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CITTADINANZA E "DIRITTO DEL SOLE" ("IUS SOLIS"): AL DI LA’ DEL DIRITTO DEL SANGUE ("IUS SANGUINIS") E DELLA TERRA ("IUS SOLI"). Una nota di Michele Ainis - a c. di Federico La Sala

domenica 1 gennaio 2012
“Ius soli” cade il tabù
di Michele Ainis (La Stampa, 11 gennaio 2010)
La prima riforma degli Anni Dieci non ha il timbro della legge, né tantomeno della legge
costituzionale. Viaggia su una vettura più dimessa, più modesta: la circolare ministeriale. Quella
con cui il ministro Gelmini ha (...)

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> AL DI LA’ DEL DIRITTO DEL SANGUE ("IUS SANGUINIS") E DELLA TERRA ("IUS SOLI"). ---- Cinque anni: la chiave per la cittadinanza (di Giovanna Zincone)

giovedì 24 novembre 2011

Cinque anni: la chiave per la cittadinanza

di Giovanna Zincone (La Stampa, 24 novembre 2011)

Quando si litiga sarebbe meglio sapere perché. Si sta invece scatenando un’intempestiva tempesta: materia del contendere è lo ius soli, un istituto che riguarda il riconoscimento della cittadinanza ai figli di stranieri nati sul territorio. Ma la materia appare poco chiara agli stessi contendenti. È bene cominciare con il chiarire che in Italia lo ius soli c’è già. I nati in Italia ottengono la cittadinanza attraverso una procedura semplificata al compimento del 18esimo anno di età, anche quando i loro genitori siano tuttora stranieri. Il fatto è che questa via di accesso alla cittadinanza tramite ius soli è la più severa tra quelle adottate dalle grandi democrazie europee. In altri Paesi l’acquisizione della cittadinanza può avvenire immediatamente alla nascita, anche se con diverse condizioni richieste: ad esempio le recenti riforme greca e portoghese prevedono una residenza del genitore di almeno 5 anni, quella tedesca di almeno 8. Peraltro, nella gran parte degli Stati europei godono di un accesso privilegiato alla cittadinanza, cioè possono averla prima della maggiore età, quei nati sul territorio del Paese di immigrazione che abbiano accumulato un certo numero di anni di residenza o completato un ciclo scolastico. Questa corsia privilegiata per i minori riguarda quasi ovunque anche i bambini non nati nel paese di immigrazione, ma che ci sono arrivati da piccoli, purché vi abbiano studiato o vi siano vissuti per un certo periodo.

Dal momento che l’acquisizione della cittadinanza nazionale determina automaticamente anche quella europea, un po’ più di sintonia dell’Italia con gli altri partner dell’Unione in questa materia non guasterebbe. Tuttavia, forzare la mano oggi non gioverebbe al governo Monti, visto che sul tema non si è ancora trovata una convergenza all’interno della maggioranza che lo sostiene.

Nulla vieta però che questo sia (e sarebbe bene che fosse) materia di riflessione in sede parlamentare, come ha invitato a fare il Presidente Napolitano. Questo governo, proprio perché ha come priorità il risanamento e la crescita economica del Paese, lascia per sua natura maggiore spazio all’azione e al dibattito parlamentare su temi di ampio respiro che non abbiano carattere di emergenza. In Parlamento, almeno quanti fanno parte dell’attuale maggioranza dovrebbero cogliere l’occasione per affrontare questioni serie abbandonando toni forti e giudizi frettolosi, dimenticando vecchi tic di destra e di sinistra. Solo così si potrebbe riuscire finalmente a portare a termine qualche riforma di stampo europeo, persino nella spinosa materia della cittadinanza.

Questa è infatti una di quelle riforme che ogni tanto tornano a galla, e non arrivano mai in porto. O meglio, per ora, in porto qualcosa è arrivato, ma si tratta soltanto di un provvedimento restrittivo: il contrasto delle unioni di comodo tramite l’innalzamento da 6 mesi a 2 anni del tempo di residenza dopo il matrimonio richiesto per trasmettere la cittadinanza ai coniugi stranieri. L’introduzione di ulteriori requisiti per accedere alle naturalizzazioni (quali la conoscenza linguistica e l’accettazione della carta dei valori civici condivisi) era contemplata anche da molti progetti di stampo liberale.

Ma è poi sfumata con il resto delle proposte e dei disegni di legge che la contenevano. Di fatto, però, criteri simili presidiano le tappe che precedono l’acquisizione della cittadinanza: sia il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno secondo il recente Accordo di integrazione, sia la concessione della carta di soggiorno permanente. Non voglio sostenere che tutti questi requisiti restrittivi siano errati in sé, ma certo hanno squilibrato ulteriormente la nostra normativa sulla cittadinanza che già era, e resta, tra le più severe d’Europa. È mancato finora il necessario riequilibrio sul versante dell’apertura.

Il primo importante tentativo serio di riformare la cittadinanza in senso più liberale fu fatto nel 1999 da Livia Turco, quando era ministro degli Affari Sociali. Da allora sono state presentate altreproposte simili, di iniziativa sia governativa che parlamentare. Quelle più sensate e che sono giunte più vicine all’approvazione riproducono i modelli europei anche rispetto al trattamento dei minori.

La chiave è il numero 5: cinque anni è considerato un tempo di residenza necessario e sufficiente a dimostrare che gli immigrati e le loro famiglie sono ormai radicate e destinate a far parte della popolazione italiana. I bambini dei genitori residenti da 5 anni potrebbero ottenere la cittadinanza alla nascita. Ma anche per chi non fosse nato in Italia, e ci fosse arrivato da piccolo, 5 anni di residenza o il compimento di un ciclo scolastico sarebbero sufficienti per poter fare domanda di cittadinanza. L’inclusione tempestiva dei bambini potrebbe avvenire anche seguendo altre vie, praticate all’estero e proposte nei vari progetti italiani di stampo liberale.

Tali progetti non hanno riguardato solo l’acquisizione da parte dei minori, ma una più generale riforma della cittadinanza, e sono stati spesso affiancati dall’estensione del diritto di voto locale anche agli immigrati non comunitari. Ricordiamo che, in base al Trattato di Maastricht (entrato in vigore nel 1993), i comunitari, inclusi i romeni che in Italia sono la prima minoranza, hanno già questo diritto, anche se ne fanno un uso fin troppo modesto.

Le due proposte di legge di iniziativa popolare, lanciate con la campagna «L’Italia sono anch’io», promossa da numerose organizzazioni della società civile, riguardano anche esse la cittadinanza nel suo insieme e il voto locale. Ma dal momento che oggi si discute soprattutto di minori e che sui minori, in linea teorica, dovrebbe essere meno arduo trovare una convergenza, limitiamoci a questo argomento. Si tratta di un problema importante e di vaste dimensioni. I nati e residenti in Italia, ancora stranieri al primo gennaio 2009, erano quasi 600.000, cioè il 13,5% del totale degli stranieri residenti. Alla stessa data, i minori stranieri residenti in Italia erano circa un milione, cioè quasi il 22% dei minori residenti nel nostro paese. Nel 2010 sono nati in Italia circa 78.000 bambini stranieri cioè quasi il 14% delle nascite. Pensare che la popolazione italiana non sia anche questo significa rimuovere la realtà.

La proposta di iniziativa popolare di «L’Italia sono anch’io» sulla cittadinanza richiede, per attribuirla alla nascita, il requisito di un solo anno di soggiorno legale in Italia da parte di uno dei genitori. Si tratta di un requisito piuttosto leggero: si colloca infatti ben al di sotto della media europea, che si aggira intorno ai soliti cinque anni. La scelta di un requisito troppo leggero non è esente da rischi, perché può trasformare in cittadini anche i figli di quegli immigrati che non danno garanzie di volersi stabilire nel nostro paese. Sarebbe meglio far dipendere questa opportunità dalla condizione di titolare di carta di soggiorno di almeno un genitore.

Per la concessione della cittadinanza ai figli di immigrati privi della carta di soggiorno al momento della nascita o ai bambini arrivati in Italia da piccoli, di nuovo si possono imitare i modelli europei e chiedere un congruo numero di anni di residenza o di frequenza nelle nostre scuole. Mediando tra proposte forse troppo generose, e chiusure certo troppo severe, e soprattutto estranee al contesto giuridico europeo, si possono trovare soluzioni mediane e meditate. Purché si prendano le grandi questioni sul serio e si abbandoni il fastidioso meccanismo automatico delle azioni e reazioni di parte.


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