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CITTADINANZA E "DIRITTO DEL SOLE" ("IUS SOLIS"): AL DI LA’ DEL DIRITTO DEL SANGUE ("IUS SANGUINIS") E DELLA TERRA ("IUS SOLI"). Una nota di Michele Ainis - a c. di Federico La Sala

domenica 1 gennaio 2012
“Ius soli” cade il tabù
di Michele Ainis (La Stampa, 11 gennaio 2010)
La prima riforma degli Anni Dieci non ha il timbro della legge, né tantomeno della legge
costituzionale. Viaggia su una vettura più dimessa, più modesta: la circolare ministeriale. Quella
con cui il ministro Gelmini ha (...)

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> CITTADINANZA E DIRITTO DEL SOLE ("IUS SOLIS"): AL DI LA’ DEL DIRITTO DEL SANGUE ("IUS SANGUINIS") E DELLA TERRA ("IUS SOLI"). ---- FRATELLI D’ITALIA? (di Alberto Mario Banti).

giovedì 17 marzo 2011

FRATELLI d’Italia?

di Alberto Mario Banti (il manifesto, 17 marzo 2011)

Il 17 marzo ispira sentimenti patriottici. E invita a interrogarsi su cosa sia la patria, e, nello specifico, che cosa sia la patria italiana. Una risposta potrebbe essere questa: ubi bene, ibi patria: dove stai bene, quella è la tua patria. Il detto latino è piaciuto a Voltaire, che non aveva una grande opinione del patriottismo esclusivo. E infatti osservava: «È triste che spesso, per essere un buon patriota, si sia il nemico del resto degli uomini». E come correttivo a questa negativa valutazione, invitava ad alti pensieri: «Chi volesse che la sua patria non fosse mai né più grande né più piccola, né più ricca né più povera, sarebbe cittadino del mondo».

Dinamiche primarie

Molti anni dopo, in ben altro contesto, lo scrittore inglese E. M. Forster ha detto: «Se fossi posto davanti alla scelta se tradire il mio paese o tradire un amico, spero di avere il fegato di tradire il mio paese». Amorale? Anti-etico? George Steiner, che cita quella frase in un articolo per il «New Yorker», non la pensa così, e spiega perché: «Non c’è niente di più brutalmente assurdo della propensione degli esseri umani a distruggersi l’un l’altro o a massacrarsi sotto l’effetto del puerile incantesimo di una bandiera. La cittadinanza è un accordo bilaterale che è o dovrebbe essere sempre sottoposto a un esame critico. Dubito che l’animale uomo possa sopravvivere se non impara a fare a meno di frontiere e passaporti, se non riesce a capire che siamo tutti ospiti l’uno dell’altro, come lo siamo di questa terra ferita e avvelenata».

Visioni utopistiche? Forse. Il fatto è che, comunque sia, i nazionalismi ottocenteschi le hanno cancellate o rese impossibili, rovesciando il principio contenuto nel detto latino che piaceva a Voltaire, che per i nazionalisti funziona così: ubi patria, ibi bene: dov’è la tua patria, lì stai bene. Ma dov’è la patria di una persona? Per il nazionalismo ottocentesco l’appartenenza nazionale, e il necessario sentimento patriottico che ne deriva, scaturisce dal nascere: è sulla base di questa dinamica primaria che l’ideologia nazionale attribuisce la cittadinanza. È cittadino di uno Stato nazione chi è figlio di nazionali; o chi nasce sul territorio patrio. Ius sanguinis; e ius soli. Cioè «diritto di sangue» e «diritto di suolo». Questi sono i due dispositivi giuridici fondamentali. Ai quali altri si aggiungono, ma solo in forma sussidiaria. Il nesso tra nazione e cittadinanza, così formulato, attrae anche il concetto di patria. E così patria, con tutte le locuzioni che si trascina con sé («amare la patria», «morire per la patria», «tradire la patria») diventa un termine che indica il rapporto che un individuo ha e deve avere con la propria comunità nazionale e con le istituzioni che la rappresentano. In questa forma il patriottismo diventa inscindibile dal nazionalismo. E la relazione affettiva che il termine patria implica nei confronti della propria comunità si dispone su una catena che funziona in questo modo: si nasce dentro una nazione; si è tenuti ad amare quella nazione e le sue istituzioni in modo esclusivo; si è tenuti, dunque, a un sentimento patriottico che non ammette deroghe. Right or wrong, my country.

Il sentimento d’amore per la propria patria deriva dunque, per il nazionalismo, da un fondamentale automatismo etero-diretto: il nascere. Che, com’è chiaro, è un evento che non comporta scelta: non si sceglie né da chi nascere, né dove nascere.

Può sembrare strano, ma questa concezione automaticamente naturalistica, intimamente biopolitica, imposta dal nazionalismo ottocentesco, e condivisa dal nazional-patriottismo risorgimentale, presiede ancora oggi all’attribuzione della cittadinanza della Repubblica italiana.

Il fallimento della scuola

Secondo la legge che disciplina il conferimento della cittadinanza italiana, si è automaticamente nazionali se si è figli di nazionali; o se si nasce sul suolo patrio da genitori ignoti o apolidi. Tutti gli altri meccanismi per diventare italiani prevedono procedure più complesse e, in qualche caso, anche irte di ostacoli.

Come che sia, gli italiani per «diritto di sangue» o per «diritto di suolo» dispongono automaticamente della piena cittadinanza italiana sin dalla nascita. Dopodiché, chi possiede questa piena cittadinanza, al raggiungimento della maggiore età acquisisce anche i pieni diritti civili e politici in forma altrettanto automatica. Non c’è bisogno che sia consapevole di quali sono i suoi diritti. Né c’è bisogno che sappia quali sono i valori o i meccanismi fondamentali che regolano la vita pubblica.

Basta essere italiano e, una volta maggiorenne, si ottiene una piena cittadinanza politica. Che - a pensarci bene - è un meccanismo abbastanza impressionante nella sua stranezza. Sarebbe come se a un certo punto si dicesse: siccome un giovane è figlio di nazionali, al raggiungimento della maggiore età diamogli la patente di guida automaticamente, senza chiedergli neanche mezz’ora di scuola guida o uno straccio di esame di verifica. Se lo merita, no? È figlio di nazionali! Anzi, facciamo di più: se uno è figlio di nazionali, diamogli anche la maturità, senza nemmeno un giorno di scuola. Se lo merita, no? È figlio di nazionali! Anzi, vogliamo essere veramente generosi? E allora diamogli anche una laurea in medicina e chirurgia senza chiedergli neanche un giorno di università, e poi mandiamolo su un tavolo operatorio ad operare il primo paziente che passa: se lo merita, no? È figlio di nazionali!

Sarebbe assurdo, non è vero? E però, se giustamente chiediamo conoscenze, competenze, verifiche per cose anche banali - come la licenza di guida -, o per cose ben più complesse - come un diploma abilitante -, perché non chiediamo a tutti i cittadini una seria e rigorosa conoscenza dei valori e delle norme che regolano la vita collettiva?

Ricorrenze durature

La scuola è sempre stata tristemente fallimentare in questo compito: né l’educazione civica, né l’educazione alla cittadinanza, né altre denominazioni della stessa materia, sono mai state prese sul serio; e meno per colpa dei professori che dell’evidente scarso rilievo che a questo tipo di conoscenza è sempre stato attribuito dalle élite di governo.

Il testo che raccoglie i valori fondamentali e le regole essenziali che disciplinano la vita pubblica è la Costituzione. I diritti politici che adesso si acquisiscono automaticamente sono enunciati lì. Quello è il patto fondamentale che ci fa italiani. Non importa che uno sia di lingua e cultura italiana, di lingua e cultura francese, di lingua e cultura tedesca: se vive nei confini della Repubblica italiana trova lì le sue garanzie, lì i suoi diritti. Lì, in un testo molto bello, scritto da un’assemblea eletta liberamente a suffragio universale. Un testo che dal 1948 a oggi ha garantito la libertà di tutti, qualunque fosse il credo politico individuale.

È un testo che festeggiamo implicitamente il 25 aprile e il 2 giugno, ricorrenze festive che giustamente non durano per un anno soltanto come il 17 marzo, perché ricordano la vera origine della nostra Repubblica. È nel rispetto e nella lealtà a quel testo che potremmo riconquistare un nuovo patriottismo, che non sia quello inquinato dall’ideologia nazionalista. È il patriottismo costituzionale, sul quale più volte Jürgen Habermas ha riflettuto.

Ma come può alimentarsi concretamente un patriottismo costituzionale? Per rendere vivo quel sentimento politico è necessario considerare che la Costituzione è in effetti il patto collettivo che ci tiene insieme. E in quanto patto collettivo dovrebbe essere non solo conosciuto, ma anche sottoscritto da tutti i cittadini.

Adesso non è così. Solo alcune categorie di individui sono chiamate a giurare lealtà alla Costituzione: le alte cariche dello Stato; i militari; e gli stranieri che acquistano la cittadinanza italiana. E perché tutti gli altri no? Perché gli italiani e le italiane per «diritto di sangue» o per «diritto di suolo» no?

La festa del 2 giugno

È difficile che un sano sentimento di italianità possa scaturire dalla primitiva automaticità del «diritto di sangue» o del «diritto di suolo». Com’è difficile che un sano patriottismo possa scaturire dal revival di dubbie o controverse memorie storiche. E invece un’italianità non nazionalista e un caldo patriottismo costituzionale potrebbero ricevere nuova energia se li si facesse derivare da un consapevole rito di passaggio, un rito che trasformasse un giovane in un cittadino perfettamente consapevole dei suoi diritti e dei valori fondamentali che lo legano a tutti gli altri.

Un rito che, per esempio, festeggiasse il 2 giugno in ogni comune con una cerimonia seria e festosa, in cui le ragazze e i ragazzi che nel corso dell’anno precedente hanno raggiunto la maggiore età giurassero lealtà alla Costituzione. E sarebbe giusto che questo rito di passaggio, consapevolmente vissuto, diventasse l’atto necessario per il pieno esercizio dei diritti politici.

Fantasie? Quasi sicuramente sì. Eppure son convinto che sarebbe un rituale bellissimo; son convinto che tutti prenderebbero con impegno e serietà la cosa; e che così il garrire delle bandiere e il risuonare di inni non evocherebbe più vacue e inquietanti immagini di lontani eventi bellici, ma una realtà attuale e cara: la tavola dei valori su cui concordiamo e che disciplina la nostra vita in comune.


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