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ECOLOGIA: GRANDE EMERGENZA AMBIENTE . Per il 21 giugno, Giorno della Pace, un appello ai leader religiosi e spirituali di tutto il mondo - del Leader spirituale della Nazione Lakota, Arvol Looking Horse.

martedì 15 giugno 2010
Appello di un capo indiano Cheyenne, guida spirituale della Nazione Lakota
Ai leader religiosi e spirituali di tutto il mondo
[premessa e cura ] di LUISELLA GARDA *
DALLA guida spirituale di un popolo sconfitto dal­la storia ufficiale e relegato ai margini della società arrivano parole di una (...)

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> ECOLOGIA: GRANDE EMERGENZA AMBIENTE . ---- la miopia, l’incapacità o la non volontà di progettare il futuro (di Nadia Urbinati - Ecologia e ambiente, obiettivi dell’equità)

giovedì 17 giugno 2010

Ecologia e ambiente, obiettivi dell’equità

di Nadia Urbinati (la Repubblica, 15.06.2010)

I disastri naturali ed ecologici sono l’imprevedibile che mette a dura prova la politica dettando le forme e i costi degli interventi, imponendo la sua temporalità. Come le guerre, sono un’alterità radicale rispetto alla politica. L’istituzione di agenzie di intervento rapido e di soccorso, come la nostra Protezione Civile, sono nel migliore dei casi efficaci nel tamponare gli effetti del disastro e, come si dice con un tono ottimistico che a volte rasenta il cinismo, aiutare il ritorno alla normalità. Nel frattempo, milioni di persone soffrono e in molti casi perdono letteralmente tutto, come abbiamo visto in Abruzzo, Louisiana, Haiti e nei numerosi luoghi devastati dai cataclismi.

Ma è proprio corretto parlare di imponderabile e imprevedibile? La domanda è retorica nel caso dei disastri ecologici poiché qui il fattore umano, colpevole o negligente che sia, è determinante. Secondo Anthony Giddens, che è intervenuto recentemente al 20th European Annual Meeting di Amalfi organizzato dal Dipartimento di Studi Politici dell’Università la Sapienza, la scienza sociale e la politica farebbero bene a considerare le questioni climatiche come parte delle politiche sociali, insieme ai disastri ecologici e ai cataclismi naturali, non perché si sia in grado di determinare un rapporto causale tra loro, ma perché il mutamento climatico, i disastri ecologici e la crisi energetica ed economica sono incasellabili come emergenze del nostro tempo tra loro integrate. Di fronte alle quali, secondo Giddens, la politica dimostra tutta la sua deprimente inconsistenza, persa a gestire, spesso molto male, l’amministrazione quotidiana, stordita in un letargo che la tiene fissa al bricolage del presente.

La politica ha perso o deperito la vocazione a progettare e indirizzare la società civile e l’economia verso un fine che dovrebbe essere quello di realizzare le promesse democratiche: più eguaglianza, più o meglio distribuito benessere. Ma l’appello alla politica non deve essere inteso come un appello al ritorno del "big government", però. Giddens è stato tra i padri fondatori della "terza via" che ha messo sotto accusa lo statalismo sociale e non ha alcuna intenzione di rovesciare la propria posizione. La sua proposta è quella di applicare la partnership pubblico-privato, mercato-stato che era della terza via, alle questioni ecologiche e dei mutamenti climatici. Propone alla politica di riacquistare un’autorevolezza progettuale per porre regole, limiti e promuovere azioni di stimolo o di dissuasione; per impedire che il mercato sia solo nella cabina di regia.

Comprendere la natura della sfida del cambiamento climatico è essenziale. Secondo Giddens, questa sfida può essere governata riuscendo a portare il mercato a fare ciò che spontaneamente tende a non fare, soprattutto in casi come questi: considerare il futuro come una risorsa. La politica come correzione della miopia endogena all’economica. Progetto e regole, gli strumenti delle comunità politiche, sono improrogabili quando eventi solo in parte prevedibili o non prevedibili affatto travolgono la natura e la vita di milioni.

L’uragano Kathrina o il disastro ecologico del Golfo del Messico targato BP sono invariabilmente portatori di povertà o perché si abbattono su regioni povere (anche quando parti di uno stato non povero come gli Stati Uniti) o perché causano impoverimento o aggravano l’esistente povertà. La sfida è chiara e non c’è chi non condivida l’inadeguatezza degli strumenti fin qui usati. Lo stato sociale era organizzato secondo previsione più o meno certe, basate su una regolarità e normalità delle relazioni sociali.

Pensare al futuro era in qualche modo parte dell’investimento. Come si può incoraggiare il mercato a pensare in termini di futuro in situazioni di rischio radicale come sono quelle naturali? E’ proprio questa domanda che dovrebbe convincere a considerare i mutamenti ambientali e climatici come parte della elaborazione politica e sociale.

A provare che i cambiamenti climatici hanno cambiato i comportamenti economici tradizionali è il mutamento delle strategie delle assicurazioni: i rischi di alluvione, per esempio, sono diventati così alti che le assicurazioni coprono solo parzialmente o per nulla. Indubbiamente la frequenza e la gravità di queste calamità è messa in conto dalle assicurazioni (e questo vale ad ammettere che esiste una relazione tra mutamento climatico e disastri naturali) e se questo è vero, allora è urgente la riscrittura delle regole per indurre le compagnie assicurative a mutare le loro strategie.

Incoraggiare il mercato - quello delle assicurazioni in modo particolare - è un’impresa tutt’altro che facile come la battaglia di Barack Obama per una riforma sanitaria seppur minima ha dimostrato. È arduo convincere le corporations che si deve proteggere chi è vulnerabile; compito della politica è convincere che è conveniente farlo. Giddens propone esplicitamente di "assicurare i poveri" o i disastrati del mutamento climatico come si assicura la vecchiaia o la malattia. Questa sarebbe la nuova frontiera dell’utopia pragmatica: inserire l’ambiente e l’ecologia tra gli obiettivi dell’equità, come la salute o l’educazione. Fare dell’ecologia a un tempo un progetto di giustizia sociale e un progetto di innovazione tecnologica al servizio del benessere generale.

Il padre teorico della "terza via" - che la Regina d’Inghilterra ha da poco elevato a Lord - ha mantenuto intatta la fiducia nella partnership virtuosa di pubblico e privato per la costruzione di una società dell’equa condivisione di responsabilità rispetto alla vulnerabilità. Tuttavia questa volta l’aspetto utopico è molto più accentuato di quanto non lo fosse quando si trattava di rinegoziare lo stato dei servizi sociali. Anche perché quella terza via ci ha lasciato una politica che è indubbiamente più debole, al punto che, come assistiamo da due anni, gli stati democratici pare non abbiano sufficiente autorità per imporre ai mercati finanziari regole di trasparenza e di responsabilità verso la comunità. Il capitale finanziario non ha confini né patria, soprattutto è indifferente alla materialità e alla produzione di beni.

Perché dovrebbe sentire solidarietà per i vulnerabili dei cambiamenti climatici? E, poi, se i governi destinano finanziamenti per assicurare chi è colpito dalle catastrofi, non c’è il rischio che i disastri diventino cose economicamente vantaggiose e trattate come tali? C’è un assunto non detto nella "terza via" ecologica che non è convincente: che le corporations siamo mosse nelle loro decisioni da un senso civico o umanitario. E c’è un assunto ancor meno dimostrabile: che le relazioni di forza tra mercato finanziario globale e stati sovrani nazionali siano come tra partner equipollenti. E’ un fatto che gli stati sono sempre più impotenti di fronte ai mercati (luoghi di disastri altrettanto imprevedibili di quelli naturali). La politica è riflesso dell’economia anche nel senso che con l’economia essa condivide lo stato di miopia, l’incapacità o la non volontà di progettare il futuro.


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