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GERUSALEMME E LA SFIDA DI NETANYAHU. Un modo di dare "a Hitler vittorie postume" (Emil L. Fackenheim)

mercoledì 24 marzo 2010
Netanyahu sfida Obama a Washington: «Gerusalemme è la nostra Capitale» *
Continua la sfida del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, al governo Usa e alla comunità internazionale: alla vigilia dell’incontro odierno alla Casa Bianca con Barack Obama, previsto per stasera, Netanyahu ha detto (...)

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> GERUSALEMME E LA SFIDA DI NETANYAHU. Un modo di dare "a Hitler vittorie postume" (Emil L. Fackenheim) --- Varrebbe la pena di dirgli: congratulazioni (di Lucia Annunziata - Equilibri stravolti).

martedì 1 giugno 2010

Equilibri stravolti

di LUCIA ANNUNZIATA (La Stampa, 1/6/2010)

C’era una volta la capacità di Israele di eseguire operazioni militari con il minimo di spargimento di sangue e il massimo di successo. Un esempio, l’«operazione Entebbe» del 4 luglio del 1976, in cui 100 uomini delle forze speciali di Israele sottrassero ai palestinesi 103 su 105 ostaggi ebrei, dopo aver percorso 4000 km in volo senza farsi intercettare dai radar di mezza Africa, e dopo solo 90 minuti di azione di terra. Oggi quello stesso esercito non riesce più nemmeno a fermare una piccola flotta di pacifisti senza fare una strage.

Fra i due episodi un legame evocativo: a Entebbe l’unico morto ebreo fu il comandante del commando, il leggendario Jonathan Netanyahu; l’operazione sanguinosa di Gaza oggi è invece il suicidio politico del fratello minore di Jonathan, il premier Benjamin (Bibi) Netanyahu. Israele è terra di famiglie, terra di storia accelerata e drammatica. Il nesso fra i due Netanyahu, i loro ruoli e il loro successo o no, è una vicenda che misura nello spazio di una generazione familiare le evoluzioni del Paese. Le più rilevanti delle quali riguardano proprio, in maniera intrecciata, l’esercito e la leadership di Israele.

L’operazione Gaza nasce infatti nel segno dell’indebolimento delle forze armate israeliane. Operazione non pensata, non preparata, eseguita con il personale sbagliato - militari invece che poliziotti, tecnica di assalto invece che semplice blocco navale - e, soprattutto, con uomini privi di senso della realtà: soldati che rispondono con il fuoco alla resistenza con sbarre di ferro sono uomini impauriti, confusi sulla propria missione. Cioè l’esatto contrario di un addestrato corpo scelto.

L’indebolimento della forza militare di Israele si è del resto fatto progressivamente sempre più visibile nelle ultime guerre. L’invasione del Libano fu mal calcolata, sanguinosa anche per l’esercito ebraico e, alla fine, non vittoriosa - solo la mediazione internazionale rimise insieme i cocci e la reputazione del governo di Gerusalemme. La successiva invasione di Gaza è stata sproporzionata, inutile e, anche questa, priva di sostanziali risultati. L’indebolimento della supremazia militare israeliana è una delle maggiori evoluzioni strategiche del Medio Oriente e, come si è visto ieri, si rivela un fattore di pericolo per tutta l’area, ma anche per la stessa Israele.

Che ci sia un profondo intreccio fra debolezza militare e indebolimento della leadership è fatto innegabile. Dopo l’ultimo vero leader militare e politico, quel Rabin che piegò la prima Intifada, ma si piegò lui stesso agli accordi di pace, la guida di Israele oscilla fra pragmatici, un po’ corrotti, e superideologizzati, come Netanyahu. La mancanza di un chiaro sbocco per il futuro provoca l’ansia, la confusione, e l’autoritarismo da cui nascono tutte queste guerre sbagliate.

In questo senso il Primo Ministro di Israele è profondamente responsabile di quel che è successo nel mare davanti a Gaza, anche se era in Canada. Sua è la responsabilità di un leader che naviga a vista, e che non sembra capire la possibilità degli eventi di precipitare. Le uccisioni di Gaza sono figlie della paranoia politica che, tra le altre cose, è stata rinforzata nell’ultimo anno dalla convinzione da parte di Israele di non avere più in Obama l’alleato che ha sempre avuto nei precedenti presidenti Usa. E proprio nel nuovo strappo che la strage ha causato nel rapporto con Washington c’è la migliore prova del boomerang che la strage sulla nave costituisce per il governo di Gerusalemme. Saltato è infatti l’incontro che proprio oggi doveva avvenire a Washington fra i due capi di Stato. Questo ultimo, il quarto in pochi mesi, era stato organizzato da Rahm Emanuel, capo dello staff della Casa Bianca, a riprova dei tanti fili ancora da riparare fra Washington e Gerusalemme. Netanyahu e Obama sono oggi invece ognuno a casa propria, e la crisi assume a questo punto una valenza regionale.

Il presidente americano, impegnato con la difficile situazione in Afghanistan, con le tensioni con l’Iran e quelle fra le due Coree e, in patria, con il disastro petrolifero e le elezioni a novembre, non ha né agio né tempo per aprire nuovi fronti. Per l’amministrazione affrontare (sia pur non risolvere) la questione palestinese è snodo cruciale per poter mettere sul tavolo della sua politica in Medio Oriente la prova di qualche progresso nel conflitto più storico. Per questa ragione Washington era riuscita il mese scorso a far digerire a Israele l’idea di una ripresa di colloqui di pace - in verità così sciolti da essere chiamati «proximity talks», fatti cioè attraverso l’inviato Usa George Mitchell. Questi colloqui, appena iniziati, dopo la strage, possono considerarsi chiusi.

Così come interrotti sono ora i rapporti fra Israele e Turchia, che è stato uno dei pochi interlocutori fra i Paesi musulmani di Gerusalemme. Con la conseguenza di spingere ulteriormente in direzione radicale l’orientamento della pubblica opinione di Istanbul. Non meglio esce il rapporto costruito fra Il Cairo e Israele. Finora infatti l’Egitto ha tenuto chiusa la sua frontiera di Rafah con Gaza, in silenzio/assenso alla politica israeliana di isolamento di Hamas. La pressione sull’Egitto a rompere questa politica è ora inevitabile. La strage di Gaza consegna, infine, ad Hamas la più seria vittoria di immagine finora conseguita dall’organizzazione.

La politica palestinese in Cisgiordania e Gaza è profondamente diversa, dopo la rottura che ha opposto Hamas a Fatah. Negli ex Territori Occupati, il Presidente e il primo ministro Fayyad, riconoscono Israele, hanno mantenuto aperti i canali di negoziazione, hanno acquisito una parte di diritto di governo indipendente, in un’alleanza con i governi occidentali. A Gaza invece Hamas è fisicamente accerchiata, è disconnessa per scelta da ogni contatto con Israele, la cui esistenza non è stata mai legalmente riconosciuta, e guarda come alleato principale all’Iran. Da queste differenze sono nate guerre intestine pesanti: Fatah ha fatto prigionieri, torturato e ucciso gli uomini di Hamas - e viceversa, a Gaza. Secondo informazioni recenti, è in corso fra le due fazioni anche un’intensa guerra di spie per boicottare l’uno l’altro. In questa guerra semisegreta Egitto e Usa sono stati finora al fianco dei Palestinesi in Cisgiordania, nella speranza che la conquista di egemonia di Fatah su Hamas fosse l’unica soluzione per riprendere in mano la esplosiva Gaza.

La divisione fra Palestinesi in questi ultimi anni è stata insomma un bonus per il governo di Gerusalemme. La strage di Gaza cambia gli equilibri di nuovo, e consegna la bandiera morale al radicalismo di Hamas e, dunque, dell’Iran.

Se non fosse che Bibi è in queste ore già un politico mezzo morto, varrebbe la pena di dirgli: congratulazioni. Dopotutto ci vuole una grandiosa incapacità per rompere un intero equilibrio regionale, tutto, e tutto insieme.


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