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LA LEGGE ELETTORALE IN VIGORE (IL "PORCELLUM", LA "PORCATA") E " IL POTERE DI CHI VOTA". Una nota di Giovanni Sartori.

mercoledì 1 settembre 2010
Il potere di chi vota
di Giovanni Sartori (Corriere della Sera, 01.09.2010)
Che la legge elettorale in vigore sia una «porcata» è stato detto proprio dal suo estensore, il ministro Calderoli. È lui che mi ha dato l’idea di battezzarlo Porcellum. Ed è una porcata nel senso che è una legge (...)

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> LA LEGGE ELETTORALE ---- A che cosa serve un sistema elettorale? A vincere le elezioni o a stabilire delle regole del gioco valide per tutti? (di Gian Enrico Rusconi - Scusate, non siamo britannici).

giovedì 16 settembre 2010

Scusate non siamo britannici di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stampa, 16/9/2010)

A che cosa serve un sistema elettorale? A vincere le elezioni o a stabilire delle regole del gioco valide per tutti? Domanda ingenua.

La risposta «politicamente corretta» è ovviamente la seconda, ma i nostri politici sono fissati sulla prima. Questo spiega il frenetico discutere di sistemi elettorali a fasi intermittenti, ma soprattutto oggi. E insieme la certezza che non cambierà nulla. Infatti chi è beneficiario dell’attuale sistema elettorale non vuole rischiare, e non intende ragioni anche se ammette a denti stretti che l’attuale meccanismo è tutt’altro che ottimale. Siamo al brutto paradosso che per imporre eventualmente un sistema elettorale più intelligente, occorre prima vincere le elezioni.

Tutto questo è una patologia italiana? Lo pensano in molti, anche e soprattutto analisti stranieri. Ma parecchi di loro si sono ormai stufati di analizzarci. Hanno smesso di darci lezioni, perché siamo incorreggibili. Ci guardano con supponente benevolenza.

Meno male che c’è ancora un Bill Emmott che prende molto sul serio la situazione italiana e ci dà qualche consiglio. «Nessun sistema elettorale è infallibile - ha scritto l’altro ieri sulla Stampa - ma quello italiano con le sue "condizioni artificiali" è particolarmente fallimentare. Assolutamente sbagliato tuttavia sarebbe pensare di migliorarlo - dice - con l’introduzione del maggioritario puro all’inglese. Non soltanto perché questo non funziona neppure più in Inghilterra ma perché non risponderebbe alla "vera natura della società italiana"». L’intervento dell’analista inglese si conclude con una proposta pratica che - se ho capito bene - è una sorta di proporzionale dal basso, con scelta diretta dei candidati, senza la mediazione partitica, che rispecchi il pluralismo sociale, frenato tuttavia dallo sbarramento del 5%. Non è il caso ora di discutere della fattibilità di questa proposta operativa, mi preme invece andare alle premesse che stanno alla base del ragionamento.

Tutte portano al presupposto che esista una «Buona Italia» che attende soltanto il sistema elettorale adeguato, non artificiale o «naturale» per esprimersi. Mi sembra una simpatica ingenuità che non tiene conto delle ragioni che l’analista stesso porta per spiegare - da buon inglese - perché la vita politica in Gran Bretagna funziona nonostante si sia bloccato il suo classico (e un tempo ammirato) meccanismo maggioritario. La ragione è semplice ma decisiva. La vita politica inglese funziona perché esiste tradizionalmente «un’ampia accettazione delle regole politiche». Nel cuore profondo della società civile e della cultura politica. Ecco il punto. In Inghilterra esisteva «già il consenso perché il cambiamento fosse regolare e legittimo» - dice riferendosi al recente cambiamento di governo e di coalizione.

In Italia è esattamente l’opposto. Delegittimazione e ostilità verso l’avversario sono la sostanza della dinamica quotidiana che altera ogni rapporto. Ma dobbiamo porci la domanda: l’incapacità di avere il consenso di fondo sulle grandi regole è il prodotto di una classe politica irresponsabile e incapace o non riproduce qualcosa di più profondo? Malata è soltanto la politica o non piuttosto una società civile incattivita, desolidarizzata, disillusa, frammentata, ripiegata su interessi di parte? Come e perché si è arrivati a questo?

Alla luce di questi interrogativi il rapporto tra politica e società civile non può risolversi semplicemente nella ingegneria di un sistema elettorale che rifugga da «coalizioni artificiali», facendo emergere d’incanto «la vera natura della società italiana». Non esiste una «Buona Italia» che attende di essere rivelata. Quello che manca è una classe dirigente nazionale come tale - non solo in politica ma nell’economia, nelle imprese, nel sistema mediatico e dell’istruzione - che si assuma l’onore di costruire il consenso (costituzionale) sulle grandi regole prima e oltre ogni formula di governo. Se non abbiamo questa tradizione (come in Inghilterra), non c’è più tempo da perdere.

Trovo sano che, a differenza di molti analisti stranieri, Emmott non faccia della figura di Berlusconi l’epitome dell’Italia. Ma sbaglia a vedere il berlusconismo soltanto in chiave di «coalizione artificiale» in cui coesistono impulsi, attese e istanze contraddittorie che ora stanno implodendo. Il fatto che si stia vertiginosamente ridimensionando il mito del carisma comunicativo del Cavaliere e che oggi appaia come un affannato politico che deve tenere insieme i pezzi di un gruppo che era composto di zelanti «seguaci», non deve far dimenticare che - in questo modo - ha realizzato il ricambio di classe politica più radicale dal dopoguerra. Le conseguenze non sono ancora evidenti. Ma la sua è (stata) molto di più di una «coalizione artificiale». A ben vedere è stato anzi il tentativo di cancellare l’idea stessa di coalizione partitica per creare un «popolo di elettori», un nuovo demos che rivendicava addirittura il diritto di modificare le grandi regole costituzionali. In questo ha interpretato pulsioni profonde di settori importanti della società civile. Ora li lascia disillusi, frustrati per la sproporzione delle aspettative sollevate rispetto alla modestia delle cose realizzate. Ma non è ancora chiaro come finirà.


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