Immigrazione: smontiamo i luoghi comuni
Un prontuario contro le frasi fatte
di Giuseppe Civati (l’Unità, 03.02.2010)
Concita De Gregorio, rifacendosi a un’antica lezione di Vittorio Foa, ricordava giorni fa l’importanza delle parole e la necessità di restituire al linguaggio della politica il senso che ha ormai perduto. Grazie allo straordinario contributo di Berlusconi e della Lega, i “luoghi comuni” sono slogan elettorali e frasi da ripetere in ogni occasione, secondo il noto principio per cui un’informazione ribadita un milione di volte diventa comunque “vera”. Con loro e con il loro governo, le “frasi fatte” (e non verificate), diventano proposta politica a tutti gli effetti. Al Pd e al centrosinistra troppo spesso sono mancate le parole per opporsi e sono venuti meno l’orgoglio di difenderle e la volontà di riportare il discorso pubblico a una dimensione di razionalità e comprensibilità. Anche per questo abbiamo realizzato un prontuario dedicato all’immigrazione (in rete anche sul sito www.unita.it) e che vuole rovesciare i luoghi comuni («mandiamoli a casa loro», appunto), le frasi dette al bar o dal podio di un ministero, le espressioni che da triviali diventano politiche.
«Ci rubano il lavoro», «ci portano via le donne», «vivono alle nostre spalle», «gravano sul nostro welfare», «sono tutti criminali». Tutte “verità” che molti ripetono, senza che nessuno dica loro che sono sbagliate. La stessa parola “clandestino”, una delle più potenti intuizioni del governo e delle più influenti sul modo di pensare degli italiani. «Basta la parola»: e tutti gli immigrati irregolari, sprovvisti di permesso di soggiorno, diventano persone malintenzionate e, finalmente, criminali. È l’esempio più chiaro: non sono irregolari, sono “clandestini”, “quasi” criminali, quindi è il caso di inventare il reato di “clandestinità” per definirli. Non importa se si tratta di lavoratori in nero, non importa se in molti casi si tratta di lavoratori regolari che, perdendo il lavoro, “clandestini” lo diventano, non importa che le cose siano più complesse e che quasi tutto sia dovuto al solerte impegno di molti italiani e di molte leggi che fanno di tutto per tenerli nelle condizioni di “clandestinità”. Gli stranieri «sono troppi» (anche se nessuno sa bene quanti), e le ronde «ci vogliono» (anche se sono del tutto inutili), e i barconi «vanno respinti» (anche se quasi tutti arrivano con il visto turistico per altre vie).
Un altro punto di vista è necessario e urgente: perché arrivino anche al bar, provenendo dalla rete, dove questa iniziativa nasce, grazie all’intuizione di un mio omonimo, Andrea Civati (Varese), e al lavoro di Ernesto Ruffini (a Roma), Ilda Curti e Roberto Tricarico (a Torino), Carlo Monguzzi (in Lombardia). Ecco il famoso radicamento nel territorio. Che non è piantare bandiere per le strade, come si sente spesso ripetere, ma saperle “piantare” nella testa delle persone, come voleva un esperto di marketing, un secolo e mezzo fa. Si chiamava Friedrich Engels.