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PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE. CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, CREDO CHE SIA ORA DI FARE CHIAREZZA. PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI ... di Federico La Sala

martedì 4 novembre 2014
CRISI COSTITUZIONALE (1994-2011). DUE PRESIDENTI GRIDANO: FORZA ITALIA!!! LA DOMANDA E’: CHI E’ "PULCINELLA"? CHI IL MENTITORE?
AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA L’INVITO A RIPRENDERSI LA "PAROLA" E A RIDARE ORGOGLIO E DIGNITA’ A TUTTO IL PAESE: FORZA, VIVA L’ITALIA, VIVA L’ ITALIA!!!
ITALIA: LA (...)

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> CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, CREDO CHE SIA ORA DI FARE CHIAREZZA. ----- Le istituzioni e le persone (di Michele Ainis) - La verità e le regole (di Carlo Galli) - Palermo non ci sta: "regole rispettate" (di Marco Lillo)..

martedì 17 luglio 2012

Le istituzioni e le persone

di Michele Ainis (Corriere della Sera, 17.07.2012)

Un conflitto di attribuzioni non è una guerra nucleare. Serve a delimitare il perimetro dei poteri dello Stato, a restituire chiarezza sulle loro competenze. E la democrazia non deve aver paura dei conflitti: meglio portarli allo scoperto, che nascondere la polvere sotto i tappeti. Sono semmai le dittature a governare distribuendo sedativi.

Eppure c’è un che d’eccezionale nel contenzioso aperto da Napolitano contro la Procura di Palermo. Perché esiste un solo precedente, quello innescato da Ciampi nel 2005 circa il potere di grazia. Perché stavolta il capo dello Stato - a differenza del suo predecessore - rischia d’incassare il verdetto della Consulta mentre è ancora in carica, sicché sta mettendo in gioco tutto il suo prestigio. Perché infine il conflitto investe il ruolo stesso della presidenza della Repubblica, la sua posizione costituzionale.

Domanda: ma è possibile intercettare il presidente? La risposta è iscritta nella legge n. 219 del 1989: sì, ma a tre condizioni. Quando nei suoi confronti il Parlamento apra l’impeachment per alto tradimento o per attentato alla Costituzione; quando in seguito a tale procedura la Consulta ne disponga la sospensione dall’ufficio; quando intervenga un’autorizzazione espressa dal Comitato parlamentare per i giudizi d’accusa. Quindi non è vero che il presidente sia «inviolabile», come il re durante lo Statuto albertino. Però nessuna misura giudiziaria può disporsi finché lui rimane in carica, e senza che lo decida il Parlamento.

Dinanzi a questo quadro normativo la Procura di Palermo ha scavato a sua volta una triplice trincea.
-  Primo: nessuna intercettazione diretta sull’utenza di Napolitano, semmai un ascolto casuale mentre veniva intercettato l’ex ministro Mancino.
-  Secondo: le conversazioni telefoniche del presidente sono comunque penalmente irrilevanti.
-  Terzo: i nastri registrati non sono mai stati distrutti perché possono servire nei confronti di Mancino, e perché in ogni caso la loro distruzione passa attraverso l’udienza stralcio regolata dal codice di rito.

Deciderà, com’è giusto, la Consulta. Ma usando il coltello della logica, è difficile accettare che sia un giudice a esprimersi sulla rilevanza stessa dell’intercettazione. Perché delle due l’una: o quest’ultima rivela che il presidente ha commesso gli unici due reati dei quali è responsabile, per esempio vendendo segreti di Stato a una potenza straniera; e allora la Procura di Palermo avrebbe dovuto sporgere denuncia ai presidenti delle Camere, cui spetta ogni valutazione.

Oppure no, ma allora i nastri vanno subito distrutti, senza farli ascoltare alle parti processuali. Come avviene, peraltro, per ogni cittadino, se intercettato mentre parla con il proprio difensore (articoli 103 e 271 del codice di procedura penale). E come stabilì il Senato nel marzo 1997, quando Scalfaro venne a sua volta intercettato. In quell’occasione anche Leopoldo Elia, costituzionalista insigne, dichiarò illegittime le intercettazioni telefoniche del capo dello Stato, sia dirette che indirette. Perché ne va dell’istituzione, non della persona. Le persone passano, le istituzioni restano.


La verità e le regole

di Carlo Galli (la Repubblica, 17.07.2012)

IL CONFLITTO fra i poteri dello Stato sollevato dalla Presidenza della Repubblica contro la Procura di Palermo, e portato davanti alla Corte costituzionale, ha indubbiamente gravissime implicazioni e altissime potenzialità di crisi istituzionale. Che vanno chiarite al più presto e, se possibile, raffreddate.

Osservato che non erano né irrilevanti né infondate le perplessità sollevate a suo tempo da Eugenio Scalfari sulla vicenda delle intercettazioni indirette al capo dello Stato, e che non del tutto chiare erano state le risposte dei magistrati di Palermo, si devono primariamente operare distinzioni.

La prima delle quali è tra la persona di Napolitano e la materia processuale nel cui ambito le intercettazioni sono avvenute - che è la complessa indagine sulla trattativa Stato-mafia del 1992-1993. La verità pubblica e ufficiale su quella trattativa - se c’è stata, per ordine di chi, in quali termini - deve essere accertata attraverso la via giudiziaria: è, questo, un dovere istituzionale della magistratura, dalla quale l’opinione pubblica democratica si attende comportamenti ineccepibili e radicali, che facciano luce piena su un passaggio oscuro, e cruciale, della storia della repubblica. La verità è interesse di tutti gli onesti; anzi, è loro diritto.

Ma nessuno può pensare che quella verità stia nelle risposte di Napolitano a Mancino, che gli telefonava. Nel merito, le parole di Napolitano non possono dire nulla di rilevante su quella vicenda. E chi chiede che vengano stralciate e distrutte non sta coprendo reati, o ombre, o opacità. Sta invece chiedendo che vengano rispettate le prerogative del capo dello Stato, che in circostanze come queste non può essere intercettato neppure occasionalmente e incidentalmente. Come appunto sostiene Napolitano, preoccupato non per sé ma per la carica istituzionale che ricopre, che vuole consegnare al successore priva di ogni lesione nei poteri e nei diritti costituzionalmente sanciti.

Poiché la questione sotto il profilo giuridico è se la magistratura sia stata corretta o abbia ecceduto nei suoi poteri, se quelle intercettazioni occasionali debbano essere distrutte subito o solo dopo una valutazione del gip, se siano irrilevanti soltanto per le risposte di Napolitano o nella loro interezza (cioè anche nelle parti di Mancino), e poiché si tratta di una questione difficile, è giusto lasciare alla Corte costituzionale il compito di decidere.

Ma - seconda distinzione - la sostanza politica della vicenda non è qui. È, invece, nei sospetti che si vogliono avanzare sul Presidente, per indebolirne l’immagine e il ruolo politico; per travolgere, con un allarmismo qualunquistico, quel che resta della legittimità repubblicana, e per confezionare un’immagine di Paese allo sbando. Sarebbe, questa, l’ultima autolesionistica risposta delle élite ciniche e riluttanti (il cinismo ha infatti molte facce, anche quella dell’oltranzistico giustizialismo) al dovere del momento: che è di salvare l’Italia nella dignità, non di farla affondare in una universale vergogna.

Una terza distinzione è poi quella fra illecito e inopportuno. Mancino, chiamato a testimoniare in tribunale sul suo operato di allora ministro dell’Interno, e quindi comprensibilmente infastidito, non ha commesso un illecito a cercare contatti col Quirinale, e a chiedere consigli. Certo, si è trattato di comportamenti inopportuni e imbarazzanti; non censurabili, ma espressione di abitudini tipiche più dei potenti che dei comuni cittadini. In modo speculare, di fronte alla ricerca di quei contatti, non si può non vedere che da parte di qualche collaboratore del Presidente ci siano stati comportamenti altrettanto impropri e imprudenti.

Per ultima, la distinzione fra le prerogative del capo dello Stato e il normale diritto-dovere di cronaca. Inviolabili tanto le une quanto l’altro; e neppure confliggenti. Infatti, una democrazia costituzionale vive di regole, se queste sono sostanza etica e non superficiali formalismi giuridici: la violazione di uno status - quello del presidente della Repubblica -, quando è solennemente sancito dalla Carta, non è un atto di libertà, ma uno sgarro istituzionale e un gesto oggettivamente sfascista; allo stesso modo, utilizzare pretestuosamente la vicenda delle intercettazioni del Quirinale come metro per valutare altre intercettazioni, e per varare una legislazione proibizionistica - o comunque lesiva della libertà d’informazione e del diritto dei cittadini di essere informati - è un proposito liberticida che, mettendo il bavaglio ai mezzi di comunicazione, nasconderebbe agli italiani notizie sostanziali e determinanti sulla loro condizione civile e politica, sullo stato della loro democrazia. Entrambi i diritti - quello del capo dello Stato e quello degli italiani - vanno conservati intatti, per conservare insieme a essi la sostanza della democrazia, cioè i diritti di tutti.

Mai come in questo caso la distinzione - cioè, secondo l’etimologia, la critica - è esercizio virtuoso, di giudizio, di prudenza e di verità. Come è invece esercizio vizioso quello di tutti coloro che fanno di ogni erba un fascio e, sotto il pretesto dell’interesse alla verità, la seppelliscono così in una notte in cui tutte le vacche sono nere.


Palermo non ci sta: “Regole rispettate”

I procuratori Ingroia e Messineo: ci accusano di aver violato la legge, non era mai successo

di Marco Lillo (il Fatto, 17.07.2012)

Proprio mentre Salvatore e Rita Borsellino, nel consiglio comunale di Palermo, presentavano assieme al sindaco Leoluca Orlando le celebrazioni del ventennale della strage di via D’Amelio, con un tempismo infelice il Presidente della Repubblica decideva di portare sul banco degli imputati i magistrati che stanno indagando sui moventi della strage e la trattativa Stato-mafia. A quei magistrati Giorgio Napolitano contesta davanti alla Corte Costituzionale un comportamento gravissimo: l’invasione di campo ai danni del Capo dello Stato nel-l’inchiesta sulla trattativa.

MAI IL QUIRINALE era sembrato più lontano da Palermo di ieri. Mentre la famiglia Borsellino presentava un programma di commemorazioni che è tutto un abbraccio ai magistrati “da onorare e proteggere mentre sono vivi”, il Quirinale rendeva pubblico un decreto pieno di “premesso che” nel quale si contesta formalmente un comportamento “vietato” dalla legge: avere osato ascoltare la voce del Capo dello Stato mentre parlava con il suo amico intercettato, Nicola Mancino. Il decreto della Presidenza della Repubblica nel quale si cita addirittura Luigi Einaudi come ispiratore di un atto formale che potrebbe avere conseguenze disciplinari e persino penali contro quei magistrati che si sono impegnati per anni nella ricerca della verità sugli anni più bui della Repubblica, è stata accolta come una fucilata alla schiena, un fuoco amico inatteso e ancora più pericoloso perché non arriva dalle retrovie, ma dall’alto. Dal Colle più alto.

Dopo un iniziale sbandamento, e una serie di riunioni concitate con i suoi sostituti, il Procuratore capo Francesco Messineo ha incontrato ieri la stampa per gettare acqua sul fuoco: “Prendiamo atto della posizione della Presidenza della Repubblica”, ha detto il procuratore, “ma a mio parere tutte le norme che sono poste a tutela del presidente della Repubblica sono state rispettate dalla Procura di Palermo”.

Messineo è stretto tra l’incudine del Quirinale e il martello della rivelazione di segreti d’indagine. Messineo non può ammettere l’esistenza delle intercettazioni telefoniche Mancino-Napolitano che invece spavaldamente il Quirinale afferma all’indicativo nel suo comunicato. Gli audio delle telefonate tra il presidente e il preoccupatissimo ex ministro dell’Interno non sono infatti ancora stati depositati e sono segreti perché non fanno parte dell’inchiesta chiusa, quella che riguarda Mancino, Mannino, Dell’Utri e gli altri. Bensì sono contenuti nel fascicolo dell’indagine “madre”, di cui quella appena chiusa è un ampio stralcio.

PER QUESTA RAGIONE Messineo, alla richiesta del Quirinale di notizie sull’esistenza di quelle conversazioni, non ha potuto fare altro che rispondere “ove esistessero sarebbero irrilevanti”. Non poteva scrivere di più perché avrebbe commesso una violazione del segreto, su istigazione del presidente della Repubblica e del Csm, un assurdo politico prima ancora che giuridico. Ecco perché ieri Messineo con i cronisti era costretto ai salti mortali: “Ove esistessero queste intercettazioni sarebbero occasionali e pertanto non sono state preordinate nei confronti della personalità coperta da immunità. Solo in quest’ultimo caso sarebbero certamente illegali”.

Messineo si dice sereno e quasi curioso di vedere come si risolverà il dibattito dottrinale. La questione è molto delicata. In Procura, appena spariscono i taccuini, la delusione e la rabbia si taglia col coltello: il capo dello Stato li accusa di aver violato la legge. E’ la prima volta nella storia della Procura di Palermo.

Quando Messineo comincia a spiegare che si tratta di una materia spinosa, quasi senza precedenti, il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, presente nella stanza e silenzioso fino a quel momento, fa notare che “un precedente c’è: nel 1997 uscì sui giornali un’intercettazione dell’allora presidente Oscar Luigi Scalfaro che, come in questo caso, era stata intercettata su un’altra utenza. E allora fu trascritta e depositata”.

Ed è proprio questo il pomo della discordia: il caso Scalfaro. Anche se non lo cita espressamente, è chiaro che il Quirinale invoca il medesimo precedente ma per sostenere la tesi inversa: l’illegittimità dell’intercettazione telefonica Mancino-Napolitano. L’allora capo dello Stato nel novembre del 1993 fu intercettato dalla Procura di Milano, allora diretta da Francesco Saverio Borrelli, mentre parlava con l’allora presidente della Banca Popolare di Novara, Carlo Piantanida, intercettato dalla Guardia di Finanza. Quattro anni dopo, quando la trascrizione fu pubblicata da Il Giornale dei Berlusconi, scoppiò un putiferio politico.

L’ex presidente Francesco Cossiga, spalleggiato da alcuni esponenti del centrosinistra come Cesare Salvi, sostenne che il presidente non può mai essere intercettato nemmeno in via indiretta e il ministro della Giustizia di allora, Giovanni Maria Flick, poi nominato nel 2000 da Ciampi giudice costituzionale e dal 2008 al 2009 promosso presidente della Corte, disse in Parlamento: “I magistrati non hanno violato alcuna norma, anche se la procedura seguita non appare in linea con i principi della Costituzione a tutela del Presidente della Repubblica”.

Flick, con oratoria un po’ cerchiobottista, da un lato non ravvisò nella condotta dei magistrati “aspetti di macroscopica inosservanza delle disposizioni di legge o di loro abnorme interpretazione”. Dall’altro sottolineò però che esiste nel nostro ordinamento un “assoluto divieto di intercettazione telefonica” nei confronti del presidente della Repubblica a tutela delle sue prerogative. Tuttavia aggiunse Flick, oggi presidente del San Raffaele questo principio “è frutto di un’interpretazione sistematica e non trova riferimenti letterali nella normativa codicistica”. Dopo quella polemica politica però nessuno in Parlamento fece nulla per cambiare la legge ed è con quelle norme che la Procura di Palermo ha ritenuto di potere intercettare le telefonate di Mancino in cui si sente la voce di Napolitano.

A taccuini chiusi, in Procura si fa notare che “non esiste alcuna norma che preveda la procedura di distruzione invocata dal decreto del presidente, cioé su richiesta del pm e con l’accordo del gip, ma senza sentire le parti”.

Lo dimostra il fatto che il Presidente - fanno notare fonti vicine alla Procura non segue l’interpretazione estrema di Eugenio Scalfari. Secondo il fondatore di Repubblica, appena udita la voce del Presidente, la polizia giudiziaria avrebbe dovuto addirittura interrompere la registrazione. Per Napolitano invece l’audio poteva essere registrato, ma non trascritto e andava immediatamente distrutto con decreto del gip. Anche se la legge non lo prevede: purché nessuno lo ascolti prima.


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