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LA FIOM CGIL, LA FIAT, POMIGLIANO, E IL SOGNO ATEO-DEVOTO DELLA "SOVRANITA’ PRIVATA" DELL’IMPRENDITORE-PAPA. Un’analisi di Carlo Clericetti, con alcune note.

martedì 15 giugno 2010
L’ANALISI
Mano libera in fabbrica
di CARLO CLERICETTI (la Repubblica, 14.10.2010)
"Ho fatto un sogno". Nessun imprenditore italiano ha ripetuto la frase dello storico discorso di Martin Luther King sulla fine della discriminazione razziale, ma si può star certi che la maggior parte l’ha (...)

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> LA FIOM CGIL, LA FIAT, POMIGLIANO, ---- UN’INTESA CHE MINA LA COSTITUZIONE (di Tania Groppi) - LA GLOBALIZZAZIONE E IL RITORNO DI MARX (di Loretta Napoleoni).

mercoledì 16 giugno 2010

È un’intesa che mina l’essenza della Costituzione

Oggi in Italia la questione sociale si salda con quella democratica. Le regole della nostra Carta sono poste a tutela dei soggetti deboli, difendiamole

di Tania Groppi, costituzionalista (l’Unità, 16.06.2010)

L’accordo proposto dalla Fiat ai sindacati per trasferire dalla Polonia a Pomigliano la produzione della Panda tocca un nervo scoperto del sistema italiano delle relazioni industriali. Ma non solo. Esso è sintomatico di una tendenza che sembra inarrestabile, volta a mettere in discussione l’essenza stessa della Costituzione italiana.

L’aspetto più evidente, ovviamente, è l’impatto, sulla pelle dei lavoratori, della globalizzazione sfrenata, con la “concorrenza al ribasso” che porta con sé. Al contempo, l’intero sistema-paese viene attratto in un gorgo che, allo scopo di intercettare capitali, gli impone di ridurre quelle garanzie dei diritti sociali che rappresentano uno degli assi portanti della vigente Costituzione repubblicana.

Che sia necessaria una riflessione sul futuro dello Stato sociale, nel mondo globale, non è certo una novità. Ma una cosa è cercare di esplorare vie per assicurare la compatibilità tra libero mercato e garanzia dei diritti, un’altra è, semplicemente, svuotare o stravolgere le regole esistenti. E ciò tanto che lo facciano soggetti privati (come in questo caso) o titolari del potere politico (come nella recente, e ancora aperta, vicenda dell’art. 41 Cost.).

Ed è qui che la questione sociale si salda, oggi in Italia, con quella democratica. Ovvero con la necessità di difendere le regole della democrazia costituzionale. Regole che sono poste a tutela dei soggetti deboli, siano essi le minoranze politiche o i lavoratori.

Quando un primo ministro dice, ripetutamente, per anni, che governare con le regole che la Costituzione impone è un inferno. Quando queste regole vengono violate ripetutamente, sia attraverso le ordinanze di necessità di urgenza, che con i decreti legge, che con i maxiemendamenti su cui si appone la fiducia, che con leggi ad personam... Quando questa è l’attitudine verso le regole della convivenza dei massimi titolari del potete politico, il rischio che anche i soggetti privati pensino di poter impunemente disattendere le regole costituzionali si fa concreto. Una Costituzione delegittimata, ridotta a un’inutile rete di lacci e lacciuoli. Una Costituzione vecchia, adatta per un’Italia che ormai non esiste più. I suoi difensori dei retrogradi parrucconi conservatori che conducono una battaglia di retroguardia. Ecco il messaggio che deve passare.

A questo punto, ad essere messe in discussione non sono solo le singole regole costituzionali, ma la stessa essenza del patto di convivenza su cui si basa la nostra Repubblica, come Stato democratico e sociale, fin dall’articolo 1, «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Ma se così è, deve essere chiaro che la battaglia per la difesa della Costituzione e la battaglia per i diritti dei lavoratori non possono che andare di pari passo.


-  Sorpresa: è tornato Carlo Marx

La vicenda di Pomigliano sta riportando d’attualità vecchie espressioni come lo scontro fra capitale e lavoro. Il guaio è che la globalizzazione è entrata in una nuova fase ma l’Italia non l’ha capito

di Loretta Napoleoni (l’Unità, 16.06.2010)

La previsione. Se la torta non viene divisa più equamente, la crescita si blocca e nessuno mangia più. Lo aveva detto un certo Marx due secoli fa

Riparte la lotta operaia lungo la catena di montaggio che ormai unisce l’est all’ovest. I metalmeccanici cinesi strappano alla Foxconn e all’Honda concessioni importanti verso la creazione di uno statuto dei lavoratori che i nostri operai invece stanno per perdere. Le stesse forze che applaudono alla vittoria cinese in occidente, incitano gli italiani a rinunciare ai privilegi conquistati in decenni di lotte. Ecco l’ultimo atto canaglia dell’economia globalizzata, e per conciliare questi atteggiamenti incompatibili non si esita a suggerire di cambiare la Costituzione. Peccato che questa contraddizione sia irrisolvibile con i tagli alla Costituzione o ai costi di produzione. Non si illudano politici e alcuni industriali: la crisi è sistemica, e se non viene risolta da entrambi i fattori dell’equazione produttiva: capitale e lavoro, tra dieci anni il nostro capitalismo potrebbe non esistere più. I destini degli industriali e degli operai occidentali sono tornati a incrociarsi.

Per vent’anni la formula della globalizzazione è stata: taglio dei tassi d’interesse e delocalizzazione, un’equazione che ha evitato al capitalismo, quello vero, non il suo avatar finanziario, di confrontarsi con il suo nemico numero uno: la caduta tendenziale del saggio di profitto. Marx ne parla a lungo, ma anche Smith e Ricardo accennano a questo virus che si rafforza con il dilagare della produzione meccanizzata. Meno lavoro umano si utilizza nella produzione, meno grasso sarà il profitto; l’uomo e la sua intelligenza hanno un valore aggiunto superiore alla macchina.

Gli asiatici lo sanno bene, noi ce ne siamo dimenticati. La Honda e la Foxconn si piegano ai voleri degli operai cinesi invece che rimpiazzarli con nuove tecnologie o delocalizzare la produzione in Vietnam perché il valore aggiunto della manodopera cinese è ancora imbattibile. Per produrre autovetture ed ipod di prima qualità ci vuole, per dirla alla Adam Smith, la mano “magica” dell’operaio specializzato.

La disputa tra capitale e lavoro alla Fiat è solo l’anteprima di ciò che ci aspetta nei prossimi anni se non ci decidiamo a risolvere il problema della caduta tendenziale del saggio di profitto. Con i tassi d’interesse ormai a zero l’unico modo per contrastarla è tagliare il costo del lavoro, già ridotto all’osso. Delocalizzare in Cina o in Asia non è più così conveniente, ce lo confermano gli scioperi a Shenzhen, si rischia di ritrovarsi con le stesse dispute dall’altra parte del mondo. È vero, ci sono sempre i Paesi dell’ex est europeo: Polonia, Serbia, Slovacchia dove un operaio guadagna ancora 350 euro al mese e dove la vita è quasi tanto cara quanto a casa nostra. Questa la minaccia della dirigenza Fiat: chiudiamo Pomigliano e ce ne andiamo tutti in Polonia, la Panda invece che nel mediterraneo la facciamo a due passi dal Baltico.

Il discorso non fa una piega, peccato che non si sia preso minimamente in considerazione il mercato di sbocco. Ecco l’altro grande ostacolo del capitalismo: il mercato di sbocco, un volano industriale che bisogna conquistarsi con crescente difficoltà. Quello cinese si chiama mercato interno: un miliardo e 300 milioni di operai. Anche in Italia un tempo si chiamava nello stesso modo. Negli anni del miracolo economico la Fiat produceva utilitarie che poi vendeva a quella classe media ed operaia che l’aiutava a produrle.

Il capitalismo, ricordiamolo, prende il nome dal capitale, ma altro non è che il prodotto del rapporto tra questo e il lavoro: l’uno senza l’altro non possono esistere. Se togliamo la fabbrica agli operai italiani e paghiamo 350 euro a quelli slovacchi, la moderna utilitaria chi la comprerà? È una domanda che tutti gli industriali dovrebbero porsi. E prima di guardare oltralpe, facciamo due conti con la concorrenza. La Fiat non è la Toyota che da vent’anni produce macchine ibride, non è neppure la cinese Grenley che si è comprata la Volvo. Non ha né il prodotto, né i muscoli per competere a livello internazionale con i vecchi e nuovi giganti dell’auto. E, ahimé, questo discorso vale un po’ per tutta la nostra industria che negli ultimi anni ha perso lustro e fatica a sostenere la concorrenza agguerrita degli asiatici.

La grande sfida della seconda fase della globalizzazione si chiama mercato nazionale, come difendere capitale e lavoro in un’economia mondiale tendenzialmente canaglia? L’Italia non è la Germania, terzo esportatore al mondo, ma è un Paese dove c’è ancora voglia di lavorare, dove la classe media e quella operaia sono più povere che vent’anni fa, dove un insegnante di liceo guadagna 1200 euro al mese. C’è spazio quindi per la crescita economica, ma per averla bisogna che la torta venga divisa più equamente, le briciole non bastano più. Se non lo facciamo, nessuno mangerà più: l’ha predetto due secoli fa Carlo Marx.


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