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LETTERATURA. NOBEL A HERTA MULLER, Motivazione: "Con la forza della poesia e la franchezza della prosa, descrive il panorama dei diseredati".

giovedì 8 ottobre 2009
Nobel per la Letteratura a Herta Muller
"Con la forza della poesia descrive il panorama dei diseredati"
Ansa,08 ottobre, 13:42
ROMA - Herta Muller ha vinto il Nobel per la letteratura. Ecco la motivazione del riconoscimento: "Con la forza della poesia e la franchezza della prosa, descrive il (...)

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> LETTERATURA. NOBEL A HERTA MULLER, ---- Oggi avrei preferito non incontrarmi (di Herta Müller) contiene quell’insensatezza, tutta kafkiana, della perdita di ogni logica nel rapporto tra l’uomo e un potere assoluto, tra l’uomo e il Dittatore che gli impone una propria, incomprensibile, logica (di Andrea Bajani -L’illogica dittatura).

domenica 19 giugno 2011

L’illogica dittatura

di Andrea Bajani (Il Sole-24 Ore, 19 giugno 2011)

Nella Lettera al padre Franz Kafka scrive che nel rapporto complesso che lo legava a suo padre c’era un aspetto che più di ogni altro determinava la propria sottomissione cieca e atterrita: l’insensatezza del castigo. Kafka scrive a suo padre: «Solo di un incidente dei primi anni ho un ricordo diretto. Forse anche Tu lo rammenti. Una volta, di notte, io piagnucolavo chiedendo acqua, certo non per sete ma probabilmente mezzo per infastidire mezzo per divertirmi. Dopo alcune minacce senza esito, Tu mi togliesti dal letto, mi portasti sul ballatoio e per un poco mi lasciasti lì in camicia davanti alla porta chiusa».

Quello che sconvolge il figlio è l’assenza di ogni comprensibile ratio: «Il fatto per me naturale del chiedere scioccamente da bere e quello straordinario e terribile di essere messo fuori sul balcone io non riuscii mai a porli nella giusta relazione». Anche ne La condanna, uno dei più noti racconti di Kafka, scritto di getto in una notte del 1912, non sembra esserci nessuna logica tra la frase del padre e il suicidio del protagonista. Il padre dice: «Ti condanno a morire affogato», e il figlio si lancia nel fiume.

Ecco, ogni riga di Oggi avrei preferito non incontrarmi, di Herta Müller (che arriva in Italia quattordici anni dopo la prima uscita in lingua originale) contiene quell’insensatezza, tutta kafkiana, della perdita di ogni logica nel rapporto tra l’uomo e un potere assoluto, dell’uomo piegato sul parapetto, sul ponte. O meglio, tra l’uomo e il Dittatore che gli impone una propria, incomprensibile, logica.

È proprio l’impossibilità di comprenderla, quella logica, a fare del potente un Dittatore, e del cittadino un inutile zero. Kafka assegna al padre la lettera maiuscola, lo innalza in un punto simbolico vicino al divino, e viceversa a se stesso riduce le misure fino a sparire. «Non sei che una manciata di nulla», è quello che si sente dire a bruciapelo la protagonista del romanzo di Müller. Da un lato la maiuscola del Padre, dall’altra la «manciata di nulla» della donna, e si sa che anche a prenderlo a manciate, il niente, anche a moltiplicare all’infinito lo zero, è sempre niente il risultato finale.

Non ha nemmeno nome, la donna che parla in Oggi avrei preferito non incontrarmi. Vive presumibilmente in una città della Romania di Ceausescu, lavora in una fabbrica che produce abiti destinati all’esportazione in Occidente, e subisce interrogatori da parte dei servizi segreti in cui è l’insensatezza, appunto, a dare il colore agli incontri. È una sorta di logica portata fino allo stremo delle forze, fino al parossismo, a rovesciarsi nel contrario: «Vengo convocata sempre più spesso: martedì alle dieci in punto, sabato alle dieci in punto, mercoledì o lunedì. Come se gli anni fossero una settimana, mi stupisco che dopo la tarda estate già ritorni l’inverno».

Il suo carnefice, si chiama Albu, il maggiore Albu, che la convoca e la interroga, la costringe a mentire, esibendo un dominio fisico assoluto, in cui seduzione e mortificazione coincidono: «Mi solleva la mano per le punte delle dita e mi schiaccia le unghie una sull’altra, tanto che potrei gridare. Con il labbro inferiore mi bacia le dita, quello superiore lo lascia libero per parlare». Lei ha alle spalle già molte macerie, un matrimonio durato poco, un suocero che aveva cercato di approfittare sessualmente di lei, un padre desiderato, amato e poi perso, un uomo accanto a sé, di nome Paul, alcolizzato, e legato a lei da un terrore che gli si è trasmesso in maniera virale, fin dalla prima volta in cui lei è stata convocata per essere interrogata.

È la paura assoluta, la paura del Padre, quella della condanna che non ha bisogno di esibire ragioni per abbattersi come una scure sul capo. Lei ha anche perso il lavoro, per un delatore vendicativo, che ha distribuito biglietti con su scritto «Tanti saluti dalla dittatura», spacciandoli per biglietti scritti da lei. E soprattutto ha perso Lilli, la sua amica più cara, creatura perduta e innocente, che aveva tentato di passare la frontiera al confine con l’Ungheria ma un soldato l’aveva fermata, l’aveva colpita con uno sparo alle spalle e Lilli era caduta, con i cani tutt’intorno che abbaiavano forte. E la frontiera era rimasta lì, invalicabile se non alle merci, ai vestiti che confezionavano ogni giorno dentro la fabbrica, affidando a loro qualche speranza, perché la portassero altrove.

L’unica possibilità che rimane, per resistere è farsi a metà. Quando la scure si abbatte sul capo, bisogna lasciarle soltanto la testa, offrire il corpo e dimenticarsi di avere anche altro. Senza concedere al Padre, al Dittatore, di prendere anche quello che passa di dentro: «Da quando lascio a casa la mia felicità, il baciamano non mi paralizza più come prima». Dimenticarsi di voler essere felice, lasciare il desiderio altrove, e sperare di ritrovarlo al ritorno. Perché è lì che il Padre, il Dittatore, vogliono stare: dentro la testa. A Paul il terrore arriva mentre dorme, la notte, senza che quasi ne abbia consapevolezza: «Nel sonno si allunga di traverso nel letto e si ritrae con un sussulto, così in fretta che senza svegliarsi si spaventa». È quello il posto del Padre di Kafka, la sua condanna a gettarsi nel fiume che all’inizio è solo parola, e poi però il corpo del figlio, il corpo di Giorgio, raggiunge davvero il parapetto, disperato, e si lancia giù, ormai condannato.

È di tutto questo che scrive Herta Muller, in questo romanzo potentissimo, ossessivo, che non dà tregua fino alla fine, fino alla speranza di non impazzire: «Sarebbe meglio se fossero le cose stesse a starti nella testa, pronte ad afferrare, invece dei pensieri sui quali si rimugina senza fine. Preferirei che il galoppino di Albu in persona stesse nella mia nuca invece della sua voce lieve che corrode ed è ancora in me dall’ultima volta. Soltanto cose solide che nella testa hanno bisogno unicamente del posto dove stanno. E negli interstizi resta spazio per la felicità».


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