Dobbiamo sognare come Arna Mer
di Dacia Maraini (Corriere della Sera, 30.11.2010)
Ci sono delle persone che vale la pena di conoscere, anche se solo sulla carta. Arna è una di queste. Chi era Arna Mer? Una israeliana sposata a un palestinese, una donna che per tutta la vita ha sfidato i divieti, gli odi, le bombe, le denunce, ribadendo la sua ebraicità e nello stesso tempo l’amicizia, la solidarietà nei riguardi del popolo palestinese: da Haifa al campo profughi di Jenin e viceversa, tutti i giorni, questo il suo percorso, creando prima una scuola per bambini, «Care and learning» e poi un teatro, «Il teatro della libertà». Arna è stata chiamata «una coscienza viva e parlante». Ma qualcuno l’ha definita anche «una scheggia impazzita». Il suo comportamento, è chiaro, non poteva piacere ai fanatici. La sua scuola è stata piu volte danneggiata. Lei stessa è stata picchiata dai soldati israeliani, come quella volta che, raccontano i testimoni, sbarrò l’ingresso della classe con il suo corpo per impedire ai militari di entrare. Il suo teatro è stato ridotto in macerie e poi ricostruito dal figlio Juliano. «Arabi e israeliani hanno donato materiali da costruzione, sono arrivati volontari da tutte le parti e in meno di un mese è stata creata una sala di 150 metri quadrati», racconta il figlio che oggi è un attore famoso e stimato in Israele.
Arna, sfidando i coprifuoco e le paure, invitava docenti di Tel Aviv a parlare di teatro, a insegnare i segreti della fotografia. Sul palco i bambini imparavano a recitare anziché lanciare pietre. «Ogni tanto Juliano arrivava con un minibus, prelevava i membri della compagnia e insieme andavamo a vedere un film a Tel Aviv o al Luna Park. Era come il viaggio di Alice nel paese delle meraviglie».
Arna Mer è morta di cancro nel 1995. I bambini chiesero piu volte di poterla visitare in ospedale, ma non fu loro permesso, salvo una volta, e fu il giorno prima che morisse. «Questa pace non vale nulla», disse ai bambini, «se non si raggiunge la completa uguaglianza fra palestinesi e israeliani». Il figlio Juliano ha proseguito la sua opera. Anche lui ha fatto la spola fra Haifa e il campo profughi di Jenin, insegnando ai bambini l’arte del teatro, riuscendo a mettere insieme una compagnia teatrale vitale e felice, una oasi nella landa desolata dei vicoli stretti del campo profughi. L’esperienza è durata sette anni. Poi «tutto è andato storto».
Tutto ciò che conteneva fratellanza si è trasformato in odio, tutto ciò che conteneva vita si è trasformato in morte e assassinio. «Degli otto attori che si muovevano con felicità sul palco, cinque sono morti. Non sono stati assassinati. Nessuno di loro era ingenuo (non esiste ingenuità nei campi profughi) quasi tutti erano armati. Ma almeno per un certo periodo di tempo hanno sognato in mezzo alle fogne e ai rifiuti. Ora l’edificio del teatro è stato definitivamente distrutto, gli attori scomparsi, lo spettacolo finito». Quanto c’è di irraggiungibile e quanto di fattibile nel sogno di Arna Mer? Quanto possono andare avanti con l’odio e il sospetto due popoli parenti che dovrebbero imparare a convivere?