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SOGNO E PENSIERO. SOGNO, DUNQUE SONO CREATIVO

mercoledì 10 giugno 2009
Ansa» 2009-06-08 22:59
DOPO UN SOGNO CI SVEGLIAMO PIU’ CREATIVI
ROMA - I sogni sono un propulsore della creatività, del pensiero creativo che porta alla soluzione ai problemi, infatti è durante la fase REM del sonno, quella in cui si sogna appunto, che il nostro cervello massimizza le sue (...)

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> SOGNO E PENSIERO. SOGNO, DUNQUE SONO CREATIVO ---- Perché non possiamo più dirci cartesiani (di Antonio Gnoli).

martedì 1 settembre 2009


-  Perché non possiamo più dirci cartesiani

-  Esce in una nuova edizione l’opera completa del filosofo che è all’origine della nostra modernità
-  Cosa resta di lui oggi che il suo motto è diventato "Non penso dunque sono"?
-  Si può sospettare che la sua filosofia sia stata un esempio di militarizzazione del pensiero
-  La sovranità assoluta del suo "Io penso" si è frantumata sui muri del Novecento

-  di Antonio Gnoli (la Repubblica, 01.09.2009)

Quando alla fine degli anni venti Edmund Husserl tenne le sue lezioni parigine su Descartes (che poco dopo sarebbero state raccolte con il titolo Meditazioni cartesiane), sembrava che la partita, giocata nel nome di un legame fondamentale tra filosofia e scienza, potesse avere la meglio sulle inquietudini e le incertezze speculative che negli stessi anni cominciavano a serpeggiare nella filosofia europea.

Perfino un acuto poeta aperto al pensiero scientifico, come Paul Valèry, nel ricostruire le algide movenze mentali di Monsieur Teste, rivendicava l’assoluta autonomia cartesiana del pensiero dalle faccende del mondo, lasciando al lettore la sensazione che una efficace macchina solipsistica potesse in qualche modo ristabilire la supremazia del cogito su tutto il resto. Ma quella vicenda, ammantata di razionalismo, andò come è noto in tutt’altro modo.

Del resto, quando René Descartes mise mano a quei due o tre capolavori filosofici che avrebbero segnato i secoli successivi - e tra questi Il discorso sul metodo e le varie Meditazioni - non poteva immaginare che proprio il Novecento avrebbe lasciato esplodere le grandi questioni da lui così efficacemente poste. È probabile perciò che egli stenterebbe a orientarsi tra le tumultuose trasformazioni che il pensiero filosofico ha subìto, allineando accanto alle celebri idee chiare e distinte quelle oscure e complicate di molti altri filosofi, e perfino semplicistiche, come si rileva attraverso il più efficace General Intellect che ci sia rimasto, ossia la televisione.

Ora, chi voglia in qualche modo rendersi conto di che cosa sia stato questo genio che seppe con eguale acutezza misurarsi con i grandi problemi della matematica e della filosofia, lo può fare grazie alla nuova edizione delle Opere che Bompiani pubblica in tre volumi a cura di Giulia Belgioso, studiosa che ha al suo attivo anche la cura di tutte le Lettere apparse sempre da Bompiani nel 2005. Grazie a questo programma meritorio di pubblicazione dei grandi testi della filosofia classica (e il merito è qui soprattutto di Giovanni Reale), abbiamo a disposizione, con testo a fronte, l’intero corpus cartesiano, vero e proprio monumento filosofico che è alle origini di tutte le possibili considerazioni sul moderno.

Ma chi è stato Descartes? Le poche immagini a disposizione lo ritraggono in pose che suggeriscono solidità di vedute e insieme qualcosa di sfuggente. Il capello fluente e mosso fin sulle spalle, la frangia irregolare che gli scende sulla fronte, il baffo e il pizzo à la mode secentesca, l’occhio di un pesce abituato alle profondità marine, restituiscono i tratti di un signore che avrebbe potuto intraprendere la professione del soldato, o quella del borghese se non proprio quella del filosofo. In effetti, non disdegnò le armate. Si arruolò nel reggimento del principe Maurizio di Nassau. Si conosce la sua passione per il gioco d’azzardo, la scherma e l’arte della fortificazione. E a volte si può anche sospettare che sia stato il primo vero esempio di una militarizzazione del pensiero filosofico.

Del resto erano anni in cui le guerre, i dissidi, le imboscate esplodevano improvvisi. L’urto delle armature, il rumore dei primi cannoni, lo spostamento delle truppe, gli assedi, rappresentavano uno spettacolo violento e prolungato nel tempo. Mostravano i segni che l’uomo lasciava sulla terra. Ma l’uomo era questo o anche altro? Il mondo nel quale Descartes si trovò a vivere si era improvvisamente svegliato da un profondo letargo. Il lungo dominio esercitato dalla teologia era minacciato dalle scoperte geografiche e scientifiche. Costruzioni del pensiero ritenute fino ad allora saldissime rischiavano di crollare sotto il peso delle insidie che la scienza, con Galileo, Harvey e poi Newton, aveva scatenato.

La mente prensile di Descartes si muoveva con estrema agilità in quella nuova visione del mondo. Il suo talento per le scienze non era da meno del suo genio filosofico. La sua ambizione era di riuscire a unire saldamente i due saperi: la filosofia non avrebbe dovuto fare a meno della scienza, che a sua volta si sarebbe dovuta servire delle conoscenze filosofiche per dar vita a quel sistema di regole certe senza il quale l’uomo avrebbe continuato a vivere nel disorientamento e nell’oscurità. Quella tensione fu il lascito che Descartes trasmise ai secoli successivi.

Anche nel merchandising filosofico Descartes eccelleva: fu un genio della formula breve. Coniò con tre parole una sentenza il cui successo sarebbe giunto indenne fino ai giorni nostri: Penso dunque sono. Icastica, evidente, esplosiva come un messaggio pubblicitario. Ma davvero pensare equivaleva ad essere? E poi pensare a cosa? Possiamo immaginare il filosofo mentre con cura esamina il dettato della mente e lo separa dal corpo; vederlo chino su quella macchina prodigiosa che è l’uomo, destinata a corrompersi; osservarlo davanti al sorprendente spettacolo che il mondo consegna al suo sguardo, colmo di ammirazione ma non fino al punto da trarlo in inganno. Troppe cose che vi accadono sono soggette alla contraddizione, alle incertezze.

Nasce qui il famoso dualismo cartesiano: separare e dubitare sono le sue armi conoscitive. Il dubbio in lui non ha una portata scettica. È un’arma metodologica per dirimere il vero dal falso, il reale dal sogno, il ragionevole dal folle. In genere queste partite filosofiche finivano ancor prima di cominciare. Prima di René la filosofia armeggiava con le sue certezze, le sue gerarchie, i suoi modi scolastici. Se si scrutava il cielo lo si faceva con gli occhi di Aristotele e guai a sgarrare, guai a controvertire idee e processi stabiliti e saldamente nelle mani dei dotti. Pensare in modo non retto poteva essere molto pericoloso. Descartes, così incline al nuovo, sapeva a cosa sarebbe andato incontro nel sostenere certe tesi. L’accusa di ateismo avrebbe potuto distruggergli la carriera, buttarlo nello sconforto o peggio in qualche buia galera.

Quest’uomo accorto - in corrispondenza con mezza Europa, mentre con l’altra metà litigava - era conscio di ciò che rischiava. Memore delle disavventure accadute a Galileo, della censura e poi dell’abiura nelle quali il grande scienziato era incappato, Descartes agì con cautela. Rinunciò a pubblicare alcuni libri. Il che non gli impedì di imbattersi in lunghe e asfissianti polemiche con chi vedeva nella sua filosofia una temibile rivoluzione, una cancellazione di Dio, un insulto ai grandi e stabili precetti della Chiesa. Il nichilismo, su cui oggi molto si discetta, incubava involontariamente nei pensieri di Descartes, prima che in quelli di Nietzsche.

Eppure egli non voleva sbarazzarsi di Dio. Anzi la sua ambizione era di dare a questa entità somma la dignità ontologica che le spettava. Ma dopo aver sentenziato cogito ergo sum, come poteva credere che i lupi della scolastica lo avrebbero risparmiato?

Proviamo a scendere per un momento nel dettaglio. Al penso dunque sono Cartesio vi giunge dopo un esame che libera il pensiero dalle insidie che la realtà può riservargli. D’altra parte, posso io dubitare di quest’ultima? Certo che sì, dal momento che potrei sognare ciò che ritengo di aver vissuto, o perfino posso essere ingannato da qualche diavolo, per non parlare del folle che ritiene che il suo corpo sia di vetro. La sola cosa che gli appare dotata di inoppugnabile certezza è l’idea stessa del pensare. Anche se sognassi, o fossi ingannato o finissi nei fumi dell’allucinazione, non potrei mettere in dubbio il fatto stesso che quelle cose le ho pensate.

Questa lezioncina di filosofia non sgomenti, perché l’aspetto interessante non è tanto l’argomentazione cartesiana, quanto quello che la celebre frasetta poté produrre sul piano delle conseguenze. Si può sospettare, per esempio, che penso dunque sono sia un duplicato della potenza divina, traducibile in Dio pensa, dunque è, dunque crea.

Ma il fatto di aver ricondotto questa potenza alla natura umana suggerisce questioni ulteriori. Che cosa accade se l’uomo si sostituisce a Dio? Descartes non era del tutto ignaro dei rischi ai quali sarebbe incorso dando all’Io penso lo statuto della sovranità assoluta. Tutte le avventure moderne del Soggetto nascono lì e si sviluppano fino a infrangersi sui muri del Novecento che frantuma quell’Io diventato impensabile.

È dunque un passaggio obbligato chiederci che cosa resta del nostro magnifico filosofo, espropriato di quell’Io sul quale tanta filosofia successiva ha provato in modi diversi a fondarsi. Oggi - che lo slogan è "non penso dunque sono" - oggi che il pensiero è diventato il più futile tra gli strumenti del conoscere, e che pensare equivale a quell’apparire sempre miracolosamente in bilico tra una certa idea di successo e l’essere ricacciati nell’anonimato, oggi che il corpo ha spostato in modo sensibile le argomentazioni filosofiche, non avrebbe molto senso definirsi cartesiani.

La monumentale iniziativa di Bompiani ci restituisce nella sua integrità filologica un’incantevole figura metafisica, dalla quale tutto ci divide tranne il desiderio di misurarsi con la sua intelligenza. Che fu aspra e scevra da pregiudizi, e in ultima analisi egocentrica e introspettiva come poche. Descartes morì nel 1650 a 54 anni per una polmonite. In spregio al medico curante che Cristina di Svezia gli aveva mandato, tentò di curarsi da solo. La leggenda vuole che sia stato avvelenato.


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