grave da spingere Heidegger a meditare un gesto così estremo? Volpi insiste molto sui riflessi negativi - almeno sul piano nervoso - che ebbero i seminari e i corsi universitari su Nietzsche. Ci fa rivivere il clima di profonda crisi personale e filosofica nel quale Heidegger è immerso, finendo così «per esperire su di sé tutta la devastante potenza della scepsi nietzscheana. E nel suo corpo a corpo con i testi e con le pericolose fantasmagorie che essi evocano finisce per precipitare, egli stesso, in quello che da un certo momento in poi chiamerà "l’abisso di Nietzsche"».

Ad aggravare lo stato di prostrazione nel quale il filosofo era caduto contribuiranno le accuse psicologicamente devastanti di collaborazionismo, alle quali seguiranno, come effetti immediati, la requisizione della casa, il tentativo di sequestrargli la biblioteca, l’obbligo di lavorare nelle squadre incaricate di ripulire le città tedesche dalle macerie e, naturalmente, l’allontanamento dall’università.

Insistiamo su questo punto perché siamo convinti che Volpi non fu indifferente alla vita privata di Heidegger. Non riteneva che questa incidesse sulla riflessione teorica del filosofo, ma pensava tuttavia che il grafico esistenziale potesse completare una figura tanto difficile e sfuggente. C’era dunque un bisogno di capire, anche seguendo la via privata cosparsa di umori aspri, di scelte drammatiche, di soluzioni opportunistiche e di amori clandestini. A cominciare dal rapporto più intenso e sofferto di Heidegger: quello con Hannah Arendt, la passione irrisolta di una vita, per finire con quel moltiplicarsi di avventure galanti che fecero del filosofo - secondo la testimonianza delle lettere scambiate con la moglie Elfride Petri - il grottesco esempio di un marito infedele.

Tra autenticità e squallore, mondo dell’Essere e mondo ambiente, grandiosità e bassezza, l’oscillazione fu massima. Affrontarne il movimento pendolare per Volpi fu anche un modo per non distogliere lo sguardo dall’enigma politico di un pensatore frettolosamente liquidato per aberrazione ideologica. Ma in realtà - dopo la parentesi nazista - impegnato a dissolvere lo stesso nazismo negli acidi della modernità, e a vederne la forma totalitaria come un effetto della tecnica ormai planetaria.

Chi apre, insomma, questi testi con cui Volpi ha integrato il proprio lavoro di traduttore noterà la costruzione di un edificio laconico, ma indispensabile alla comprensione del filosofo. Dal quale, come mostra l’ultima delle sue introduzioni, qui presentata nella forma integrale rispetto alla versione pubblicata, stava lentamente prendendo le distanze. Non per insofferenza culturale o per noia, come accade, talvolta, in rapporti usurati dal tempo, ma per un ripensamento più radicale. Quasi che la misura retorica dell’ultimo Heidegger fosse colma e rischiasse di diventare uno sterile esercizio di pensiero. Volpi era ben conscio della tragicità filosofica nella quale Heidegger versava al punto da leggere molte sue pagine come una sorta di «diario di bordo di un naufragio». O più semplicemente come un fallimento assolutamente frainteso dagli heideggeriani, categoria alla quale Volpi non si iscrisse mai, detestando, come annotò, «quel l’ammirazione supina e spesso priva di spirito critico che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica».


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