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VISITA DI BENEDETTO XVI IN SINAGOGA. UNA TRISTE FARSA - di Gherush92

domenica 17 gennaio 2010
Gherush92
Committee for Human Rights
ECOSOC Organization
LA TRISTE FARSA DELLA VISITA
DEL PAPA IN SINAGOGA
I preparativi della visita del papa in sinagoga, così come riferito in un empio articolo apparso su Radio Vaticana, continuano a seminare sconcerto, dolore e rabbia. L’organo del (...)

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> VISITA DI BENEDETTO XVI IN SINAGOGA. UNA TRISTE FARSA ---- Un increscioso affronto simbolico alla memoria della Shoah coincide con un clamoroso riconoscimento canonico delle "virtù eroiche" di chi era pontefice durante lo sterminio degli ebrei (di Sergio Luzzatto) e altri articoli

martedì 22 dicembre 2009

Ma così si riaprono antiche ferite

di Sergio Luzzatto (Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2009)

La contemporaneità delle due notizie è da ritenersi casuale, ma colpisce ugualmente. In Polonia, alcuni criminali rubano da Auschwitz la scritta-simbolo della Soluzione finale, «Arbeit macht frei». In Vaticano, Papa Ratzinger firma il decreto che avvia Pio XII sulla strada della beatificazione. Un increscioso affronto simbolico alla memoria della Shoah coincide con un clamoroso riconoscimento canonico delle "virtù eroiche" di chi era pontefice durante lo sterminio degli ebrei

Nei giorni scorsi, le due notizie hanno provocato reazioni differenti. Il furto compiuto in Polonia ha suscitato l’unanime riprovazione dell’opinione pubblica internazionale, che ha tirato un grande sospiro di sollievo quando si è saputo che l’insegna era stata ritrovata. Il decreto firmato in Vaticano ha invece diviso. Da una parte gli apologeti di Pio XII, fieri che Ratzinger abbia rotto gli indugi e fiduciosi di vedere Pacelli elevato presto agli altari. Dall’altra parte i critici di Pio XII, inquieti che la decisione vaticana offenda le comunità ebraiche e penalizzi il dialogo interreligioso. In realtà, la doppia notizia di questi giorni andrebbe sottratta sia al tempo troppo rapido delle news, sia al riflesso quasi pavloviano delle contrapposte appartenenze. Andrebbe consegnata a un’analisi più distesa, a una riflessione più storica. Si scoprirebbe forse, a quel punto, che non tutto il male viene per nuocere.

Lo sciagurato furto di Auschwitz ha offerto una testimonianza straordinaria di come la Polonia stia cambiando. Nelle quarantotto ore intercorse fra il trafugamento dell’insegna e il suo ritrovamento, il paese natale di papa Wojtyla - amico vero degli ebrei - è stato colpito da un trauma collettivo. Di là dalla mobilitazione poliziesca per identificare e arrestare i responsabili del furto (a quanto sembra, non immediatamente legati a circoli neonazisti), la Polonia si è dimostrata compatta nel vivere l’episodio criminale come un terribile memento dei suoi trascorsi di nazione antisemita

Pochi anni fa, la pubblicazione di un libro di storia che sottolineava il volenteroso contributo dei polacchi alla Soluzione finale del problema ebraico (Jan T. Gross, I carnefici della porta accanto, Mondadori 2002) aveva suscitato reazioni piccate e scomposte nella Polonia dei fratelli Kaczynski e di Radio Maryia. Oggi, l’antisemitismo che tuttora alligna in alcuni settori della società polacca ha dovuto inchinarsi alle passioni e alle ragioni di una nazione altrimenti matura e civile. Quanto alla prospettiva di un’elevazione agli altari di Papa Pacelli, non c’è dubbio che si tratti di una faccenda carica d’implicazioni gravi. Lo attestano i segnali di protesta che si vanno levando - oltreché dalle comunità ebraiche - dagli ambienti cattolici più impegnati sul fronte dell’ecumenismo. La decisione di Joseph Ratzinger minaccia di riaprire ferite che ci si poteva augurare rimarginate per sempre grazie all’impegno di Karol Wojtyla.

Eppure, anche nel caso del decreto vaticano su Pio XII non tutto il male viene per nuocere. Perché qualunque cosa la Chiesa cattolica voglia decidere riguardo alla beatificazione di un papa, la collettività intera ha ancora bisogno di studiare, di ragionare, di sapere intorno alla questione del rapporto fra carnefici, vittime e spettatori della Shoah.

La storia guadagna poco da un approccio di tipo giudiziario, da una dialettica secca colpevole/innocente. E tanto meno guadagna la storia della Shoah, che tra il bianco e il nero conobbe infinite gradazioni di grigio. Pio XII non va trasformato nell’unico responsabile di quella che fu l’indifferenza diplomatica - o, peggio, il calcolo politico -anche delle maggiori potenze impegnate nella guerra contro il nazismo. Dal 1941 al ’45, il silenzio di Churchill e di Roosevelt (per tacere di Stalin) fu altrettanto assordante del silenzio di Papa Pacelli

Ciò detto, il Vaticano potrebbe ben guardare alla vicenda di cattolici i quali, durante la Soluzione finale, mostrarono di possedere "virtù eroiche" assai più sviluppate che quelle di Pio XII. Uno per tutti: Jan Karski, eccezionale figura di messaggero della Resistenza polacca presso i governi alleati. In un giorno d’agosto del 1942, questo giovane uomo vide lo spettacolo inenarrabile del ghetto di Varsavia, e da allora ebbe una sola idea fissa: far sapere al mondo che gli ebrei venivano sterminati. Le torture dei nazisti non lo fermarono. Fra il ’43 e i1 ’44 Karski fu a Londra, fu a Washington, bussò a tutte le porte di tutti i potenti della coalizione antihitleriana. Non fu creduto, ma non smise di battersi per salvare - se non la vita degli ebrei - almeno la coscienza del mondo. Lui sì che andrebbe fatto santo, santo subito. Sergio Luzzatto insegna storia moderna all’Università degli studi di Torino


Il papa dei troppi silenzi

di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2009)

Santo no. Anche se appare un leader importante della Chiesa del Novecento. Pio XII, che papa Ratzinger sta portando sugli altari, resta una figura controversa. Difficile presentarlo come simbolo e modello da seguire. È bastato che Benedetto XVI firmasse il decreto sulle “virtù eroiche” di Eugenio Pacelli (ultimo passo, oltre al riconoscimento di un miracolo, prima della beatificazione ufficiale) perché esplodesse nuovamente la crisi fra Ratzinger e il mondo ebraico. Il Papa dovrebbe recarsi in visita alla Sinagoga il 17 gennaio, ma ora tutto è in forse. Già l’anno scorso, proprio a causa dell’esaltazione di Pio XII fatta da Ratzinger, l’assemblea rabbinica italiana aveva cancellato la tradizionale giornata d’incontro cattolico-ebraica.

Faticosamente si era riallacciato il dialogo e adesso arriva la nuova gelata. Dietro le quinte sono in corso negoziati molto tesi perché il Vaticano garantisca che la beatificazione di Pacelli non abbia luogo almeno nel 2010 assieme a quella di Karol Wojtyla.

Continua a pesare su Pio XII l’atteggiamento di diplomatica prudenza di fronte all’Olocausto, quel “silenzio” che gli fu rimproverato dal drammaturgo Rolf Hochhuth nell’opera teatrale “Il Vicario”, che nel 1963 si conquistò risonanza mondiale. Ancora oggi i maggiori rappresentanti dell’ebraismo gli rimproverano di non avere detto una parola quando i nazisti rastrellarono a Roma, quasi sotto le finestre del Palazzo apostolico, e oltre mille ebrei che vennero deportati ad Auschwitz il 16 ottobre 1943.

Negli ultimi vent’anni l’immagine di papa Pacelli è rimasta schiacciata sulle vicende della Shoah, paradossalmente dopo che nell’immediato dopoguerra esponenti ebraici di primo piano come il premier israeliano Golda Meir lo avevano elogiato come difensore delle vittime dell’Olocausto. In effetti immaginare Pio XII tollerante verso il nazismo o peggio suo complice - secondo la tesi adombrata nel titolo del libro “Hitler’s Pope - Il Papa di Hitler” dello scrittore britannico John Cornwell - è una falsità. Pacelli aveva orrore di Hitler e dell’ideologia neopagana e razzista del nazismo. Negli archivi sono state trovate anche tracce di un suo cauto, ma convinto appoggio ai tentativi di circoli dell’establishment tedesco di eliminare il Führer. Né si può dimenticare l’impulso da lui dato a istituzioni e conventi cattolici per salvare in ogni modo un numero grandissimo di ebrei.

E tuttavia, nella stagione cruciale del duello mortale ingaggiato tra il nazifascismo e lo schieramento antifascista, divenuto poi in guerra il fronte degli alleati, Eugenio Pacelli è rimasto vittima di una concezione tutta politica e diplomatica della sua missione. Era preoccupato di salvaguardare per la Santa Sede una posizione al di sopra delle parti nel conflitto mondiale, preoccupato di garantire i diritti della Chiesa cattolica tedesca attraverso il Concordato offertogli da Hitler, preoccupato di mantenere per la Germania una funzione di baluardo nei confronti del bolscevismo, convinto di scegliere il male minore non chiamando per nome la bestiale persecuzione degli ebrei nell’intento di salvarli dietro le quinte.

Così Pio XII non ha saputo essere all’altezza del momento storico. Quanto più negli ultimi cinquant’anni è cresciuta la consapevolezza internazionale del carattere radicalmente disumano della Shoah tanto più appare chiaro che Pio XII ha mancato nel ruolo profetico che dovrebbe svolgere un “vicario di Cristo”. Ci sono tappe precise che testimoniano dei fallimenti di papa Pacelli, non riscattati dalla sincerità delle sue intime angosce. Come segretario di Stato vaticano Pacelli preme nel 1933 sul partito cattolico tedesco Zentrum affinché voti i pieni poteri a Hitler, prologo della dittatura organica. A Pacelli interessava ottenere il concordato con il Terzo Reich. Eppure i cattolici del Zentrum e i socialdemocratici avevano voti abbastanza per impedire l’approvazione della legge, ma Pacelli, diffidente della democrazia e avverso ai socialdemocratici, volle altrimenti. Subito dopo la conferenza episcopale tedesca fu costretta ad abrogare i suoi precedenti pronunciamenti antinazisti. E quando si verificò il gigantesco pogrom antiebraico della Notte dei Cristalli, la Chiesa stette in silenzio.

Appena eletto pontefice Pacelli mise nel cassetto il progetto di un’enciclica contro l’antisemitismo, progettata dal suo predecessore Pio XI. Non condannò decisamente la violazione della neutralità di Belgio e Olanda da parte delle truppe tedesche. Suscitò amarezza nei cattolici polacchi, che non si sentirono abbastanza difesi. Non denunciò apertamente lo sterminio degli ebrei, pur mandando messaggi chiari di simpatia e solidarietà al popolo ebraico usando un linguaggio allusivo. È in questo quadro che si situa il tragico silenzio sul rastrellamento dei 1021 ebrei romani nel 1943. Silenzio osservato, nella sua ottica, per aiutare le vittime.

Papa Wojtyla, nel suo viaggio in Germania nel 1996, elogiò i vescovi olandesi che avevano protestato pubblicamente contro le persecuzioni antisemite. La reazione nazista fu spietata, ma la citazione di Giovanni Paolo II rivelò eloquentemente che il pontefice polacco riteneva che dinanzi all’“Anticristo” non bisognasse fermarsi a fare di conto tra profitti e perdite.

Pio XII stesso sapeva che il suo silenzio sarebbe stato giudicato. Lo documenta l’interessante biografia di Andrea Tornielli (Mondadori). Tormentato, ne parlò già nell’ottobre del 1941 con l’allora nunzio Angelo Roncalli, futuro Giovanni XXIII. E appelli a levare profeticamente la sua voce gli vennero da personalità cattoliche francesi come Mounier e Mauriac, da Edith Stein, dal gesuita tedesco Friedrich Muckermann che già negli anni ‘30 si chiedeva perché la Chiesa si fermasse alla “tattica” e non denunciasse il nazismo con la stessa forza con cui combatteva il bolscevismo.

E così i silenzi di Pacelli hanno finito per oscurare anche il suo ruolo rilevante all’interno della Chiesa dopo la guerra. A studiarlo attentamente, il suo pontificato mostra importanti aperture nell’incoraggiare gli studi di esegesi biblica. È lui a dare un primo placet alle teorie evoluzioniste di Darwin come “ipotesi” accettabili. È lui ad autorizzare nei paesi del nord le messe nelle lingue nazionali. Lui a occuparsi per primo della regolamentazione delle nascite attraverso l’osservanza dei periodi fecondi e infecondi della donna. Lui, persino, a progettare un Concilio che mai si terrà. Poi c’è il capitolo della politica italiana, ma questa - come direbbe Kipling - è un’altra storia.


«Pio XII non condannò i nazisti»

intervista a Daniele Menozzi a cura di Luca Kocci (il manifesto, 22 dicembre 2009)

Tre giorni dopo il riconoscimento delle "virtù eroiche" di papa Pio XII, preambolo alla beatificazione, da parte di papa Ratzinger, il mondo ebraico manifesta a gran voce la sua contrarietà alla santificazione di un pontefice da più parti accusato di aver taciuto di fronte alla tragedia della Shoah. Anche se ieri Benedetto XVI, nel discorso alla Curia romana, ha detto che l’Olocausto «ha cacciato dal mondo anche Dio», non si placano le polemiche. «La beatificazione di Pio XII è inopportuna e prematura, sino a quando i suoi archivi del periodo 1939-1945 resteranno chiusi e non si saranno chiarite le sue azioni, o inazioni, sulla persecuzione di milioni di ebrei durante l’Olocausto», dichiara Ronald Lauder, presidente del World Jewish Congress. E gli ebrei italiani, il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna e il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, che il prossimo 17 gennaio accoglierà papa Ratzinger in visita alla sinagoga della capitale, pur non volendo «interferire su decisioni interne della Chiesa», ribadiscono che se la decisione vaticana significasse «un giudizio definitivo e unilaterale sull’operato storico di Pio XII, la nostra valutazione rimane critica».

«La ricerca storica ha dimostrato che Pio XII è intervenuto solo a livello diplomatico, facendo presente al governo di Hitler che la Santa Sede non condivideva le persecuzioni contro gli ebrei», spiega Daniele Menozzi, docente di Storia contemporanea alla Scuola normale superiore di Pisa ed esperto del papato novecentesco. «Ma papa Pacelli - prosegue - non ha mai assunto una posizione pubblica di condanna durante la guerra. E questo è dimostrato anche dal fatto che nel magistero pontificio del periodo bellico la parola ebrei non viene mai usata. Pio XII la pronuncerà solo molti anni dopo, a guerra finita, per dire che non si poteva fare nulla di più di quello che è stato fatto, in una sorta di autoassoluzione».

Alcuni storici vicini alla Santa Sede sostengono che il silenzio di Pio XII fosse tattico, per consentire alla Chiesa di poter aiutare gli ebrei in segreto, per esempio nascondendoli nei conventi. Cosa ne pensa?

Istituzioni ecclesiastiche e singoli cattolici hanno sicuramente offerto una via di scampo a molti ebrei, ma il punto non è questo. La ricerca non può assumere le categorie con cui gli attori giustificano i loro comportamenti, perché il giudizio storico può tenere conto delle intenzioni ma deve basarsi sui fatti e sui risultati. E i risultati sono che i silenzi di Pio XII non hanno evitato lo sterminio degli ebrei, anzi hanno fatto parte del contesto in cui esso si è verificato. Aggiungo tuttavia che constatare il silenzio di Pacelli sulla Shoah non vuol dire che non ne fosse intimamente inorridito, né che non la condannasse e nemmeno che non cercasse di limitarne, tramite la via politico-diplomatica, le spaventose conseguenze. Significa solo che non prese pubblica posizione su di essa.

Insieme a Pio XII, papa Ratzinger ha riconosciuto anche le "virtù eroiche" di Giovanni Paolo II, dicendo che "i santi non sono rappresentanti del passato ma costituiscono presente e futuro della nostra società". Esiste una sorta di "politica" vaticana delle canonizzazioni?

Per secoli la Chiesa di Roma non ha santificato dei papi. Poi, a partire dalla seconda metà del ’900, proprio con Pio XII, si è iniziato a canonizzare pontefici, soprattutto quelli del XX secolo, avviando una prassi, interrotta solo da Giovanni XXIII e Paolo VI, per cui i papi vengono fatti santi. C’è una spiegazione: un papato che si sente in difficoltà in una società contemporanea che sfugge al suo controllo tende a rafforzarsi santificando se stesso.

La decisione di affiancare Pio XII e papa Wojtyla è casuale?

Non credo. Mi sembra che si voglia ripetere quanto venne fatto da Giovanni Paolo II nel 2000 beatificando Pio IX, ovvero un papa molto controverso, insieme con Giovanni XXIII, un papa al contrario molto popolare. E anche oggi si mettono insieme il discusso Pio XII con il popolarissimo Wojtyla. Ma le difficoltà mi sembrano maggiori perché il rapporto di Pacelli con il mondo ebraico è una ferita ancora aperta.


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