Indovina chi viene in sinagoga
di don Filippo Di Giacomo *
Per coloro ancora indotti a pensare che i discorsi scambiati in sinagoga fra cattolici ed ebrei non servano, proviamo a fare un esercizio di memoria. La foto di Pio XII è stata posta nella settima sala dello Yad Vashem di Gerusalemme, sul muro della vergogna, nel 2005, all’apertura del nuovo museo, da un gruppo di ebrei italiani. Negli stessi mesi, altri ebrei italiani pensavano a far piantare alberi nei giardini dello stesso memoriale, dedicati a sacerdoti stretti collaboratori di Pio XII.
Sempre nel 2005, al momento dell’elezione al soglio pontificio di Benedetto XVI, il direttore dell’Anti-Defamation League, Abe Foxman dichiarava: «da un punto di vista ebraico, il fatto che venga dall’Europa è importante perché porta con sé comprensione e memoria della dolorosa storia dell’Europa e dell’esperienza degli ebrei europei nel XX secolo». Alcuni funzionari del ministero degli Esteri qualche giorno dopo, il 25 aprile, con una grettezza tale da essere riconosciuta successivamente dallo stesso governo israeliano, ordivano una campagna di odio e di insulti contro Benedetto XVI. Pretesti immaginari, ma risultati egregi fornirono al ministero degli Esteri israeliano la possibilità di ritirarsi dalla commissione che stava trasformando in legge gli obblighi assunti nel 1993 da Israele al momento del reciproco riconoscimento con la Santa Sede.
Nel febbraio del 2009, la società indipendente di studi socio-politici Smith Institut, ha condotto in Israele una ricerca per valutare la percezione e l’opinione dei cittadini israeliani in merito al cattolicesimo. La ricerca ha dato risultati (pubblicati dal quotidiano Yediot Ahronot a fine febbraio) sorprendenti solo per i distratti ed è stata condotta tra le due querelles che hanno infiammato il mondo cattolico-ebraico agli inizi del 2009: una scaturita dalle affermazioni negazioniste del vescovo Williamson, l’altra dalle battute sacrileghe anticristiane di un comico ebreo sulla Tv commerciale Canale 2. I dati tengono conto di coloro che abitano Israele da laici e di quelli che invece vi risiedono come “osservanti”.
È una distinzione assai particolare che, fuori d’Israele, rischia di avere poco senso: se l’ortodossia è determinata dal grado di aderenza alle leggi e alle pratiche religiose ebraiche, solo il 20 per cento degli ebrei israeliani adempie a tutti i precetti religiosi, il 60 per cento adotta una combinazione di leggi secondo scelte personali e tradizioni etniche, ed il 20 per cento è essenzialmente non osservante. In Israele il 54% dei cittadini laici considera il cristianesimo vicino all’ebraismo e molto più amichevole dell’islam; la quasi totalità ritiene gli arabi israeliani di fede cristiana ottimi cittadini; il 91% non è disturbato dai simboli cristiani; l’80% non ha difficoltà a visitare le chiese cristiane; il 71% riconosce ai cristiani il diritto al proselitismo anche in Israele; il 68% vorrebbe che il cristianesimo fosse studiato nelle scuole (e il 52% estende tale desiderio anche ai Vangeli) e oltre il 50% sarebbe d’accordo con il finanziamento dello stato per le chiese cristiane così come avviene per le sinagoghe.
Come ci insegnano i nostri storici più avvertiti, è davanti al muro della morte di Auschwitz e negli abominevoli resti della catena industriale di camere a gas e crematori di Birkenau che è nata l’Unione Europea. In Israele, avamposto democratico, dopo 14 anni la discussione in merito alla parte applicativa dell’approdo israelo-vaticano sulla presenza e le attività delle comunità cattoliche residenti sul territorio dello Stato d’Israele è ancora aperta.
A ottobre, a Roma, quando si riunirà il Sinodo dei vescovi per il medio oriente si discuterà sul deficit di democrazia e libertà religiosa di cui, soprattutto i cristiani, soffrono nei Paesi del mediterraneo e della penisola arabica. Il 17 gennaio, nella sinagoga di Roma, quando Benedetto XVI spesso anche calorosamente applaudito - nel suo discorso di risposta - ha chiesto che in Terra Santa «tutti percorrano umilmente il cammino della giustizia e della compassione», le mani degli astanti sono rimaste ben ferme. Un silenzio che rivela anche nell’ebraismo italiano la forza di chi crede che i governi israeliani non vadano mai criticati. Dalla stessa società israeliana giungono invece le voci forti di chi sostiene strenuamente che la mancanza di chiarezza in materia di diritti fondamentali rallenterà all’infinito il cammino della pace.
Quando la foto di Pio XII sarà staccata dal muro della settima sala dello Yad Vashem, sapremo che la discussione - che gli israeliani stanno conducendo sempre “al rialzo” - sul primo abbozzo di un concordato mediorientale, non più legato “al favore del principe” ma basato su diritti riconosciuti e condivisi, sta per aprire una nuova, bella pagina di democrazia e di cittadinanza per tutti.
* l’Unità, 27 gennaio 2010