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IL GRANDE INCIUCIO: L’ITALIA PRIGIONIERA DELL’ODIO DI STATO. NEL 1994 IL MINISTERO DELL’INTERNO AUTORIZZA E REGISTRA IL SIMBOLO DEL PARTITO "FORZA ITALIA". CHE GRANDE SILENZIO: IL "GIOCO" COMINCIA!!!

venerdì 3 settembre 2010
PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE. CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, CREDO CHE SIA ORA DI FARE CHIAREZZA. PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI ...
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"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!! NEL 1994 UN CITTADINO REGISTRA IL NOME DEL SUO PARTITO E COMINCIA A (...)

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> IL GRANDE INCIUCIO: L’ITALIA PRIGIONIERA DELL’ODIO DI STATO (1994-2010). ---- L’Italia, la transizione fallita e la mancanza di una destra normale (di Guido Crainz).

sabato 25 settembre 2010

L’Italia, la transizione fallita e la mancanza di una destra normale

-  Con la caduta del primo governo Prodi è venuto meno il progetto di una buona politica ed è prevalsa la partitocrazia dei partiti facendo riprendere le demagogie populiste
-  Sono senza veli i tratti portanti della politica berlusconiana, il suo porre al centro interessi personali e di azienda anche a costo di colpire le basi della democrazia e recare durissimi colpi all’informazione

di Guido Crainz (la Repubblica, 25.09.2010)

In uno scenario sempre più degradato la crisi italiana appare ormai senza ritorno. "Metodo Boffo" come prassi quotidiana, dossier caraibici, protezione parlamentare a un esponente politico indagato per reati di camorra, sino a quel che sembra affiorare in Abruzzo: i rifiuti invadono di nuovo non solo Napoli ma l’intero paese. Ogni sguardo al sistema Italia ripropone tutti i nodi di una transizione drasticamente fallita, o mai iniziata. Illumina il riemergere, in forme modificate e aggravate, della crisi istituzionale ed etica che aveva portato al tracollo dei primi anni Novanta.

Fu travolto allora il sistema dei partiti su cui si era basata per mezzo secolo la storia italiana, dopo meno di vent’anni è entrata in agonia quella che era stata enfaticamente chiamata seconda repubblica. Neppure un vero sistema, a ben vedere: piuttosto un "disequilibrio" di forze politiche che hanno basato la loro sopravvivenza e la loro fortuna soprattutto sulle debolezze degli avversari. Forze poco provviste di reali culture costituenti e incapaci al tempo stesso di disegnare un insieme di regole sociali e di orientamenti programmatici. Incapaci anche solo di abbozzare un progetto credibile per un paese attraversato da sconvolgimenti profondi, in primo luogo sul terreno del lavoro e dell’etica collettiva. Sembrano insomma intrecciarsi e precipitare insieme, in questi mesi, gli effetti di malattie antiche e le macerie indotte da storture recenti, in un finale di partita di cui si vedono bene rischi e derive ma non si intravedono possibili alternative, o perlomeno uscite di sicurezza.

Per molte ragioni gli anni Novanta, nei loro differenti versanti, sembrano oggi lontanissimi. Crollata la «prima Repubblica», e smorzatasi presto la prima esplosione di illusionismo berlusconiano, svanì anche la speranza che il rinnovamento potesse muovere dalla parte migliore della nostra storia precedente. Già con la caduta del primo governo Prodi - se non nel corso di esso - venne di fatto accantonato un progetto di «buona politica» capace di resistere all’emergere di una inedita «partitocrazia senza partiti».

Quasi paradossalmente, poi, il primo governo guidato dal leader di un partito post-comunista, Massimo D’Alema, vide non il rafforzamento ma l’ulteriore travaglio di quel partito e al tempo stesso la capitolazione - altamente simbolica - di una roccaforte storica del «riformismo rosso» come Bologna. Tramontava così l’ipotesi che il rinnovamento potesse esser guidato dalle forze che si erano in qualche modo opposte alla degenerazione della «Repubblica dei partiti» già dall’interno di essa. Ciò poneva in primo luogo agli eredi del vecchio Pci il problema di un rinnovamento radicale, che non venne.

Ripresero così campo - sul versante leghista come su quello berlusconiano - ipotesi e demagogie populiste e antipolitiche, sempre più debolmente contrastate nell’area del centrodestra dalle forze che mantenevano un qualche legame con la storia precedente, dall’Udc ad An. Forze costrette progressivamente a scegliere fra la «berlusconizzazione» e l’emarginazione, in un processo che ha avuto una forte accelerazione negli ultimi due anni e il suo definitivo approdo in questi mesi.

Appaiono da tempo senza veli i tratti portanti della politica berlusconiana, il suo porre al centro interessi personali e di azienda anche a costo di colpire a fondo le basi stesse della democrazia e recare durissimi colpi all’informazione («Non ci può essere libertà per una comunità che manca di strumenti per scoprire la menzogna» scriveva Walter Lippmann novanta anni fa).

Appare senza veli, anche, il sempre più pervasivo «sistema delle cricche», con i processi che esso innesca in una democrazia ormai immemore della normalità e in una «società incivile» in sotterranea espansione. Di qui la pericolosità dello scenario attuale. Di qui l’esasperazione del clima da parte di un premier sempre più debole e sempre più sottoposto al condizionamento della baldanzosa truppa di Bossi e Calderoli. Umiliato e reso al tempo stesso più aggressivo dalla necessità di degradarsi in uno squallido «mercato dei deputati» per puntellare i traballanti residui di quella che fu una trionfale maggioranza.

È l’esito di un processo. È l’esito del percorso che ha portato il "berlusconismo" a diffondere nella politica e nella società nuove forme di estraneità alla democrazia e alle regole collettive, esasperando al tempo stesso tendenze negative già presenti. E senza che si siano innescati anticorpi adeguati. Lo rivela l’evoluzione stessa di quella parte della destra - un tempo ex o post fascista, e comunque "nazionale" - che è approdata alla più completa subalternità al premier ed è priva di voce persino di fronte alle dissennatezze e alle provocazioni leghiste.

È al tempo stesso illuminante, infine, la difficoltà di dar corpo a una «destra normale»: difficoltà certo non nuova nel nostro Paese, come l’ultimo Montanelli non si stancava di dire. Al di là delle contingenze dello scontro politico, inquinato dalle sopraffazioni e dai veleni del premier e dei suoi sottoposti, ne aveva recato testimonianza la stessa manifestazione di Mirabello: con le sue composite presenze, con il differenziato modularsi del discorso di Gianfranco Fini, con gli applausi e le incertezze che lo accompagnavano.

Sull’altro versante, un centrosinistra incapace di fare i conti sia con il Paese reale che con se stesso non contribuisce certo a dissipare la sensazione di un disfacimento e di una frantumazione senza freni: quasi mancasse la consapevolezza della drammaticità della situazione, dell’urgenza di costruire argini e sbocchi convincenti. È su questo terreno però che si giocherà il futuro del Paese, e non solo quello più immediato.


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