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CITTADINANZA E "DIRITTO DEL SOLE" ("IUS SOLIS"): AL DI LA’ DEL DIRITTO DEL SANGUE ("IUS SANGUINIS") E DELLA TERRA ("IUS SOLI"). Una nota di Michele Ainis - a c. di Federico La Sala

domenica 1 gennaio 2012
“Ius soli” cade il tabù
di Michele Ainis (La Stampa, 11 gennaio 2010)
La prima riforma degli Anni Dieci non ha il timbro della legge, né tantomeno della legge
costituzionale. Viaggia su una vettura più dimessa, più modesta: la circolare ministeriale. Quella
con cui il ministro Gelmini ha (...)

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> CITTADINANZA E DIRITTO DEL SOLE ("IUS SOLIS") --- Il diritto del sangue, la lezione dell’antica Roma (di Eva Cantarella) - Pesaro anticipa la legge: "Qui i figli di immigrati saranno cittadini onorari" (di Jenner Meletti)

giovedì 26 gennaio 2012

Il diritto del sangue, la lezione dell’antica Roma di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 26.01.2012)

Di fronte alle proposte di modifica delle regole in vigore sul diritto di cittadinanza e alle reazioni suscitate, credo sia tutt’altro che inutile tornare indietro nel tempo e chiedersi che soluzione diedero, al problema, i nostri più lontani antenati. Back to the Romans, quindi, torniamo ai romani. Per i quali la soluzione era chiara: la cittadinanza si acquistava iure sanguinis. Come scriveva il giurista Gaio, nel II secolo d. C., nel suo celebre manuale di Istituzioni, erano cittadini romani i figli legittimi di un cittadino, ovvero quelli naturali di una cittadina.

La regola, infatti, voleva che i figli nati da un matrimonio legittimo seguissero la condizione del padre al momento del concepimento, e che quelli nati fuori del matrimonio seguissero la condizione della madre al momento della nascita. E regola analoga era in vigore in Grecia dove, peraltro, a opera di un famoso decreto di Pericle (451 a. C.) il diritto di cittadinanza venne ulteriormente ristretto. A partire da quel momento infatti non bastava essere figlio di padre ateniese, come fino ad allora: era necessario che anche la madre fosse tale.

La nostra tradizione giuridica, dunque, privilegia la soluzione del sangue. E la tradizione è certamente importante nel determinare l’atteggiamento verso un problema come questo, tra l’altro fortemente legato a quello della cosiddetta identità nazionale. Ma a prescindere dal fatto che esistono altri fattori che contribuiscono a modificare questo atteggiamento, tra i quali ovviamente i flussi migratori (e lasciando comunque questo aspetto del problema a chi ne ha più competenza), torniamo alla tradizione romana.

Certamente, come dicevo, legata al principio del sangue. Ma dir questo non basta, bisogna anche vedere il modo in cui questo principio venne declinato. E qui le sorprese non mancano: a differenza che in Grecia, infatti, a Roma il principio del ius sanguinis fu sempre aperto, sin dalle origini, alla possibilità di molte inclusioni. L’identità greca, come ben noto, era delineata dalla totale esclusione dell’altro. Un esempio per tutti: alla sopravvivenza dell’economia ateniese, che si basava sullo scambio marittimo, era fondamentale la presenza in città di stranieri chiamati «meteci», che come dice il loro nome (da metoikein, vivere insieme) risiedevano nella città. Ma erano e rimasero sempre privi dei diritti politici, non potevano possedere terra, non potevano sposare una donna ateniese, non potevano partecipare ai processi senza l’assistenza di un cittadino che garantisse per loro (il prostates).

I romani, invece (come il mito delle origini troiane della fondazione di Roma ricordava), riconoscevano che la loro comunità nasceva come un’unione di genti diverse, da un incrocio di mondi e culture. Già all’età di Romolo - scrive Dionigi di Alicarnasso (I,9,4) - i romani tendevano ad assimilare altre genti, nonché gli schiavi ai quali veniva concessa la libertà, (che acquistavano automaticamente la cittadinanza). Polibio scrive che essi erano più pronti di ogni altro popolo a cambiare i loro costumi, adottando i migliori (VI,25,11). Simmaco ricorda che avevano adottato le armi dei Sanniti, le insegne dagli Etruschi, e le leggi dei greci Licurgo e Solone (Sym., Ep, III,11,3). E nel corso dei secoli concessero la cittadinanza ai popoli conquistati con generosità pari alla lungimiranza politica. Alle nostre spalle, insomma, sta una declinazione del ius sanguinis che dovrebbe farci riflettere: e, io credo, pure vergognarci di quel che a volte accade di sentir dire. Conoscere il passato può essere utile anche per questo.


-  Pesaro anticipa la legge
-  "Qui i figli di immigrati saranno cittadini onorari"
-  E Napolitano: è un esempio da imitare

-  Il presidente della Provincia ha ideato l’iniziativa. "Grillo? Parla alla pancia, non al cervello"
-  Attestato ai 4.536 bambini nati negli ultimi dieci anni
-  Con il Tricolore e la Costituzione

di Jenner Meletti (la Repubblica, 26.01.2012)

PESARO - Piange come un disperato, Marhio, nato 3 mesi fa. Aspetta la poppata, non gliene importa nulla di diventare «cittadino onorario» di questa città sul mare. Ma sarà invitato anche lui, assieme al papà e alla mamma romeni, alla festa che si terrà presto, forse al palazzo dello sport. A 4.536 bambine e bambini nati nel pesarese negli ultimi dieci anni verranno consegnati un «attestato» che dichiara la loro cittadinanza italiana, una bandiera, una copia della Costituzione e anche una maglietta della Nazionale di calcio. L’attestato non sarà purtroppo un documento ufficiale, perché quel «ius soli» che negli Stati Uniti e in Francia dà diritto di cittadinanza a chi viene alla luce in quelle terre, in Italia viene annullato dallo «ius sanguinis». Ma è un passo avanti, è la firma di un impegno.

«Quando ho proposto questa iniziativa - dice Matteo Ricci, 37 anni, presidente della Provincia di Pesaro - ho utilizzato le stesse parole del Presidente: "Chi nasce in Italia è italiano". E dal Quirinale adesso è arrivata una risposta che ci spinge ad andare avanti». «La vostra - questo il messaggio di Giorgio Napolitano - è una iniziativa di grande valore simbolico. C’è da augurarsi che questo esempio possa essere seguito anche da altre realtà territoriali».

Certe idee, come le piante, nascono solo se il terreno è quello giusto. «Mio nonno Luciano - racconta il presidente della Provincia - ha lavorato per otto anni nelle miniere di carbone del Belgio. Quasi tutta la periferia di Pesaro è stata costruita da emigranti partiti subito dopo la guerra per lavorare in Svizzera e in Germania e poi tornati a casa quando qui si è avviata l’industria del mobile. Operai che sabato e domenica diventavano muratori e pagavano pietre e cemento con i soldi guadagnati negli anni dell’emigrazione. Come i romeni, gli albanesi, i marocchini di oggi».

Ci sono 34.700 residenti stranieri su 360.000 abitanti, in questa provincia. Impegnati alla Scavolini e alla Berloni e anche nell’edilizia. «Ma quest’ ultima è quasi ferma - dice Ricci - e tanti albanesi e romeni sono tornati a costruire case nella loro terra. Non è un caso che il Presidente abbia pronunciato quella frase così netta mentre stava aprendo la strada al nuovo governo. Dare la cittadinanza a chi nasce in Italia è una questione di civiltà - e con la nostra iniziativa faremo pressioni sul Parlamento - ma anche un segnale contro la crisi. Da questa si può uscire con più egoismo e solitudine oppure con più giustizia e solidarietà. Bisogna puntare sui valori, non solo sui numeri».

Si aspetta il ministro Andrea Riccardi, al grande incontro con i nuovi piccoli italiani. «L’altro giorno siamo stati assieme ai senegalesi, per un abbraccio dopo la strage di Firenze. Alla fine una bimba senegalese, avrà avuto cinque o sei anni, ha cantato "Fratelli d’Italia", e conosceva tutte le parole. Meglio dei miei due figli, Camilla e Giovanni. Come puoi dire, a quella bambina, che non è italiana? Come può, un Beppe Grillo, negare il "ius soli" a un milione di bimbi che sono nati nel nostro Paese? E’ solo un populista che parla alla pancia degli italiani, non al cervello e al cuore».

Marhio non piange più, nella sua casa di via Agostini, vicino al mare. Di fronte a lui abita Jurghen - nome tedesco perché suo papà Ardian, partito dall’Albania, ha lavorato anche in Germania - che è nato a Pesaro, frequenta la quinta elementare e dice subito che l’idea della cittadinanza onoraria gli piace molto. «E’ una cosa giusta - dice pesando le parole come se scrivesse un tema a scuola - anche perché io sono italiano. E anche albanese. Ho fatto l’asilo, la materna, il prossimo anno comincerò le medie. Con i miei compagni parlo anche in dialetto, e nessuno mi ha mai detto "albanese" come fosse un insulto». Il papà e la mamma Valbona, operaio e aiuto cuoca, raccontano che Jurghen «faceva ridere» i nonni, quando d’estate tornava a Tirana. «Provava a parlare albanese e nessuno capiva». «Ma adesso sono più bravo. Ogni tanto guardo la televisione dell’Albania, e anche i dvd con i cartoni animati, così imparo nuove parole. E poi sono ancora giovane, imparo presto. Quando vado dai nonni, dopo un paio di settimane riesco a parlare quasi come gli altri, e non li faccio più ridere». Una bandierina con l’aquila nera su fondo rosso in cucina, una grappa albanese da offrire agli ospiti. «Ma noi in casa parliamo italiano - dicono Valbona e Ardian - perché questo è il nostro Paese. Nostra figlia più grande sta facendo l’università a Urbino».

La cittadinanza per i figli dovrebbe essere «una cosa naturale». «Vorremmo che i nostri figli fossero considerati una ricchezza, non un problema. Andando a scuola con loro si potrebbero imparare tante lingue, che al giorno d’oggi sono così utili per trovare lavoro». Solo qualche volta, nell’appartamento di via Agostini, si ascoltano parole arrivate dall’altra parte dell’Adriatico. «Quando mi arrabbio con Jurghen, lo sgrido in albanese. "Riurtè, mjaft", stai fermo, basta. E lui ride, fa finta di non capire».


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